Belli. Sonetti. Momoriale ar Papa 4 febbraio 1832
Roma è la città del Papa, del Vice-Dio. Scrivono i critici, sulla scia del nostro poeta, “che Dio stesso non si può concepire che come un tiranno allegramente feroce, che crea gli uomini per dopo prendersi gioco di loro, e che ride a crepapelle se vogliono dare la scalata al Cielo, e che si diverte a tormentare inutilmente gli uomini, così come fece inutilmente morire sulla croce il Figlio”. La crocifissione di Gesù non ha redento il genere umano, spaccato in due dall’abisso delle differenti e incolmabili condizioni sociali. La Città del Papa, col caravanserraglio delle confessioni, delle indulgenze e dei giubilei e con la moltiplicazione dei santi, ha solo reso inutile il Diavolo. La Città del Papa è nata sulla città di Romolo e Remo, dell’odio fratricida. Resta la capitale di un “mondaccio” su cui grava il peccato di Caino, che ha protestato invano contro i privilegi di Abele, il preferito da Dio e l’ultra-raccomandato. Nella Città del Papa la disuguaglianza non è solo nelle ricchezze o nella possibilità di alimentarsi; si è disuguali anche di fronte alla religione, il peccato dei poveri vale poco nel mercato delle indulgenze. E se mai si può pensare di uscire da questa città e da questo mondo, si troverebbe moltiplicata all’infinito la nostra storia sacra e profana. E se gli altri mondi fossero mai abitati, il Papa penserebbe ad estendervi il suo dominio, ad allargare i confini del suo potere”.
Belli ha voluto rappresentare il Papa vedendolo da tutti i lati. E quando lo colloca più su della cronaca spicciola, quando lo vede nella situazione fantastica fondamentale del suo dramma, allora il personaggio assurge all’altezza non solo della commedia ma della tragedia romana. La teocrazia come tirannide senile.
E’ chiaro alla coscienza del nostro poeta che l’inattuabilità del progresso a Roma è dovuta all’onnipotenza del papa, il proconsole di Dio. E in tanti modi sono spiegati i simboli e le forme di questo immenso potere vòlto all’oppressione dell’uomo. Il sostantivo “papa” è in assoluto la parola più citata nei sonetti belliani, a rimarcare l’ossessiva presenza del Vicario di Cristo. Nella sua doppia natura di capo spirituale e politico, o –se si vuole- di capo politico in quanto spirituale, egli dovrebbe essere l’uomo più impegnato e sollecito a risolvere il problema della divisione in classi e dell’ingiustizia: invece è sempre uguale a se stesso, eterno e immutabile, chiuso nel suo sovrano disinteresse per l’umanità dolente, teso solo a realizzare il suo sogno di potenza. In margine al sonetto, “Cosa fa er papa?”, Belli scrive una nota che dovrebbe far accettare la scoperta eterodossia dei suoi versi all’eventuale opinione pubblica: “Se fosse vero quello che qui asserisce il nostro romano, potrebbe San Pietro ripetere quanto già disse di Bonifacio: “Quegli che usurpa in terra il luogo mio,/ Il luogo mio, il luogo mio che vaca / Nella presenza del Figliuol di Dio”, stendendo una cortina fumogena e nascondendosi dietro il severo giudizio di Dante.
A un sovrano di questo tipo quali sudditi possono corrispondere? Se lo scandalo irrimediabile è nella testa del corpo sociale, come meravigliarsi se poi nel popolo trionfano l’indolenza e l’apatia? Il papa proiettandosi nell’aldilà dà al Belli l’idea di Dio, il popolano romano proiettandosi nella storia diventa Caino, l’infelicità umana proiettandosi nell’eternità diventa l’ossessione dell’inferno. Non sarà una casualità inspiegabile ma lo Stato del Papa vedrà nascere nei suoi confini, nello stesso decennio, Belli e Leopardi, rappresentanti importantissimi, anche se diversi tra loro, del pessimismo di estrazione post-illuministica del XIX° secolo.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –diceva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Belli, “Sonetti”, edizione critica a cura di Gibellini, Felici, Ripari, Einaudi, 2018.
Momoriale ar Papa 4 febbraio 1832
Papa Grigorio, nun fa ppiù er cazzaccio:
Svejjete da dormì Ppapa portrone.
San Pavolo t’ha ddato lo spadone,
E ssan Pietro du’ chiave e un catenaccio? 4
Duncue, a tté, ffoco ar pezzo, arza cuer braccio
Su ttutte ste settacce bbuggiarone:
Dì lo scongiuro tuo, fajje er croscione,
Serreje er paradiso a catenaccio. 8
Mostra li denti, caccia fora l’oggne,
Sfodera una scomunica papale
Da fàlli inverminì com’e ccaroggne. 11
Scommunica, per cristo e la madonna!
E ttremeranno tutti tal e cquale
Ch’er palazzo der prencipe Colonna. 14
Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).
Un memoriale per il Papa
Papa Gregorio XVI, non fare più il cazzone: svegliati dal sonno, papa poltrone. San Paolo ti ha dato lo spadone e san Pietro due chiavi e una catena? Allora, lo dico a te, fuoco al cannone, alza quel tuo braccio per punire tutte queste sette maledette: dì i tuoi scongiuri, fa loro quel tuo gran segno di croce, per loro metti le catene al Paradiso. Mostra i denti, caccia fuori le unghie, sfodera una scomunica papale tanto da farli morire pieni di vermi (questa era una credenza popolare romana). Usa la scomunica, per Cristo e per la Madonna! E tutti tremeranno nello stesso modo nel quale trema il palazzo del principe Colonna (questo passaggio merita una spiegazione: era credenza popolare a Roma che ogni anno, nella vigilia di San Pietro, il Papa scomunicasse il re di Napoli per il mancato pagamento della chinea, il tributo dell’investitura feudale. Mentre il papa proferiva la formula tremava il palazzo del principe Colonna, che era stato Contestabile del Regno di Napoli).
Analisi.
I sanfedisti sono arrabbiati con il papa, da loro ritenuto troppo debole e irresoluto (un portrone, v. 2) nei confronti dei pericoli rivoluzionari. E Belli qui immagina che uno di loro proferisca ad alta voce una supplica molto particolare. Dunque papa Gregorio viene esortato a impugnare la spada di San Paolo e le chiavi di San Pietro per ingaggiare una lotta mortale e definitiva contro le sette liberali, una battaglia la cui chiave di volta è la parola-rima “catenaccio” che non a caso chiude le due quartine, le sigilla a rappresentare emblematicamente una chiusura metafisica e ideologica della realtà storica e dell’entità sovrannaturale.
Il poeta disegna una figura tremenda di pontefice, torva, feroce, digrignante e ungulata (Mostra li denti, caccia fora l’ogne, v. 9). Nelle quartine è invitato a dare l’ordine di sparare col cannone contro i nemici della Chiesa; e insieme a tracciare in aria un segno di croce (er croscione) che da gesto benedicente dovrebbe tramutarsi in un gesto di condanna eterna alle pene infernali. E nelle terzine dovrebbe tirar fuori una bella scomunica facendo tremare e riempire di vermi i sovversivi. Con un linguaggio durissimo, con una sintassi spezzata, il popolano infila una serie martellante di imperativi: svejjete da dormì (v. 2), arza cuer braccio (v. 5), dì lo scongiuro tuo, fajje er croscione (v. 7), serreje ar paradiso (v. 8), mostra li denti, caccia fora l’ogne (v. 9), sfodera una scommunica papale – scommunica, per Cristo e la Madonna (vv. 10 e 12).
A conclusione della stagione rivoluzionaria del 1831-’32 il papa emanerà effettivamente una bolla di scomunica di chi ha messo in pericolo “la sovranità della Santa Sede, i diritti della Chiesa e le immunità ecclesiastiche”, scriverà il principe Chigi nel suo diario del 21 giugno 1832.
Fra le carte del Belli, dopo la sua morte, fu trovato e ricopiato un sonetto che è vicino, per tema, al precedente:
Più cce se penza e mmeno se po’ iggnòtte,
Ch’er Santo Padre ha dd’abbozzà, pe ddio!,
Co sti ribbelli, fijji de miggnotte,
Che lo tratteno peggio d’un giudio. 4
Stassi a mmé a commannà, bbrutte marmotte,
Ve vorebbe fà vvede chi ssò io:
‘Na scomunica, e annateve a fa fotte;
Ma ste cose so mmorte a ttempo mio. 8
Semo o nun semo? Fa’ pparà de nero
La cchiesa de Sampietro indegnamente:
Mette le torcie gialle: chiama er crero: 11
Furmina com’usava anticamente;
E vederemo allora si ddavero
Mòreno tutti cuanti d’accidente. 14
Più ci si pensa e meno si può accettare (inghiottire) che il Santo Padre deve abbozzare, per dio! Con questi ribelli figli di puttana che lo trattano peggio d’un ebreo. Se spettasse a me di comandare, brutte marmotte, vorrei farvi vedere chi sono io: una scomunica, e andate a farvi fottere; ma queste cose ormai sono morte in questo mio tempo. Ci siamo o non ci siamo? Faccia mettere tutti i paramenti neri nella chiesa di San Pietro: metta le torce gialle: chiami tutto il clero: fulmini con la scomunica come si usava nel tempo antico; e vedremo allora se davvero moriranno tutti quanti per un accidente.
La critica ha dimostrato senza ombra di dubbio che l’autore di questi versi fu Paolo Piccardi, un amico del nostro poeta.
Gennaro Cucciniello