Dante, “Divina Commedia”, Similitudini. Castelli, Castori, Cavalieri, Cavallo da guerra, Cera, Chitarrista, Cibo, Cicognino, Cicogna, Ciechi, Cielo, Cimiteri

Dante, “Divina Commedia”, Similitudini.

Castelli, Castori, Cavalieri, Cavallo da guerra con gualdrappa, Cera, Cerchio, Chitarrista, Cibo, Cicognino, Cicogna, Ciechi, Cielo, Cimiteri-Sepolcreti.

Nel settimo centenario della morte di Dante (1321-2021) ho voluto anch’io dare una piccola testimonianza del mio amore per il nostro grande poeta. Ho pensato, perciò, di annotare le similitudini che attraversano il racconto del viaggio, terribile e meraviglioso, compiuto da Dante pellegrino. Esse (sono tante, quasi 360) ci dimostrano, con incredibile abbondanza di particolari, la curiosità e l’attenzione con le quali Dante –profondo conoscitore della mente umana- osservava ogni minuto dettaglio della vita sociale e naturale del mondo che lo circondava; e anche quando esprimeva i suoi sentimenti lo faceva sempre sul piano oggettivo della rappresentazione e della descrizione. Anche quando doveva chiarire nozioni teologiche il nostro poeta, adattando alla sua poesia i procedimenti della filosofia scolastica, ricorreva a esempi familiari, facilmente riconoscibili dai lettori. Sembra che Dante non voglia passare mai sopra le menti dei suoi lettori, ma intenda catturarle per condurle dal loro orizzonte verso altre mete, più ardite e profonde. Perciò ripercorrere  le similitudini dantesche è come farsi stupire dalla meraviglia, è coltivare la memoria e la curiosità intellettuale.

Ricorro alle riflessioni della teologa Teresa Bartolomei: “Il viaggio ultraterreno di Dante è una grande avventura meteorologica e sensoriale, popolata di tutti i fenomeni atmosferici e climatici che scandiscono il ritmo annuale delle stagioni, intessuta di tutte le vertigini percettive che segnalano la stanchezza, il dolore, la gioia, la paura, il piacere, la contemplazione (…) Ravenna, con il complesso celestiale dei suoi mosaici, è il motore primo della geografia mistica del Paradiso; e il doloroso pellegrinaggio dei 20 anni di esilio, un andirivieni estenuante tra l’Italia del centro e del nord, attraversamento di campagne invernali e di paludi malariche, ripidi versanti appenninici e foreste casentinesi, paesini sperduti e chiese solitarie, sono l’orizzonte topologico in cui si tessono i paesaggi della “Commedia”.

Mi permetto di aggiungere ancora tre notazioni: del testo dantesco apprezzate la sorprendente contemporaneità linguistica (in pratica più dell’80% dell’italiano moderno ha origine dalla “Commedia”, fatto unico in Europa): le sue parole ce le siamo tenute strette attraversando i secoli; il poeta ha saputo raccontare il divino in presa diretta attraverso una lingua ancora in gestazione, forgiata con una mescolanza riuscitissima di alto e basso, con una sapienza metrica altissima; e soprattutto riflettete sul fatto che Dante in pratica ha inventato l’Italia. Nel suo grande poema sacro c’è un’idea potente del nostro paese, “il bel Paese dove il sì suona”, l’erede dell’impero romano, la sede della cristianità, il luogo privilegiato d’Europa dove, con l’Umanesimo e il Rinascimento, è nata la modernità. Sintetizzando, potremmo dire che l’Italia è nata dalla cultura e dalla bellezza,  dai libri e dalla lingua di Dante e dagli affreschi di Giotto.

Nel lavoro mi sono largamente servito del commento della “Divina Commedia”, a cura di Bianca Garavelli, con la supervisione di Maria Corti, Bompiani, 1996.

 

I castelli. Inferno, canto XVIII, vv. 10-18.

“Quale, dove per guardia de le mura / più e più fossi cingon li castelli,/ la parte dove son rende figura,// tale immagine quivi facean quelli;/ e come a tai fortezze da’ lor sogli / a la ripa di fuor son ponticelli,// così da imo de la roccia scogli / movien che ricidien li argini e’ fossi / infino al pozzo che i tronca e raccogli”. Qual è l’immagine che presenta un luogo in cui numerosi fossati circondano dei castelli, tale mostravano qui quei fossi; e come all’esterno di simili fortezze, dall’ingresso fino all’estremità dell’ultimo fossato, si innalzano dei ponticelli, così dai piedi della parete di roccia che circondava i fossati partivano dei ponti rocciosi che tagliavano trasversalmente le bolge e i loro argini, fino al pozzo che li interrompe e li riunisce tutti.

Nota: all’inizio della seconda metà della cantica noi lettori siamo arrivati, con i due pellegrini, a Malebolge, luogo tutto fatto di roccia grigia come il ferro, descritto con precisione topografica e geometrica. La natura pietrosa e ferrigna contribuisce a creare l’atmosfera disumana del luogo, uno sterminato carcere in cui si raccoglie indicibile sofferenza, ancora più spaventoso per la sua eternità, e si accompagnerà al realismo petroso dello stile, un linguaggio duro e aspro, quasi espressionistico. La similitudine è tratta da una realtà molto familiare dell’epoca: le fortificazioni del castello, spesso circondato da più e più fossati concentrici. La precisione descrittiva iniziale prelude al distacco complessivo con cui in questo canto l’autore ci fa rapidamente incontrare ben due categorie di fraudolenti, indegni di una maggiore attenzione o di una profonda riflessione etica, prima i ruffiani e i seduttori, poi gli adulatori.

I castori (e le barche). Inferno, canto XVII, vv. 19-24.

“Come talvolta stanno a riva i burchi,/ che parte sono in acqua e parte in terra,/ e come là tra li Tedeschi lurchi // lo bivero s’assetta a far sua guerra,/ così la fiera pessima si stava / su l’orlo ch’è di pietra e ‘l sabbion serra”. Come si vedono spesso le barche stare a riva, con una parte in acqua e una sulla terraferma, e come –nella terra dei Tedeschi crapuloni- il castoro si accuccia preparandosi ai suoi agguati (tenendo la coda sotto l’acqua per pescare i pesci), così la perfida bestia stava appoggiata sull’orlo roccioso del burrone che delimita il deserto infuocato.

Nota: mentre il pellegrino e la sua guida aspettano sull’orlo del baratro di Malebolge, arriva Gerione, creatura alata e dotata di coda serpentina, dall’ingannevole volto umano e dalla pelle istoriata più di un tappeto, che si appoggia con le zampe anteriori alla roccia. Il mostro deve trasbordare Virgilio e Dante nei cerchi inferiori dell’Inferno. La similitudine è doppia, indugia visivamente sulla posizione del mostro e ne evidenzia il significato simbolico: nella prima parte è rappresentato l’aspetto statico della postura, assimilata a quella delle barche larghe e piatte che dovevano solcare in gran numero l’Arno, dette appunto burchielli; nella seconda Gerione è paragonato a un castoro, animale infido e fraudolento secondo la tradizione medievale. Dante, insistendo sull’avidità predatoria dell’animale, non a caso ce lo presenta immerso tra i tedeschi lurchi, beoni e ghiottoni in maniera eccessiva e sgangherata. Come il castoro nasconde l’insidia del suo attacco, così Gerione nasconde nel vuoto, non fa vedere, la sua coda che termina a forbice ed è piena di veleno.

I cavalieri. Inferno, canto XXII, vv. 1-15.

“Io vidi già cavalier muover campo,/ e cominciare stormo e far lor mostra,/ e talvolta partir per loro scampo;// corridor vidi per la terra vostra,/ o Aretini, e vidi gir gualdane,/ fedir tornea menti e correr giostra;// quando con trombe, e quando con campane,/ con tamburi e con cenni di castella,/ e con cose nostrali e con istrane;// né già con sì diversa cennamella / cavalier vidi muover né pedoni,/ né nave a segno di terra o di stella.// Noi andavam con li diece demoni./ Ahi fiera compagnia! Ma ne la chiesa / coi santi, e in taverna coi ghiottoni”. In vita mia ho già visto eserciti di cavalieri che si mettevano in marcia, cominciavano l’attacco e si schieravano per la rivista, e qualche volta ritirarsi per mettersi in salvo; ho visto anche nel territorio del vostro Comune, o Aretini, cavalieri che facevano scorrerie e combattimenti in tornei e gare di bravura nelle giostre; vidi anche cavalieri e fanti iniziare la marcia al suono di trombe, a volte di campane, di tamburi, o con segnali inviati dagli spalti dei castelli, e navi muoversi con segnali da terra o con la posizione delle stelle, insomma con segni usati dai nostri eserciti o da quelli stranieri, ma mai vidi qualcuno partire al suono di un così strano strumento a fiato (“ed elli avea del cul fatto trombetta”). Così camminavamo con la decina di diavoli, ben spaventosa compagnia, ma bisognava adattarsi, perché in chiesa si va coi santi e nella taverna coi crapuloni.

Nota: siamo nella quinta bolgia, quella dei barattieri, di coloro che si servirono delle proprie cariche pubbliche per accumulare denaro; ora sono immersi nella pece bollente, arroncigliati dai diavoli se appena tentano di venire in superficie.. Virgilio e Dante procedono con i dieci Malebranche per scorta. C’è il paragone tra lo schieramento dei cavalieri in tornei o in battaglia, insomma tra i movimenti militari che presupponevano uno spiegamento di forze, e questo indisciplinato e scurrile drappello di diavoloni, con un uso fittissimo di espressioni tecniche. Il poeta poi si serve dell’esperienza dello stile comico, frequentato da poeti come Folgòre da San Gimignano, Rustico Filippi e da lui stesso: un ricco elenco di dettagli realistici, in questo caso tratti anche dai ricordi personali. La similitudine, in un certo senso, anticipa in chiave ironica il combattimento e lo scontro tra i barattieri e i diavoli: di qui la sua ragione narrativa e stilistica.

Purgatorio, canto XXIV, vv. 94-99.

“Qual esce alcuna volta di gualoppo / lo cavalier di schiera che cavalchi,/ e va per farsi onor del primo intoppo,// tal si partì da noi con maggior valchi;/ e io rimasi in via con esso i due / che fuor del mondo sì gran marescalchi”. Come talvolta da un gruppo di cavalieri che cavalcano contro il nemico un cavaliere esce da solo al galoppo, e avanza per avere l’onore del primo scontro, così Forese si allontanò da noi a passi più veloci e lunghi dei nostri; e io restai in cammino solo con i due, Virgilio e Stazio, che furono per il mondo così grandi maestri.

Nota: nella sesta cornice, quella dove i golosi espiano le loro colpe, Dante ha incontrato un suo grande amico fiorentino, il poeta Forese Donati. Ha discusso a lungo con lui di cose poetiche e della triste e sciagurata condizione di Firenze. Ora l’incontro tra i due amici e compagni di scaramucce poetiche si conclude bruscamente, Forese si allontana con una falcata poderosa, ma Dante è certo che la stessa legge divina che ora li separa li unirà per sempre. Il nostro viandante resta solo con la compagnia di Virgilio e di Stazio. In tema con la similitudine equestre, il sostantivo “marescalco” significa propriamente “maestro d’armi e di cavalli”. I due poeti latini lo furono in senso morale e culturale, per la loro opera poetica.

Il cavallo da guerra con gualdrappa. Paradiso, canto XXVI, vv. 97-102.

“Talvolta un animal coverto broglia,/  sì che l’affetto convien che si paia / per lo seguir che face a lui la ‘nvoglia;// e similmente l’anima primaia / mi facea trasparer per la coverta / quant’ella a compiacermi venìa gaia”. Talvolta un cavallo sotto la gualdrappa di battaglia si agita, in modo che il suo ardore generoso si manifesta ai sussulti del rivestimento, seguendo quelli del corpo, così la prima di tutte le anime (quella di Adamo) mi faceva trasparire attraverso la sua gualdrappa, il suo rivestimento di luce, quanto era felice di compiacermi. (Questa è la spiegazione data, su questa complessa similitudine, dal massimo dantista francese, A. Pézard, che sottolinea: “la figura di Adamo viene di gran lunga nobilitata dal paragone con un cavallo da guerra, anziché con un generico animale fasciato dal suo involucro”).

Nota: siamo nel cielo delle Stelle Fisse. Durante la cecità temporanea di Dante San Giovanni lo esamina sulla carità. Il pellegrino supera bene anche questo terzo e ultimo esame. Appena il poeta ha terminato di parlare, i Beati insieme intonano il “Sanctus”, mentre Dante riacquista la vista. Accanto a loro c’è un quarto Beato luminoso: è Adamo, il primo uomo, non nato ma creato. La similitudine è stata ritenuta bizzarra dal Sapegno perché vari commentatori hanno immaginato che vari animali si agitassero, coperti da un ipotetico panno: cane, gatto, maiale, falcone sotto il cappuccio. L’interpretazione del Pézard è la più convincente e la poesia di questa immagine è resa ancora più bella dall’improvvisa suggestione di una foga frenata, di una impassibilità fremente. E la gualdrappa di scintillanti maglie di acciaio agitate dai movimenti del cavallo richiama l’agitarsi corrusco della veste di luce di Adamo.

La cera. Purgatorio, canto XXXIII, vv. 79-84.

“E io: “Sì come cera da suggello,/ che la figura impressa non trasmuta,/ segnato è or da voi lo mio cervello. Ma perché tanto sovra mia veduta / vostra parola disiata vola,/ che più la perde quanto più s’aiuta?”. Risposi a Beatrice: “La mia memoria adesso porta impresse le vostre parole, proprio come cera da suggello, che non può cambiare la figura che le è stata impressa. Ma vi chiedo: perché la vostra parola, da me tanto desiderata, vola così in alto al di sopra della mia intelligenza, che, quanto più si sforza di comprenderla, tanto più la perde?

Nota: siamo nell’ultimo canto del Purgatorio. Dopo le visioni apocalittiche alle quali ha assistito Dante, insieme a Stazio, Matelda, Beatrice e le sette donne che personificano le virtù teologali e cardinali, si avvia verso il secondo ramo del fiume che scorre nell’Eden, l’Eunoè, le cui acque risvegliano la memoria del bene compiuto nella vita terrena. Ora Beatrice assume la responsabilità del suo ruolo didascalico, invitando Dante a chiedere chiarimenti su quanto ha appena visto. Il rapporto fra i due è mutato: sono di fronte un timido discepolo e una saggia maestra, un uomo in cui l’intelletto non è pari al sentimento, e un’anima beata. Questa similitudine è presa alla lettera da Aristotele, attraverso i commenti di Alberto Magno e di S. Tommaso d’Aquino. La mente umana lotta vanamente per innalzarsi dietro una verità che, inseguita e mirata, sale sempre più lontana verso Dio. Ma si può anche intravedere l’eco di un passo di Ovidio: “E come la cera duttile si plasma in figure nuove e non rimane com’era prima e non conserva le stesse forme, e tuttavia sempre cera è, così secondo la mia dottrina (sta parlando Pitagora) l’anima è sempre la stessa…” (Metamorfosi, XV, 169-172). In questo passo si chiarisce anche la dialettica narrativa e dialogica del poema tra Dante, condizionato dal tempo umano e dal suo essere corporeo, e Beatrice, condizionata dal senso dell’eterno e dalla sua beatitudine celeste.

Il cerchio. Paradiso, canto XXIII, vv. 115-132

Ne la profonda e chiara sussistenza / de l’alto lume parvermi tre giri / di tre colori e d’una contenenza;// e l’un da l’altro come iri da iri / parea reflesso, e ‘l terzo parea foco / che quinci e quindi igualmente si spiri.// Oh quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi, / è tanto, che non basta a dicer ‘poco’.//O luce etterna che sola in te sidi, / sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi!// Quella circulazion che sì concetta / pareva in te come lume reflesso,/ da li occhi miei alquanto circunspetta,// dentro da sé, del suo colore stesso,/ mi parve pinta de la nostra effige:/ per che ‘l mio viso in lei tutto era messo”. Nella profonda e luminosa essenza di Dio mi apparvero tre cerchi di tre colori diversi e di uno stesso diametro; e l’uno sembrava prodotto dal riflesso dell’altro, come arcobaleno da arcobaleno, mentre il terzo sembrava fuoco che fosse acceso in ugual misura dall’uno e dall’altro. Oh, come sono insufficienti le mie parole, e deboli rispetto al mio ricordo! quanto ho scritto, rispetto a quanto vidi, è ancora meno che poco. O luce eterna, che in te sola consisti, che sola ti comprendi, e compresa da te e comprendendo te ridi d’amore! Quel cerchio che in te appariva generato come luce riflessa, il Figlio, contemplato attentamente da me, mi apparve recare dipinta al suo interno, col suo stesso colore, la figura umana; per la qual cosa il mio sguardo era totalmente fisso su di esso.

 Nota: siamo ormai alla fine della cantica e, quindi, del poema. San Bernardo prega la Madonna affinché con la sua infinita potenza e bontà intervenga presso Dio a favore di Dante. Tutti i Beati pregano a loro volta per lui, giungendo le mani. Maria acconsente. Finalmente il pellegrino fissa lo sguardo in Dio. Può così vedere l’unità dell’universo, la sua natura una e trina, e comprendere il mistero dell’incarnazione. L’intuizione del divino folgora la mente del pellegrino in un istante di suprema felicità. Dopo il mistero della molteplicità dell’universo fusa nell’unità di Dio, Dante contemplante ha l’intuizione di un altro mistero: la Trinità nell’Unità di Dio. La visione a cui assiste e che racconta è rigorosamente lineare e astratta. Non poteva che essere così: la sua mente ha intuito Dio, ne ha avuto una visione simbolica. Ciò che ora il poeta ricostruisce per noi lettori è l’essenza della Trinità, cerchi che si riflettono l’un l’altro, ma uno dei quali, quello che rappresenta lo Spirito Santo, è come un respiro acceso d’amore, che si libra tra il Padre e il Figlio, dando origine all’energia che tiene unito tutto l’universo, l’amore di Dio.  Dante sa che la rappresentazione di Dio, anche la più straordinaria, non può che essere inadeguata. Sceglie quindi la via dei simboli, della descrizione essenziale, evitando il rischio dell’inverosimiglianza. Le Tre Persone della Trinità appaiono dunque in forma di tre cerchi: la figura geometrica che simboleggia la perfezione e l’eternità, priva com’è di distinguibili inizio e fine.

Anche il mistero dell’incarnazione di Cristo, nei vv. 127-132, non è rappresentabile con mezzi umani: Dio conosce se stesso pensandosi, quindi creandosi con l’atto della sua mente, nella persona del Figlio. Quella che Dante vede in effetti è una non-immagine, visto che risulta impossibile distinguere una figura dipinta con lo stesso colore dello sfondo. Anche questo paradosso figurativo è coerente con la definizione teologica di Cristo, il Figlio di Dio: colui che incarnandosi restò quel che era, cioè Dio, diventando insieme quel che non era, cioè uomo.

Il chitarrista. Paradiso, canto XX, vv. 142-148.

“E come a buon cantor buon citarista / fa seguitar lo guizzo de la corda,/ in che più di piacer lo canto acquista,// sì, mentre ch’e’ parlò, sì mi ricorda / ch’io vidi due luci benedette,/ pur come batter d’occhi si concorda,// con le parole mover le fiammette”. E come un bravo suonatore di chitarra sa accompagnare col suo strumento la voce di un bravo cantante, e grazie al loro accordo il canto diventa più melodioso, così mi ricordo che, mentre l’aquila parlava, vidi le due anime di Traiano e di Rifeo (i due pagani) muovere le loro luci in accordo con le parole, con perfetta simultaneità tra loro, come sono nel battito d’occhi le due palpebre.  

Nota: siamo nel cielo di Giove. Le anime beate si sono riunite in forma d’aquila e, dopo varie evoluzioni e canti celestiali, la voce dell’aquila riprende il dialogo con Dante rivelando i nomi dei Beati che formano il suo occhio. Luce della pupilla è il biblico re David; cinque spiriti formano il ciglio: gli imperatori romani Traiano e Costantino, il re di Giuda Ezechia, Guglielmo d’Altavilla detto il Buono e il guerriero troiano Rifeo. Dante si chiede: ci sono due pagani in questa eletta schiera? L’aquila chiarisce: il regno dei Cieli è disposto a lasciarsi invadere dalla carità e dalla speranza. E questo è il caso di Traiano e Rifeo, pagani, che contro qualsiasi apparenza morirono da cristiani. E’ insondabile, per gli uomini, il mistero della predestinazione. Questa similitudine, sul motivo della musica celestiale che è dolcezza cosmica, fa emergere il motivo dell’abbandono mistico. Probabilmente Dante era un buon conoscitore di musica, e sapeva apprezzare le esecuzioni di concerti, che non dovevano mancare nelle corti del suo esilio. Infine, un’ultima sottolineatura: ovviamente la partecipazione del pellegrino al discorso conclusivo dell’aquila è il consenso morale dell’esule che, dopo aver sentito nel cielo di Marte da Cacciaguida la conferma dell’esilio, ora si sente esaltato dalla sua ferma fede nella giustizia divina. Se il suo esilio era stato il motivo centrale del cielo di Marte, ora –nel cielo di Giove- il motivo della giustizia imperscrutabile di Dio è anche espressione della speranza redentrice del poeta.

Il cibo. Paradiso, canto III, vv. 91-96.

“Ma sì com’elli avvien, s’un cibo sazia / e d’un altro rimane ancor la gola,/ che quel si chere e di quel si ringrazia,// così fec’io con atto e con parola,/ per apprender da lei qual fu la tela / onde non trasse infino a co la spuola”. Ma così come accade, se ci si è saziati di un cibo (se un dubbio è stato già chiarito), e di un altro resta ancora la voglia, in modo che si chiede di quello di cui rimane il desiderio e si ringrazia di quello che ha saziato, così allora feci io, ringraziando con l’atteggiamento del viso e con parole Piccarda, e la pregai di chiarirmi un altro dubbio, per sapere da lei quale fosse il voto che non aveva adempiuto fino in fondo.  

Nota: nel cielo della Luna c’è un’ombra con cui ansiosamente Dante vuole parlare ed è quella di una donna, per di più di Firenze. Il tono con il quale le si rivolgerà sarà improntato a raffinata cortesia. Lei è Piccarda Donati (I’ fui nel mondo vergine sorella).  Nella similitudine due metafore si innestano una sull’altra, entrambe ispirate alla vita quotidiana, in contrasto quindi con il rarefatto contenuto teologico dei versi precedenti. Significano un ritorno del ricordo della vita terrena, di un mondo di cui i beati non hanno più alcuna nostalgia. L’arte della tessitura era riservata alle donne: letteralmente, Piccarda non portò infino a co, cioè fino al capo la spola della sua tela, il voto che aveva offerto a Dio. Con un delicato riserbo doloroso Dante interroga Piccarda sul voto che essa non poté mantenere.

Il cicognino. Purgatorio, canto XXV, vv. 10-15.

“E quale il cicognin che leva l’ala / per voglia di volare, e non s’attenta / d’abbandonar lo nido, e giù la cala;// tal era io con voglia accesa e spenta / di dimandar, venendo infino a l’atto / che fa colui ch’a dicer s’argomenta”. E come il piccolo di cicogna che alza le ali perché vuol volare, e non si arrischia a lasciare il nido, e le riabbassa; così ero io in quel momento, col desiderio ora intenso ora spento di porre una domanda, tanto che arrivavo fino al gesto di aprire le labbra, come di chi si prepara a parlare.

Nota: Dante, Virgilio e Stazio hanno trascorso circa tre ore nella sesta cornice, quella dove i peccatori golosi espiano i loro peccati, a colloquio con i poeti Forese Donati e Bonagiunta Orbicciani da Lucca. Al momento di lasciare la cornice, dato che vi erano entrati alle undici del mattino (cfr. Purgatorio, XXII, 118-120), sono le due del pomeriggio. C’è ora bisogno di continuare con un certo ritmo l’ascesa. La scala è molto stretta e impedisce di salire i gradini stando appaiati. Infatti, fino a questo momento Virgilio e Stazio avevano camminato appaiati, precedendo Dante (cfr. ibidem, XXII, 127-129). Questa salita, forzatamente in fila indiana, lo vedremo, non impedirà ai tre di parlare a lungo. La strettoia è disagevole come difficile è la via della salvezza. Questa è un’altra similitudine ispirata al mondo degli animali e testimonia come i lettori medievali fossero molto più abituati di noi a convivere con una natura ricca di specie viventi. Come un piccolo di cicogna desideroso di volare ma ancora incerto sulle proprie forze, Dante è combattuto dal desiderio di porre una domanda e dalla paura di infastidire i due poeti che lo precedono sulla scala.

La cicogna. Inferno, canto XXXII, vv. 34-36

“livide, insin là dove appar vergogna / eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia,/ mettendo i denti in nota di cicogna”. Livide dal freddo le anime sofferenti erano immerse nel ghiaccio fino al volto, il luogo dove si manifesta la vergogna col rossore, battendo i denti col rumore che fanno le cicogne.

Nota: i due viandanti sono arrivati in un vasto lago di ghiaccio, Cocito, in cui sono immersi i traditori. Caina è la prima zona, coi traditori dei congiunti, sepolti nel ghiaccio fino al collo, e costretti a tenere il capo chino. Nella similitudine c’è una sottile crudeltà:  all’inizio dell’estate le cicogne danzano per accoppiarsi e il loro canto di corteggiamento e di nozze è compiuto battendo velocemente l’una contro l’altra le due parti del lungo becco; l’evocazione del calore estivo e della natura in rigoglio e in amore contrasta fortemente col gelo insopportabile che tortura queste ombre. Il paragone animalesco esclude ogni sentimento di pietà da parte del poeta, e serve a dare un’immagine plastica e sonora della pena dei dannati.

Paradiso, canto XIX, vv. 91-96.  

“Quale sovresso il nido si rigira / poi c’ha pasciuti la cicogna i figli,/ e come quel ch’è pasto la rimira;// cotal si fece, e sì levai i cigli,/ la benedetta imagine, che l’ali / movea sospinte da tanti consigli”. Come la cicogna, dopo aver nutrito i suoi piccoli, vola intorno al nido, e i cicognini che hanno mangiato la guardano con riconoscenza, così fece allora, e così io la guardai, la figura benedetta, la quale muoveva le ali sospinta da tante volontà concordi.

Nota: nel cielo di Giove gli spiriti giusti compiono per Dante una serie di grandiose evoluzioni: dapprima disponendosi in forma di una scritta, poi di una M, infine di un’aquila gigantesca. L’aquila formata dagli spiriti parla in prima persona con un’unica voce. Dante la interpella chiedendo che gli si chiarisca un dubbio sull’equità della dannazione di chi non ebbe la fede. L’aquila spiega che l’uomo, a causa delle sue capacità intellettive limitate, non può comprendere la giustizia di Dio. L’immagine della cicogna è senza dubbio più dolce e rasserenante dopo l’imponenza e la maestà dell’aquila e del falcone, entrambi rapaci; potrebbe essere un implicito richiamo all’aspetto “materno” della giustizia divina, quello più misericordioso, comunque sempre impenetrabile. Qui si riecheggia un versetto del Libro della Sapienza (9, 13): “Quale uomo può conoscere il piano di Dio? O chi può pensare che cosa voglia Dio?”.

I ciechi. Purgatorio, canto XIII, vv. 58-66.

“Di vil ciliccio mi parean coperti,/ e l’un sofferia l’altro con la spalla,/ e tutti da la ripa eran sofferti.// Così li ciechi a cui la roba falla,/ stanno a’ perdoni a chieder lor bisogna,/ e l’uno il capo sopra l’altro avvalla,// perché ‘n altrui pietà tosto si pogna,/ non pur per lo sonar de le parole,/ ma per la vista che non meno agogna”. Mi apparivano coperti di un ruvido cilicio, si sorreggevano l’un l’altro con la spalla, e tutti erano sorretti dalla parete. Con questo stesso atteggiamento, sulla terra i ciechi –a cui manca il necessario per vivere- stanno durante le solennità religiose delle indulgenze a chiedere l’elemosina, e ciascuno china il capo su quello che gli sta più vicino, per suscitare nei passanti pietà, non solo con i loro lamenti, ma anche per l’espressione del volto che implora non meno delle parole.

Nota: Dante e Virgilio hanno terminato l’ascesa della scala e sono arrivati alla seconda cornice, dove espiano gli invidiosi: il luogo è deserto, senza forme visibili. Si delineano i peccatori: sono coperti da mantelli grigi come la roccia che li circonda, e con essa si confondono. Con la similitudine il lettore ha l’impressione di avvicinarsi alle porte d’una chiesa: prima di vedere bene l’aspetto dei questuanti ne sentite la voce lamentevole. Le anime degli invidiosi qui assumono posizioni e atteggiamenti che inevitabilmente ispirano pietà: specialmente nel gesto di sostenersi la testa l’un l’altro, movimento che ispira amore fraterno, proprio quello di cui si dimostrarono privi in vita. Anche in questa necessità di aiutarsi a vicenda, accomunati dalla sofferenza dell’espiazione, sta la sostanza della purificazione. Così, anche il fatto che indossino il cilicio, strumento medievale di mortificazione della carne (che consisteva in una stoffa grossolana e pungente, a volte formata da setole di cavallo intrecciate), che continuamente martoriava la pelle, avvicina questi spiriti a monaci e penitenti che in processioni pubbliche proclamavano il loro peccato.

In una terzina successiva, vv. 100-102, Dante ricorre ancora al paragone con il cieco: “Tra l’altre vidi un’ombra ch’aspettava / in viata; e se volesse alcun dir “Come?”,/ lo mento a guisa d’orbo in su levava”. Tra le altre, vidi un’anima che, come appariva dal suo atteggiamento, mi aspettava, e se si volesse sapere in che modo, teneva il mento sollevato come fanno i ciechi.

Purgatorio, canto XVI, vv. 10-15.

“Sì come cieco va dietro a sua guida / per non smarrirsi e per non dar di cozzo / in cosa che ‘l molesti, o forse ancida,// m’andava io per l’aere amaro e sozzo,/ ascoltando il mio duca che diceva / pur: “Guarda che da me tu non sia mozzo””. Come un cieco cammina dietro la sua guida, per non perdersi e non urtare contro qualcosa che possa fargli male o addirittura ucciderlo, io procedevo per quell’aria acre e densa, eseguendo le raccomandazioni di Virgilio, che mi esortava continuamente: “Stai bene attento a non allontanarti da me”.

Nota: i due pellegrini sono immersi completamente nel buio fitto e acre della terza cornice, quella degli iracondi. La scena ripropone una rappresentazione vivente e in movimento della cecità: nel canto XIII era provocata dalla mancanza d’amore, che impediva di guardare nel giusto modo i propri simili, e i ciechi erano raffigurati nell’atto di chiedere l’elemosina, seduti e in un certo senso al sicuro; qui è provocata dall’offuscamento dell’ira, che impedisce alla ragione di dettare i suoi sani consigli e lascia l’uomo completamente in balia dei pericoli della propria furia. Allegoricamente, quindi, questo appoggiarsi di Dante-discepolo a Virgilio-guida è segno che l’anima razionale può aiutare l’uomo, preda degli effetti ottenebranti dell’iracondia, e mitigarne la cecità. Le parole-rima hanno suoni aspri (cozzo, sozzo, mozzo), per dare rilievo ai tragici effetti di violenza, lacerazione, distruzione. Alla fine, però, il poeta interrompe quell’atmosfera di desolata oscurità, inserendo le voci delle preghiere delle anime imploranti pace e misericordia.

Il cielo. Paradiso, canto XX, vv. 1-12.

“Quando colui che tutto ‘l mondo alluma / de l’emisperio nostro sì discende,/ che ‘l giorno d’ogne parte si consuma,// lo ciel, che sol di lui prima s’accende,/ subitamente si rifà parvente / per molte luci, in che una risplende;// e questo atto del ciel mi venne a mente,/ come ‘l segno del mondo e de’ suoi duci / nel benedetto rostro fu tacente;// però che tutte quelle vive luci,/ vie più lucendo, cominciaron canti / da mia memoria labili e caduci”. Quando il sole, l’astro che illumina tutto il mondo, tramonta nel nostro emisfero, in modo che la luce del giorno lentamente svanisce, il cielo, che prima brillava solo della sua luce, quasi subito diventa di nuovo visibilmente luminoso per l’apparire delle luci di molte stelle, in cui risplende –riflessa- l’unica luce del sole; e questo fenomeno celeste mi tornò allora alla memoria, appena il becco santo dell’aquila, insegna terrena dell’impero e dei suoi capi, tacque, poiché allora tutte quelle anime luminose, risplendendo maggiormente, iniziarono un coro che la mia memoria non è riuscita a trattenere.

Nota: nel cielo di Giove gli spiriti giusti compiono per Dante una serie di grandiose evoluzioni: dapprima disponendosi in forma di una scritta, poi di una M, infine di un’aquila gigantesca. L’aquila formata dagli spiriti parla in prima persona con un’unica voce. Dante la interpella chiedendo che gli si chiarisca un dubbio sull’equità della dannazione di chi non ebbe la fede. L’aquila spiega che l’uomo, a causa delle sue capacità intellettive limitate, non può comprendere la giustizia di Dio. Poi smette di parlare e subito le anime che la formano intonano un coro celestiale. La similitudine che pone in primo piano l’immagine del tramonto del sole e della visione delle stelle in cielo è imperniata sulla fusione tra Dio e i Beati. Dio è il sole del Paradiso e le anime splendono della sua luce riflessa. Come all’unica luce del sole, al tramonto, succede la moltitudine delle stelle, così all’unico ragionamento dell’Aquila sottentrano i canti dei singoli spiriti.  L’autore ricorda, nel comporre il poema, che cosa gli venne in mente mentre nel cielo di Giove assisteva al fenomeno: l’aspetto del cielo visto dalla terra, dopo il tramonto del sole. Ma non riesce a ricordare ciò che udì, per l’eccessiva bellezza del coro, che appartiene all’ordine dei fenomeni trascendenti, nei confronti dei quali la memoria umana è inadeguata. E la visione continua…

Paradiso, canto XXVIII, vv. 79-87.

“Come rimane splendido e sereno / l’emisperio de l’aere, quando soffia / Borea da quella guancia ond’è più leno,// per che si purga e risolve la roffia / che pria turbava, sì che ‘l ciel ne ride / con le bellezze d’ogne sua paroffia;// così fec’io, poi che mi provide / la donna mia del suo risponder chiaro,/ e come stella in cielo il ver si vide”. Come l’aria resta limpida e tersa, quando spira il vento di Nord-Ovest in modo più temperato, e perciò si purifica e si libera completamente dell’impurità che prima la offuscava, talché il cielo splende di bellezza in ogni sua parte; così accadde a me, dopo che la mia donna mi ebbe donato la sua chiara risposta, e come una stella nel cielo la verità mi apparve.

Nota: nel Primo Mobile, guardando negli occhi di Beatrice, Dante vede riflesso un punto luminosissimo, di intensità insostenibile, circondato da nove cerchi concentrici come di fuoco. Giratosi, ha la conferma che quello che ha visto è reale: Beatrice gli spiega che i nove cerchi non sono cieli come potrebbero sembrare, ma le Intelligenze angeliche, che ricevono amore e sapienza direttamente da Dio, ruotandogli intorno. La similitudine incarna in immagine uno stato d’animo, dando luce e aria all’idea. Luce e velocità: vicinanza a Dio come amore e sapienza: minore ampiezza dei cerchi. La proporzione è valida per i nove cerchi angelici, ma non per i nove cieli, che più risentono da vicino della virtù divina, più sono ampi e veloci; in essi non è valida l’inversione proporzionale tra rapidità di moto e ampiezza del diametro. Come ha intuito Contini, nella visione del punto-Dio circondato dai suoi Angeli sfolgoranti di amore e sapienza, il pellegrino ha avuto la percezione istantanea dell’irradiarsi dell’energia divina nel cosmo, come un albero che ha le radici in alto e i rami in basso.

I cimiteri-sepolcreti. Inferno, canto IX, vv. 112-120.

“Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,/ sì com’a Pola, presso del Carnaro / ch’Italia chiude e suoi termini bagna,// fanno i sepulcri tutt’il loco varo,/ così facevan quivi d’ogne parte,/ salvo che ‘l modo v’era più amaro;// ché tra li avelli fiamme erano sparte,/ per le quali eran sì del tutto accesi,/ che ferro più non chiede verun’arte”. Come ad Arles, dove il Rodano si getta nel mare col suo delta paludoso, e come a Pola, presso il golfo del Carnaro, che delimita l’Italia e ne bagna i confini, le numerose tombe rendono il terreno irregolare, così qui avveniva con simili sepolcri, ma in maniera molto più dolorosa, perché intorno alle tombe erano accese fiamme che le rendevano così roventi, che l’arte della lavorazione del ferro non richiederebbe un calore maggiore.  

Nota: Con l’intervento straordinario di un Angelo inviato da Dio si apre la porta della città di Dite. Finalmente Dante e Virgilio possono entrare nel sesto cerchio: alla vista dei due appare una distesa pianeggiante, punteggiata di sarcofagi aperti: sono gli strumenti di pena degli eretici e dei miscredenti. Ad Arles, nel nord dell’attuale Camargue, sono oggi ancora visibili resti di un antichissimo, vasto sepolcreto di origine paleocristiana ma anche con numerose arche di epoca medievale. A Pola invece, cittadina dell’Istria, non resta più nulla dell’antico cimitero cristiano qui citato. Il paragone con i cimiteri romani e paleocristiani della Provenza e dell’Istria costituisce il fantastico retroterra mondano di una immagine monumentale e quasi cosmica. Le fiamme sparse intorno ai sepolcri circondano forse ciascuno di essi, ma non occupano tutto lo spazio tra l’uno e l’altro, perché in tal caso impedirebbero il cammino ai due pellegrini. I sepolcri erano così arroventati che nessun’opera di fabbro richiede ferro più rovente per lavorarlo meglio. Questo è il primo aspetto del contrappasso: infatti il fuoco con cui gli eretici venivano arsi in terra continua ad arderli ancora nell’Inferno; poi, come essi credettero che la tomba fosse il sepolcro definitivo del corpo, in quanto secondo loro moriva anche l’anima, così ora sono condannati a stare in eterno in una tomba.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello