Così è crollato il G8 del 1200 a.C.
Ne “La Lettura” del 25 agosto 2024, alle pp. 24-25, è pubblicato questo articolo di Telmo Pievani che commenta un saggio di Eric H. Cline, “La sopravvivenza delle civiltà. Dopo il 1177 a.C.”
Immaginate un G8 organizzato nel 1200 a.C. Al tavolo dei grandi sono seduti Micenei, Minoici, Ittiti, Ciprioti, Cananei, Egizi, Assiri e Babilonesi. Di lì a poco si sarebbe affacciato all’orizzonte un cigno nero, l’evento imprevisto che ribalta le sorti della storia, e il mondo internazionalizzato dell’Età del Bronzo sarebbe andato in frantumi. I sontuosi palazzi micenei e minoici crollarono, l’impero ittita si sgretolò, la civiltà egizia cadde in un declino senza ritorno.
Come l’archeologo della George Washington University Eric H. Cline aveva raccontato in un testo ormai classico del 2014 – “1177 a.C. Il collasso della civiltà” (uscito in edizione ampliata nel 2021)- i cavalieri dell’apocalisse quella volta non furono soltanto gli enigmatici Popoli del Mare, ma anche cambiamenti climatici, siccità, carestie, terremoti e malattie. Nessun fattore da solo sarebbe stato sufficiente: fu un effetto domino, una tempesta perfetta di disastri. Per alcuni quella valanga di agenti stressanti decretò uno schianto improvviso, per altri una catastrofe al rallentatore; ma tutti in un modo o nell’altro ne furono colpiti.
Le potenze del G8 di tremila anni fa si erano rese conto di quanto fossero vulnerabili? E come passarono attraverso la cruna dell’ago di una transizione epocale? Cline ha scritto il seguito del suo successo: nel libro “La sopravvivenza delle civiltà” (Bollati Boringhieri) ha ricostruito i quattro secoli successivi al crollo dell’Età del Bronzo nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale, dove ha partecipato a trenta campagne di scavo. La penna è di un brillante narratore: le alterne vicende delle civiltà del passato sono descritte in modo avvincente, sulla scena compaiono più di 120 personaggi (elencati in coda al testo) e la storia si protrae fino al 776 a.C., anno della prima Olimpiade, simbolo della rinascita della Grecia.
Se nel primo libro l’approccio era cronologico, qui è geografico: otto esempi di che cosa dovremmo fare (e soprattutto non fare) dopo che il mondo come lo conoscevamo è tramontato per sempre, lasciando rovine. Cline intreccia le storie parallele di come i membri dell’immaginario G8 entrarono nell’Età del Ferro. Il risultato è un manuale di sopravvivenza alle crisi, un trattato su come le società possono riorganizzarsi o soccombere.
Cline ricorre al concetto, un po’ inflazionato oggi, di resilienza: la capacità di resistere, adattarsi e trasformarsi dopo un collasso sistemico. Se poi non ci si limita a sopravvivere, ma si riesce anche a prosperare nel disordine che segue le crisi, allora la resilienza diventa qualcosa di più forte e positivo: l’antifragilità. Secondo gli archeologi citati da Cline, sono tre i requisiti che garantiscono resilienza alle civiltà: la loro complessità, flessibilità e ridondanza. Ed è interessante che siano gli stessi che valgono anche per i sistemi biologici.
Cline però fa qualcosa di più originale: nel capitolo finale si spinge oltre la metafora organica e, pur consapevole dei rischi di anacronismo, propone di applicare alle otto società considerate l’indice di resilienza che l’Ipcc, l’Intergovernmental Panel on Climate Change, utilizza come criterio per far fronte alle potenziali catastrofi odierne. Ricorrendo a una massa enorme di fonti (iscrizioni, raffigurazioni, reperti archeologici; il libro è corredato da 48 pagine di note e 67 di bibliografia), analizzandole con grande attenzione alla loro parzialità (riguardano quasi sempre le classi dominanti), l’archeologo che ha scavato per dieci stagioni a Megiddo (la biblica Armageddon) si tiene lontano da ogni speculazione fantasiosa e paragona fra loro le otto parabole di resilienza tra XII e VIII secolo a.C.
Prima di ripercorrere la classifica finale, un’avvertenza ben sottolineata da Cline. Collassi e rinascite sono, specularmente, processi molto più complessi di come siamo abituati a pensare. Più si guardano i fatti storici da vicino e più diventano sfumati: quello che a grana grossa sembra uno scossone unico, a grana fine si rivela una sequenza di cedimenti differenziati. Allo stesso modo la definizione di epoca buia per l’Età del Ferro è fuorviante e un po’ troppo millenarista. Certo, in alcune aree la popolazione diminuì anche del 90%, le amministrazioni statali si disfecero, la produzione artistica declinò e scomparve l’architettura monumentale, in alcuni casi si interruppe la scrittura, i commerci e gli scambi si fecero più rarefatti. Ma con molti distinguo: fu un’epoca critica, sfaccettata e non priva di grandi innovazioni come la diffusione del ferro e dell’alfabeto.
Ed ecco i destini incrociati degli otto Grandi. Gli Egizi, che pure avevano appena sconfitto i Popoli del Mare, persero molta influenza, anche a causa di siccità successive, conflitti di potere, epidemie di vaiolo e carestie. Non tornarono mai più alla gloria passata. Nel Levante meridionale, gli Israeliti approfittarono della crisi e occuparono le zone rimaste sguarnite dal ritiro degli Egizi e dalla sconfitta dei Cananei, convivendo tra molte difficoltà con i Filistei. Nuovi regni prosperarono, inglobando popolazioni nomadi già presenti nella regione. In sintesi, rispetto all’indice Ipcc, gli Egizi resistettero a caro prezzo e non si riadattarono, a favore di alcuni regni levantini.
Andò male anche agli Ittiti, dilaniati da faide interne. La capitale Hattusa fu ridotta a un villaggio. La vita continuò nelle campagne e sopravvissero solo alcuni piccoli regni ai margini, in Frigia e Anatolia orientale. Tutt’altra storia per Assiri e Babilonesi, società piuttosto resilienti, nonostante le persistenti avversità ambientali. Non persero la scrittura, mantennero grandi progetti architettonici a Nivive e a Babilonia, conservarono il sistema di governo, mantennero eserciti e sistemi di comunicazione, assorbirono altri popoli (Aramei ed Elamiti). Indice Ipcc: buono.
Ancor meglio fecero Fenici e Ciprioti. Nei quattro secoli dopo il collasso, organizzati in agili città-Stato, standardizzarono l’alfabeto e la manifattura della porpora, crearono una rete commerciale in tutto il Mediterraneo con legami in Oriente, fondarono Cartagine, spedirono marinai a fondare colonie fino in Spagna, da dove importavano l’argento. Il Mediterraneo divenne un lago fenicio. Il ferro era già usato occasionalmente anche prima, ma i Ciprioti impararono a estrarlo in modo sistematico da giacimenti di minerali ferrosi, a lavorarlo e a diffonderlo. Smentendo un’idea ingenua di progresso, Cline ritiene che il successo del nuovo metallo fu una reazione alle circostanze (la crisi del commercio dello stagno) e che il bronzo rimase in uso ancora a lungo. Fenici e Ciprioti assunsero il prezioso rulo di mercanti indipendenti e accrebbero ricchezze e influenza. Prosperarono nel caos. Furono più che resilienti: antifragili.
Di segno opposto il destino dei Micenei, con la loro dispendiosa architettura monumentale. Secondo Cline, non vi fu alcuna invasione dorica a porre fine al loro mondo. Fu un collasso interno delle cittadelle dell’Età del Bronzo, a cui seguirono lente migrazioni centrifughe nel Mediterraneo. Fu un colpo durissimo ma non ci fu una cesura totale: le zone rurali continuarono a essere abitate e i commerci non si interruppero del tutto. La ripresa fu difficile e durò quattro secoli. Non avevano capito di essere vulnerabili. Indice di resilienza Ipcc: molto basso.
Le risonanze con il presente sono evidenti e Cline non vi si sottrae per nulla. Immersi come siamo in una poli-crisi, anche la nostra fragile civiltà si sta avvicinando al collasso? Secondo l’autore, sì. I cavalieri dell’apocalisse non sono poi tanto diversi oggi: cambiamento climatico; diseguaglianze; migrazioni forzate; conflitti; pandemie. Certo, la storia di Cline riguarda un’area ristretta, ma il suo modello si può applicare anche al crollo di altre civiltà. Inoltre, gli eventi adesso si succedono assai più velocemente che nel XII secolo a.C.
La ricetta per salvarsi, conclude l’archeologo, è l’adattabilità: piani di emergenza, agilità, autosufficienza, prevenzione climatica, risorse idriche sicure, classi lavoratrici appagate, capacità inventive. Insomma, sarà importante imparare la lezione dai fenici, più che dai micenei. Consapevoli che, quando tutto precipita, sta già per nascere qualcosa di nuovo.
Telmo Pievani