Dante, “Commedia”, Similitudini. Matematico, mattino, meraviglia, merlo, messaggero, messi, monaci di Cluny, montanaro, Monteriggioni, montoni, mulino a vento, muro di cinta.

Dante, “Divina Commedia”. Similitudini. 

Matematico, Mattino, Meraviglia, Merlo, Messaggero, Messi, Monaci di Cluny, Montanaro, Monteriggioni, Montoni, Mulino a vento, Muro di cinta.

 

Nel settimo centenario della morte di Dante (1321-2021) ho voluto anch’io dare una piccola testimonianza del mio amore per il nostro grande poeta. Ho pensato, perciò, di annotare le similitudini che attraversano il racconto del viaggio, terribile e meraviglioso, compiuto da Dante pellegrino. Esse (sono tante, quasi 360) ci dimostrano, con incredibile abbondanza di particolari, la curiosità e l’attenzione con le quali Dante –profondo conoscitore della mente umana- osservava ogni minuto dettaglio della vita sociale e naturale del mondo che lo circondava; e anche quando esprimeva i suoi sentimenti lo faceva sempre sul piano oggettivo della rappresentazione e della descrizione. Anche quando doveva chiarire nozioni teologiche il nostro poeta, adattando alla sua poesia i procedimenti della filosofia scolastica, ricorreva a esempi familiari, facilmente riconoscibili dai lettori. Sembra che Dante non voglia passare mai sopra le menti dei suoi lettori, ma intenda catturarle per condurle dal loro orizzonte verso altre mete, più ardite e profonde. Perciò ripercorrere  le similitudini dantesche è come farsi stupire dalla meraviglia, è coltivare la memoria e la curiosità intellettuale.

Mi permetto di aggiungere ancora tre notazioni: del testo dantesco apprezzate la sorprendente contemporaneità linguistica (in pratica più dell’80% dell’italiano moderno ha origine dalla “Commedia”, fatto unico in Europa): le sue parole ce le siamo tenute strette attraversando i secoli; il poeta ha saputo raccontare il divino in presa diretta attraverso una lingua ancora in gestazione, forgiata con una mescolanza riuscitissima di alto e basso e con una sapienza metrica altissima; e soprattutto riflettete sul fatto che Dante in pratica ha inventato l’Italia. Nel suo grande poema sacro c’è un’idea potente del nostro paese, “il bel Paese dove il sì suona”, l’erede dell’impero romano, la sede della cristianità, il luogo privilegiato d’Europa dove, con l’Umanesimo e il Rinascimento, è nata la modernità. Sintetizzando, potremmo dire che l’Italia è nata dalla cultura e dalla bellezza,  dai libri e dalla lingua di Dante e dagli affreschi di Giotto.

Nel lavoro mi sono largamente servito del commento della “Divina Commedia”, a cura di Bianca Garavelli, con la supervisione di Maria Corti, Bompiani, 1996.

 

Il matematico. Paradiso, canto XXXIII, vv. 133-141.

“Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige / per misurar lo cerchio, e non ritrova,/ pensando, quel principio ond’elli indige,/ tal era io a quella vista nova:/ veder voleva come si convenne / l’imago al cerchio e come vi s’indova;/ ma non eran da ciò le proprie penne:/ se non che la mia mente fu percossa / da un fulgore in che sua voglia venne”. Come il matematico che si concentra con tutte le sue facoltà mentali per trovare la quadratura del cerchio, e pur sforzandosi col pensiero non trova quel principio di cui ha bisogno, così ero io di fronte a quella straordinaria apparizione: volevo vedere come l’immagine umana si adattasse al cerchio divino, e come vi trovasse luogo (cioè, invano cercavo di capire come ab aeterno fosse nel Figlio di Dio l’umanità di Cristo); ma le mie facoltà non erano all’altezza; ed ecco che la mia mente fu colpita da un lampo di luce e quello che desiderava si attuò.

Nota: siamo ormai alla fine della cantica e, quindi, del poema. San Bernardo prega la Madonna affinché con la sua infinita potenza e bontà intervenga presso Dio a favore di Dante. Tutti i Beati pregano a loro volta per lui, giungendo le mani. Maria acconsente. Finalmente il pellegrino fissa lo sguardo in Dio. Può così vedere l’unità dell’universo, la sua natura una e trina, e comprendere il mistero dell’incarnazione. L’intuizione del divino folgora la mente del pellegrino in un istante di suprema felicità. La similitudine più che descrivere fa avvicinare per quanto possibile il lettore all’emozione, allo stato d’animo di Dante nell’attimo della visione, ma soprattutto del poeta nel momento di riprodurre nei suoi versi quell’emozione. Il paragone è incentrato sullo sforzo intenso e vano del matematico che tenta di ottenere una soluzione impossibile. Con straordinaria intuizione di artista che ha studiato i misteri della teologia, Dante sembra aver anticipato il limite che affliggerà tutta la scienza moderna, da Cartesio ai giorni nostri: l’eccesso di razionalismo. E’ proprio la miopia con cui la scienza si ostina a ridurre il reale a ciò che è quantificabile in numeri e cifre a impoverire l’uomo, privandolo del diritto ad aspirare al divino, all’unione con Dio, come se fosse inammissibile poter credere in ciò che non cade sotto la percezione limitata dei sensi. Eppure, in questo momento, il pellegrino, che rappresenta tutta l’umanità, sta proprio cadendo in questo errore: nel momento supremo, cerca di pensare Dio in termini razionali, invece di andare al di là dei limiti della ragione. La mente umana non può sostenere il volo fino a una meta così alta. A meno che non intervenga di nuovo la luce della Grazia.

Il mattino. Paradiso, canto XXXI, vv. 118-123.

“Io levai gli occhi; e come da mattina / la parte oriental de l’orizzonte / soverchia quella dove ‘l sol declina,// così, quasi di valle andando a monte / con li occhi, vidi parte ne lo stremo / vincer di lume tutta l’altra fronte”. Io alzai gli occhi e come all’alba la parte orientale del cielo supera in luminosità quella occidentale (dove il sole tramonta), così, sollevando lo sguardo dalla parte inferiore a quella superiore dell’insieme dei Beati, vidi una parte dell’estremità più elevata della rosa superare in intensità luminosa tutta la fascia che le stava di fronte.

Nota: nell’Empireo Dante assiste stupito a tutto lo splendore della comunità dei Beati, che trionfano in forma di rosa bianchissima, continuamente visitata da Angeli simili ad api. In apertura di canto, la bella immagine della rosa candida, l’ultima delle figure metamorfiche in cui si era composta l’intera comunità dei Beati, riappare in primo piano. D’improvviso Dante non trova più Beatrice accanto a sé ma un vecchio che si dichiara mandato da lei: è il mistico San Bernardo, che gli mostra la beata donna assisa in trono, nel terzo grado di beatitudine, vicinissima a Dio. Poi consiglia a Dante di osservare tutti i petali della rosa, fino a quello più alto: sfolgorante su tutti i Beati, come la luce del sole a Oriente, è Maria, la Madre di Gesù. La Madonna è paragonata al sole sorgente sulla linea dell’orizzonte, cioè su di una linea curva come la gradinata più alta dell’anfiteatro su cui è assisa in trono. L’immagine della Vergine non appare: la sua presenza di luce è una manifestazione di pura energia divina, in cui si evidenzia la maestà del suo ruolo di regina celeste dell’Empireo.

La meraviglia. Purgatorio, canto XXVIII, vv. 37-42.

“E là m’apparve, sì com’elli appare / subitamente cosa che disvia / per maraviglia tutto altro pensare,// una donna soletta che si gia / e cantando e scegliendo fior da fiore / ond’era pinta tutta la sua via”. E in quel punto mi apparve, come appare improvvisamente qualcosa che distoglie da qualsiasi altro pensiero a causa della meraviglia che suscita, una donna che camminava sola, cantando e cogliendo i fiori più belli, di cui il suo sentiero era tutto ornato.

Nota:  Dante fa il suo ingresso nel Paradiso terrestre; Virgilio e Stazio sono con lui, ma restano in disparte. Il giardino dell’Eden è un bosco meraviglioso, incredibilmente ricco di ogni bellezza naturale, “con un’aura dolce, sanza mutamento” (v. 7). Mentre lo esplora godendo di ogni dettaglio, Dante incontra dapprima un ruscello di acqua cristallina, che lo costringe a fermarsi, poi una donna bella e solitaria, che cantando coglie fiori. Questa è una scena di femminilità, di dolcezza, di luminosa musicalità: il pellegrino vede una donna vera e propria, non un Angelo, né uno spirito incorporeo. E’ Matelda.

Il merlo. Purgatorio, canto XIII, vv. 115-123.

“Eran li cittadin miei presso a Colle / in campo giunti co’ loro avversari,/ e io pregava Iddio di quel ch’e’ volle.// Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari / passi di fuga; e veggendo la caccia,/ letizia presi a tutte altre dispari,// tanto ch’io volsi in su l’ardita faccia,/ gridando a Dio: “Omai più non ti temo!”,/ come fé ‘l merlo per poca bonaccia”. I miei concittadini, i senesi, si stavano scontrando coi loro nemici, i fiorentini, a Colle di Val d’Elsa, e io pregava Dio di quello che poi lui stesso decise, cioè che i senesi perdessero. Lì, infatti, essi furono sbaragliati e costretti all’amara via della fuga; e vedendoli inseguiti dai vincitori, provai una gioia diversa da qualsiasi altra, tanto che rivolsi al cielo il viso, con atteggiamento di sfida, e gridai a Dio: “Ormai non ho più paura di ciò che mi puoi mandare!”, proprio come il merlo che in inverno canta come se fosse già primavera dopo soli pochi giorni di sole.

Nota: i due viandanti sono nella seconda cornice, dove espiano i loro peccati gli invidiosi. Sono coperti da mantelli grigi come la roccia che li circonda, e con essa si confondono, e hanno le palpebre cucite con fil di ferro. Una di loro, la senese Sapìa, dialoga con Dante: confessa di aver gioito per la sconfitta dei senesi contro i fiorentini a Colle Val d’Elsa. Il comportamento di Sapìa è doppiamente empio: prima di tutto perché prega Dio per la sconfitta dei suoi concittadini, chiedendogli quindi qualcosa di inammissibile, per l’infinitamente buono, il male. Poi perché, una volta ottenuto ciò che desiderava, osa farsene beffe. E Dante paragona perciò la frase ardita  al canto stupido del merlo. Ma nel discorso dell’anima penitente la stoltezza, la “follia” passata sono ben evidenziate: in quanto ora sa che Dio non accontentò un’invidiosa facendo perdere i senesi, ma al contrario seguì un suo disegno (v. 117).

Il messaggero. Purgatorio, canto II, vv. 70-75.

“E come a messagger che porta ulivo / tragge la gente per udir novelle,/ e di calcar nessun si mostra schivo,// così al viso mio s’affisar quelle / anime fortunate tutte quante,/ quasi obliando d’ire a farsi belle”. Come la gente va incontro al messaggero che porta buone nuove, per conoscerle, e nessuno spinge per accalcarsi intorno, così quelle anime fortunate si misero tutte a fissare il mio viso, quasi dimenticando lo scopo per cui erano lì, per salire a purificarsi.

Nota: La barca, guidata da un angelo splendente di luce bianca, aveva fatto scendere sulla spiaggia un gruppo numerosissimo di anime. Qui la similitudine attinge alle abitudini comunali del tempo di Dante: i portatori di buone notizie andavano nelle piazze cittadine portando di solito un ramo d’ulivo. Il poeta ricrea il clima di aspettativa che pervade le ombre: esse non si stringono intorno a Dante, ma timidamente si limitano a fissarlo. Nasce di nuovo il conflitto fra un’ingenua curiosità timidamente umana (si sono accorte del corpo del viandante) e l’esigenza spirituale di superare del tutto la dimensione terrena. La vista di un pellegrino che viene dalla terra le affascina ancora, ma come una visione di sogno.

Le messi.   Paradiso, canto XIII, vv. 130-132.

“Non sien le genti, ancor, troppo sicure / a giudicar, sì come quei che stima / le biade in campo pria che sien mature”. La gente non osi giudicare con troppa sicurezza le cose future, come fanno quelli che calcolano il valore delle messi nei campi prima ancora che siano mature.  

Nota: nel cielo del Sole, ove sono gli spiriti sapienti, San Tommaso, grande santo domenicano, elogia la vita e le opere di San Francesco d’Assisi e deplora la corruzione dei frati domenicani; San Bonaventura, santo francescano, elogia San Domenico di Guzman e deplora la corruzione dei frati francescani. Poi Tommaso chiarisce due dubbi di Dante e ammonisce: siano cauti gli uomini nei loro giudizi. Qui è veemente la condanna della stolidità della gente comune, ottusa e presuntuosa nel sentenziare su questo o quel fatto futuro.

I monaci di Cluny. Inferno, canto XXIII, vv. 58-63.

“Là giù trovammo una gente dipinta / che giva intorno assai con lenti passi,/ piangendo e nel sembiante stanca e vinta.// Elli avean cappe con cappucci bassi / dinanzi a li occhi, fatte de la taglia / che in Clugny per li monaci fassi”. Laggiù incontrammo una folla di anime esternamente colorata, che camminava lungo il perimetro della bolgia con passi veramente lenti, piangendo e con un aspetto stremato e abbattuto. Indossavano cappe con cappucci calati sugli occhi, tagliate come quelle che si fanno a Cluny per i monaci”.  

Nota: i due pellegrini sono arrivati nella sesta bolgia, quella degli ipocriti. Qui incontrano una folla di peccatori che camminano lentamente e con l’aria stremata, indossando grandi cappe di puro piombo, ma lucenti come l’oro. Ora il clima è completamente nuovo rispetto alla corsa e alle fughe frenetiche della bolgia dei barattieri. Adesso c’è stasi e lentezza, una dolente processione. Questi peccatori nella vita terrena esposero di sé un’immagine tanto gradevole e degna di fiducia quanto falsa, perché non corrispondente alla loro natura interiore. Sono i peccatori definiti nel Vangelo simili “a sepolcri imbiancati, che al di fuori appaiono belli agli occhi di tutti, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni immondizia” (Matteo, 23, 27). Il dettaglio dei monaci di Cluny forse vuole alludere all’alta percentuale di ipocriti presenti proprio negli ordini ecclesiastici, come sembra confermare in seguito l’incontro con due frati gaudenti e con due sommi sacerdoti del Sinedrio di Gerusalemme. I cappucci calati profondamente sul viso nascondono lo sguardo e i dannati sono costretti a guardare di sbieco e mai direttamente negli occhi il loro interlocutore.

Il montanaro. Purgatorio, canto XXVI, vv. 67-72.

“Non altrimenti stupido si turba / lo montanaro, e rimirando ammuta,/ quando rozzo e salvatico s’inurba,// che ciascun’ombra fece in sua paruta;/ ma poi che furon di stupore scarche,/ lo qual ne li alti cuor tosto s’attuta…”. Il montanaro stupito entra in agitazione e ammutolisce guardandosi intorno con meraviglia quando, ancora rozzo e abituato ai boschi, entra in una città, non diversamente da come quelle ombre fecero, a giudicare dalla loro espressione. Ma dopo che fu passato l’effetto dello stupore, che si smaltisce in fretta negli spiriti più elevati…

Nota: Nella settima e ultima cornice Virgilio, Stazio e Dante camminano uno dietro l’altro, attenti a non farsi bruciare dal fuoco e, contemporaneamente, a non precipitare nel vuoto. Qui espiano il loro peccato i lussuriosi. Il pellegrino assiste a uno strano rito: due gruppi distinti di anime si incontrano, si abbracciano e, dopo essersi gridati ciascuno un esempio di lussuria punita, si allontanano. Insomma, dopo essersi venute incontro e unite, le due schiere si girano reciprocamente la schiena e si separano. Dante si rivolge loro e confessa che non è una persona morta, che da vivo sta salendo verso l’alto per non essere più accecato dal peccato, e le invita a dire chi sono affinché lui possa scriverlo. E qui si sviluppa la similitudine della comitiva di montanari, di cafoni, che entra incredula in città: l’autore sa sviluppare con precisione tutti gli elementi psicologici e pittorici di un’esperienza reale e comune in una città medievale italiana. Ma si avverte che in quel “rozzo e salvatico” non c’è soltanto un elemento oggettivo di rappresentazione, ma anche un atteggiamento di distacco snobistico, tipico di un Dante, esponente della piccola nobiltà.

Monteriggioni. Inferno, canto XXXI, vv. 40-45.

“però che, come su la cerchia tonda / Montereggion di torri si corona,/ così la proda che ‘l pozzo circonda// torreggiavan di mezza la persona / li orribili giganti, cui minaccia / Giove del cielo ancora quando tuona”.  Per il fatto che, come sulla cinta circolare delle sue mura Monteriggioni si circonda di torri, così gli spaventosi giganti, che quando tuona Giove ancora minaccia dal cielo, rendevano turrita con metà del loro corpo la sponda che circonda il pozzo.

Nota: i due viandanti hanno lasciato Malebolge e sono arrivati in un luogo, in penombra, che separa l’ottavo cerchio, quello appunto di Malebolge, e il nono, l’ultimo dell’Inferno, che contiene le quattro zone in cui sono puniti i traditori. Qui c’è un pozzo in cui sono immersi i giganti con la parte inferiore del corpo, sporgendo dall’ombelico in su. Sono probabilmente in piedi sul ghiaccio di Cocito, ma senza esservi immersi, perché non sono colpevoli di tradimento, ma di superbia e invidia. La loro potenza fisica è bloccata e mortificata. Perciò il pozzo assume l’aspetto di una roccaforte temibile, con queste minacciose figure. Ecco allora la citazione di Monteriggioni, un comune della Val d’Elsa, a pochi chilometri da Siena, all’origine (nel 1213) cittadella fortificata contro Firenze, con l’immagine delle sue quattordici alte torri costruite tra il 1260 e il 1270, che sporgevano fino a venti metri in cerchio lungo le mura del borgo. Il paragone con la cittadella conferisce un plasticismo grandioso e indimenticabile allo spettacolo imponente dei giganti colti in un’unica carrellata nel loro insieme e nella loro immobilità impotente.

I montoni. Inferno, canto XXXII, vv. 40-51.

“Quand’io m’ebbi dintorno alquanto visto,/ volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti,/ che ‘l pel del capo avieno insieme misto.// “Ditemi, voi che sì strignete i petti”,/ diss’ io, “chi siete?”. E quei piegaro i colli;/ e poi ch’ebber li visi a me eretti,// li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli,/ gocciar su per le labbra, e ‘l gelo strinse / le lagrime tra essi e riserrolli.// Con legno legno spranga mai non cinse / forte così; ond’ ei come due becchi / cozzaro insieme, tanta ira li vinse”. Quando mi fui guardato un po’ intorno, rivolsi lo sguardo in basso vicino a me, e vidi due così vicini l’uno all’altro, che i loro capelli si mescolavano insieme. Allora io chiesi loro: “Ditemi, voi due che siete così stretti l’uno all’altro, chi siete?”. I due piegarono indietro il collo per guardarmi in faccia; e dopo che ebbero sollevato il viso verso di me, i loro occhi, che già prima erano pieni di lacrime, le lasciarono gocciolare sulle labbra, e il freddo le congelò tra gli occhi e glieli richiuse, accecandoli. Non vidi mai spranga di ferro stringere legno contro legno con tanta forza; per cui essi, come due montoni, fecero cozzare le fronti l’una contro l’altra, tanto violenta fu l’ira che li invase.  

Nota: i due viandanti sono arrivati al lago ghiacciato di Cocito, in cui sono immersi i traditori. Caina è la prima zona, coi traditori dei congiunti, sepolti nel ghiaccio fino al collo. La punizione consiste nell’avere solo la testa fuori dal ghiaccio e nel doverla tenere chinata. Caina sarebbe immersa nel silenzio, se non fosse per il frenetico battere di denti delle anime dannate. Dante parla a due dannati che hanno i corpi saldati uno addosso all’altro: probabilmente sono state le lacrime che, solidificandosi in mezzo a loro, li hanno imprigionati. Ora con un gesto forsennato, coi visi rivolti l’uno di fronte all’altro e attaccati tra loro dalle lacrime ghiacciate, vogliono liberarsi dalla loro morsa. Questa collera furiosa, che rende come pazzi i due fratelli, viene dall’odio reciproco (che sarà spiegato nei versi successivi), per punire il quale la giustizia divina ha stabilito per loro il contrappasso dell’eterna vicinanza. Sono due fratelli della famiglia degli Alberti, conti dei castelli di Vernio in Val di Sieve, che si uccisero l’un l’altro, stretti insieme ora come nel momento del loro delitto. “Le acque putride di Malebolge, ventate dalle enormi ali di Lucifero, si agghiacciano, s’indurano, diventano mare di vetro, di dentro a cui traspariscono come festuche i traditori contro i congiunti nella Caina, contro la patria nell’Antenora, contro gli amici nella Tolomea, e contro i benefattori nella Giudecca. La pena è una, ma graduata secondo il delitto. Il movimento si estingue a poco a poco, la vita si va petrificando, finché cessa in tutto la lacrima, la parola e il moto” (F. De Sanctis).

Il mulino a vento. Inferno, canto XXXIV, vv. 4-9.

“Come quando una grossa nebbia spira,/ o quando l’emisperio nostro annotta,/ par di lungi un molin che ‘l vento gira,// veder mi parve un tal dificio allotta;/ poi per lo vento mi ristrinsi retro / al duca mio; ché non lì era altra grotta”. Come quando si alza una densa nebbia, oppure il nostro emisfero si immerge nelle tenebre, e in lontananza appare un mulino a vento, allora mi sembrò di vedere una simile macchina; subito dopo per il gelido vento mi strinsi dietro la mia guida, perché lì non c’era altro riparo.

Nota: i due viandanti sono arrivati nell’ultima zona di Cocito, la Giudecca, dove i traditori dei benefattori sono come pagliuzze totalmente incorporate nel ghiaccio. Appare Lucifero, sovrano del regno del male, preceduto dal gelido vento originato dalle sue stesse ali. Dante qui usa il verbo “mi parve” (v. 7), tipico delle visioni e dei sogni: l’apparizione di Lucifero, il culmine e l’essenza del male, per paradosso, è la meno realistica di tutto l’Inferno e somiglia a quella dei giganti, anch’essi annunciati dal verbo “parere”. E’ un fatto singolare e inaspettato che la prima similitudine che annuncia Lucifero lo paragoni a un mulino a vento, da cui però non è mosso, ma che provoca esso stesso. Al verso 7 il sostantivo “dificio”  spiega: Lucifero è come un’immensa macchina che produce il vento di Cocito, un gigantesco meccanismo allegorico che dal punto più basso domina tutto l’Inferno e ne provoca eternamente l’orrore. In più, Satana è parodia della Santa Croce: è confitto al centro della terra e le sue tre coppie di ali corrispondono nel male ai bracci del patibolo di Gesù. Il gesto istintivo dell’allievo figlio Dante di rifugiarsi dietro il corpo incorporeo del suo maestro padre ha un valore soprattutto poetico: rappresenta la perfezione dell’affiatamento raggiunto nell’attraversare il faticoso cammino del primo regno. Poco importa che Virgilio sia ombra e non abbia corpo: Dante si è già rifugiato tra le sue braccia (Inf, XIX, 34-35 e 124-129; XXIII, 37-51; e anche qui ai vv. 70-86), ma in quel momento è spaventato e infreddolito e inoltre, lì dov’è, non c’è altro modo di ripararsi.

Un muro di cinta. Purgatorio, canto XX, vv. 4-9.

“Mossimi; e ‘l duca mio si mosse per li / luoghi spediti pur lungo la roccia,/ come si va per muro stretto a’ merli;// ché la gente che fonde a goccia a goccia / per li occhi il mal che tutto ‘l mondo occupa,/ da l’altra parte in fuor troppo s’approccia”. Quindi mi incamminai; e s’incamminò anche la mia guida attraverso gli spazi lasciati liberi dai corpi di avari e prodighi, tenendosi sempre accostato alla parete; come si fa quando si cammina su un muro di cinta rasente alla merlatura; perché le anime degli avari, che espiano lacrima dopo lacrima il vizio da cui tutto il mondo è invaso, dall’altra parte si avvicinano troppo al bordo esterno della cornice.

Nota: i due pellegrini sono saliti alla quinta cornice, dove espiano il loro peccato gli avari e i prodighi, cioè coloro che amarono con troppo vigore soltanto i beni terreni. L’enjambement, che rallenta il ritmo tra i vv. 4 e 5, suggerisce la circospezione dei passi dei due poeti che devono fare attenzione a non calpestare i corpi dei peccatori. E’ interessante osservare che entrambi i canti su avari e prodighi (XIX e XX), anche se dovrebbero ospitare due tipi di peccatori, appunto colpevoli di avidità e di prodigalità, in realtà sono incentrati esclusivamente sul primo dei due. Forse perché i due vizi sono strettamente collegati, e chi è avido finisce per essere necessariamente anche prodigo. Oppure perché, come appare dall’esclamazione che segue (“maladetta sie tu, antica lupa,” v. 10), la rabbia di Dante si concentra tutta contro la lupa dell’avarizia, “il mal che tutto ‘l mondo occupa (…) per la tua fame sanza fine cupa!”, portando gli uomini alla rovina.

 

                                                        Gennaro Cucciniello