Cangrande della Scala non fu avvelenato dal suo medico

Cangrande della Scala non fu ucciso dal medico

La morte del Signore di Verona, esaltato da Dante, il 22 luglio 1329 per (si credeva) avvelenamento provocato dal dottore, chiamato dopo un malore, e che finì impiccato. Oggi le indagini genetiche dicono che fu un male cardiaco.

 

Ne “La Lettura”, supplemento culturale del Corriere della Sera, dell’11 aprile 2021, alle pp. 28-29, è pubblicato un articolo di Anna Gandolfi che getta luce su un caso di morte, freddo e vecchio di sette secoli, la morte per presunto avvelenamento di Cangrande della Scala, signore di Verona, che accolse e protesse amichevolmente Dante Alighieri, che lo elogerà nel XVII canto del “Paradiso”. L’informazione nasce da un progetto di collaborazione tra l’Università di Verona e il Comune di Verona, “Il genoma di Cangrande della Scala: il Dna come fonte storica”.

                                                                  Gennaro Cucciniello

 

Mutazioni genetiche. Una decina di microscopiche informazioni individuate tra 62 milioni di sequenze di Dna estratte da un frammento di osso. La storia si riscrive partendo da qui: indizi che puntano tutti a confermare la presenza di una malattia genetica, polmonare o forse cardiaca. Quanto basta per riaprire un cold case vecchio sette secoli: la fine di Cangrande della Scala, signore di Verona, capo dei ghibellini del Nord Italia, mecenate celebrato da Dante nella Divina Commedia (“Le sue magnificenze conosciute / saranno ancora, sì che ‘suoi nemici / non ne potran tenere le lingue mute”) e morto il 22 luglio 1329. Avvelenamento, si disse. Certezze: nessuna. Però qualcuno doveva pagare e, mentre si vociferava di un mandante dentro casa (il nipote Mastino II, pronto a prendere il potere), al patibolo saliva chi al condottiero aveva somministrato infusi. Il medico che, grazie al primo studio completo del genoma fatto su un corpo mummificato, potrebbe essere scagionato dopo 692 anni.

Medicus unicus domini Cani fuit furca suspensus”. Nel 1330 il giudice padovano Guglielmo Cortusi annota l’esecuzione del dottore: “impiccato”. Il nome del condannato si perde, cancellato dall’onta. Cangrande, temutissimo, era stato stroncato da un malore che, dopo una cavalcata al sole, era deflagrato in fluxus, vomito e dissenteria. Faccenda sospetta. Il principe aveva solo 38 anni, tre giorni prima era entrato trionfalmente a Treviso, sottomettendo il Veneto intero, ad eccezione di Venezia naturalmente. Nemici, vicini e lontani, se n’era fatti parecchi. L’Anonimo foscariniano ricostruisce nel ‘400 i fatti trevigiani: “Era sta preso el medicho per imputation d’averlo tossegado… el medicho, confessato el suo error, era stà apichado”. Confessione. Fine della storia. O forse no. Perché di prove vere non ne sono mai saltate fuori.

Nel 2004 una prima autopsia condotta a Verona –la tomba di Cangrande è legata alla chiesa di Santa Maria Antica- ha rilevato digitale nel fegato: una pianta tossica ingerita con decotto. Veleno? Sì, se in dosi sbagliate. Oppure rimedio per mali cardiovascolari ed edemi, diffuso però solo nei secoli successivi. Individuata la digitale, si era parlato di nuovo di avvelenamento. Ma se la tisana fosse la causa del decesso, una concausa, o il residuo di una terapia, non era chiaro. Cangrande forse aveva patologie nascoste. La fase 2 delle analisi vuole colmare la lacuna: provare l’esistenza di una malattia significa ribaltare il motivo della morte, accreditare l’ipotesi della digitale come cura, derubricare l’accusa di omicidio volontario a omicidio colposo o arrivare addirittura alla morte naturale. Quindi scagionare il dottore e levare di mezzo l’ombra del mandante.

Le cronache del tempo (e non solo) sono state setacciate dallo studioso Ettore Napione. Questo, però, è un giallo dove anche gli archivi si ingarbugliano. “Le carte della Signoria risultano distrutte” –ricorda Francesca Rossi, direttrice dei Musei civici veronesi-. “Un’aura leggendaria circonda il condottiero: nei testi sono rari i dettagli su fisico e quotidianità. Applicare la scienza alla storia, e viceversa, potrà dare risultati straordinari”.

(…) Una direzione diagnostica, nel 2015, era stata presa da Juergen Schulz, medico tedesco già in servizio alla Fondazione Bosch di Stoccarda. Vagliati i semplici referti, aveva scritto: “Quanto resta del polmone destro di Cangrande mostra tessuto denso e fibrotico. Penso a difetti genetici come il deficit di alfa-1-antitripsina”. Intuizioni, indizi. La scienza viaggia verso la prova regina. E tutto fa dedurre, a questo punto, che il medico giustiziato stesse semplicemente cercando di salvare il signore di Verona: la cura era sbagliata (“el suo error”) semplicemente perché inutile contro un male troppo grave. Inutile, ma eccezionale: la digitale come terapia per l’edema è descritta ufficialmente solo nel XVIII secolo. L’anonimo, sfortunato dottore era in anticipo di 400 anni: un luminare, impiccato da innocente.

 

                                                                  Anna Gandolfi