Elena Ferrante scrive della Beatrice di Dante e delle donne che “hanno intelletto d’amore”

Elena Ferrante: La versione di Beatrice

Intelletto d’Amore, donna gentile, guida dell’anima. O forse no. Chi era davvero la musa di Dante?

 

Nel “Robinson di Repubblica” del 24 aprile 2021, alle pp. 2-5, la scrittrice Elena Ferrante scrive di Beatrice, l’amica geniale e gentile di Dante. Fino alla “Vita Nuova” e alle “Rime” Beatrice è la giovane fiorentina che ha “intelletto d’amore”, come voleva il canone provenzale. Ma nella “Divina Commedia” accade qualcosa: il poeta trova il modo di forzare le vecchie forme, non scrive più di Bice Portinari ma decide di “dicer di lei quello che mai fue detto da alcuno”. Beatrice dà voce alle donne.

                                                        Gennaro  Cucciniello

 

Maria Corti –al cui straordinario lavoro devo la spinta a rileggere Dante dopo il primo incontro ai tempi del liceo- distingueva con giusto sarcasmo, in un suo intervento del 1966, la competenza di Eugenio Montale su questioni dantesche da “certo dilettantismo, sia pure geniale, in voga tra i nostri scrittori, o vuoto pneumatico dell’improvvisazione militante, avvezza a saccheggiare di fretta un testo o due e poi prodursi, fiduciosa nella propria verginità culturale”. Condivido ognuna di queste parole. Ma allora perché ho deciso di confermare, qui, in questa occasione, ciò che Corti, 55 anni fa, ha detto di tanti di noi che ci abbandoniamo alla vena scribacchina? Per amore, direi.

Anzi, per l’amore come, per la prima volta, mi si è fissato in mente da ragazzina leggendo i versi di Dante e dei suoi amici: l’amore associato al timore, al tremore, persino all’angoscia e all’orrore. Mi suggestionò, a 16 anni, che amare fosse quel patire, un esporsi a un pericolo certo. E non tanto per via della morte sempre dietro l’angolo, ma per la natura stessa dell’amore, per una sua propria energia che potenziava e insieme tramortiva e mortificava lo spirito della vita. Intanto, però, mi si incise in profondità che senza amore nessun saluto d’altri e quindi nessuna nostra salute, in cielo come in terra, era possibile, sicché esporsi, rischiare, era inevitabile. Comincio a scrivere queste righe per ammettere innanzitutto tra me e me che ho amato e amo le parole di Dante, ma sfinita dalla loro forza; e che anche semplicemente provare a venire a capo di questo amore, tra l’altro senza lo studio assiduo che giustamente Corti pretende, mi spaventa. Di conseguenza ho deciso di tenermi alle due o tre cose che tra prima liceo e università –quando volevo più di ogni altra cosa scrivere- ho tratto da Dante, per poi, tra mille aggiustamenti e fraintendimenti, coltivarmele nella testa come se fossero roba mia.

Il Dante che ho letto e studiato, cinquant’anni fa, muoveva dalla tradizione provenzale e siculo-toscana, ne cavava un suo stil novo interpretando quasi senza volerlo il bisogno della classe dirigente comunale di una letteratura più fine, si dava allo studio diventando a tutti gli effetti un savio poeta-filosofo che metteva al centro della storia umana il Cristo, e infine fondava il portentoso edificio della Commedia su un razionalismo aristotelico appena appena screziato, nell’ultima cantica, di mistica.

E’ un formulario, questo, che all’epoca memorizzai con diligenza e che oggi, se capita, riuso volentieri con qualche aggiornamento. Ma se dovessi elencare ciò che davvero mi ha segnata da ragazza –e non tanto come studentessa quanto come lettrice in erba e aspirante scrittrice,- comincerei dalla scoperta che Dante raccontava ossessivamente l’atto di scrivere, ne faceva lettera e figura, ne metteva in scena di continuo la potenza e l’inadeguatezza, la provvisorietà della buona riuscita e il fallimento.

Io fui turbata soprattutto dalla messinscena del fallimento. Mi sembrò che, anche quando Dante sottolineava i suoi successi, non sapesse sottrarsi all’idea che chiudere l’esperienza umana nell’alfabeto è un’arte esposta alle delusioni più cocenti. Qui non sto ad annoiarvi con le numerose citazioni che ho trovato nei quaderni di allora. Dico solo che già alla prima lettura liceale provai una gran pena per Bonagiunta. Le parole che Dante gli mette in bocca, nel XXIV del Purgatorio, mi commossero.

O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodo / che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne / di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!// Io veggio ben come le vostre penne / di retro al dittator sen vanno strette,/ che de le nostre certo non avvenne;// e qual più a gradire oltre si mette,/ non vede più da l’uno a l’altro stilo”.

Soffrii per quell’issa vegg’io, per quella malinconica constatazione di incapacità, come a dire: ecco, adesso mi rendo conto che c’era un ostacolo da superare, e tu, Dante, te ne accorgesti e con la tua scrittura ci riuscisti, mentre il Notaro, Guittone e io no.

Perché uno riesce e altri falliscono? Per difetto di ispirazione? Per ottundimento sentimentale, per insufficienza di mente e comprensione, come si dice, del proprio tempo? No. Mi sembrò con sorpresa che Bonagiunta ne facesse una questione di velocità. Confesso anzi che la lettura di quei versi mi fece venire in mente le mie prove di dettato delle elementari, l’ansia di restare indietro –come spesso succedeva- e perdermi quanto la maestra, leggendo da un suo testo, scandiva ad alta voce dalla cattedra. Allo stesso modo la colpa del Notaro, di Guittone, dello stesso Bonagiunta mi parve consistere non tanto nel prestare poco orecchio a ciò che Amore spira e ditta, quanto nel non riuscire a stargli sufficientemente dietro, come se la trasformazione della voce in scrittura risultasse angosciosamente lenta.

Quell’impressione di lettrice con la smania di scrivere, devo dire, non si è affatto indebolita quando negli anni, con l’accentuazione della lettura mistica (Casella, Corti, Colombo) delle opere di Dante e l’individuazione delle sue fonti, mi si è consolidata l’idea che quell’amoroso spirare e dittar dentro – perché poi la penna noti e significhi- sia da un lato, sì, l’enunciazione di una poetica ma soprattutto l’esplicitazione di una difficoltà. Dante-autore, infatti, costruisce l’episodio in modo che successo e fallimento siano le facce della stessa medaglia. La parola soave, nel suo salto d’orbita dall’interno del cuore all’esterno della scrittura, ha bisogno di uno scriba capace e rapido. Se quel passaggio non si compie in velocità –e Bonagiunta ammette: le vostre penne / di retro al dittator sen vanno strette / che de le nostre certo non avvenne – il fallimento è inevitabile. Dante-personaggio ha saputo snodarsi (Gorni) ed essere scriba svincolato che perciò scrive velocemente, tenendo dietro alla dettatura d’Amore; Bonagiunta, invece, è rimasto annodato e perciò lento, in vincoli.

Di quale natura è il vincolo che impedisce di essere scribi veloci? Mi pareva che lo dicesse implicitamente Dante stesso, ricorrendo al termine “stile”: c’è stato uno stile vecchio secondo il quale la mano è stata istruita: il Notaro, Guittone, Bonagiunta sono stati addestrati a quello stile, e anch’io, Dante; ma ora me ne sono sciolto, era un mezzo ormai insufficiente. La parola dettata da Amore richiede altro stile, cioè un di più di addestramento, una scrittura che, sciolti i nodi precedentemente acquisiti, sembri –come aveva scritto nella Vita nova,e io me l’ero segnato nei miei quaderni- “quasi da sé stessa mossa”.

Saldavo insieme passi distanti tra loro. Quel “quasi” era, ai miei occhi, importante. Nessuna lingua e nessuna scrittura si fanno da sole. Il quasi probabilmente equivaleva a un “come se”. Vale a dire: lo scriba deve studiare e diventare così di tale destrezza, che la parola, nel farsi scrittura, è come se corresse dall’interno all’esterno, dal cuore alla pagina, in autonomia. Lo stil novo, per essere nuovo, doveva lavorare a individuare i limiti del vecchio e superarli, ottenendo così una scrittura capace di non perdersi niente, mai più, del dettato di Amore. Bonagiunta –mi dicevo- avrebbe voluto far bene ma non aveva avuto lo studio, la disciplina necessaria per tenersi ben stretto a quel dettato. Dante no. Lui –forse più di ogni altro grande scrittore passato e futuro- conosceva e temeva e combatteva l’insufficienza della scrittura, anzi la considerava parte della limitatezza e caducità dell’umano. La sua stessa ossessione del nuovo, presente da subito nella sua opera, gli derivava dalla consapevolezza che scrittura era vincolata a scrittura; che ogni parola aveva una sua tradizione; che ogni primo eloquio ne covava un secondo; che da dentro Cimabue insorgeva Giotto; che occorreva imparare, da soli o in qualche scuola, sempre muovendo dalla scrittura altrui; che più la penna era disciplinata, più, come un atleta, si diventava veloci, capaci di incalzare la voce di Amore e afferrare ciò che alla tradizione scritta era inevitabilmente sfuggito; che ogni forma, insomma, era una gabbia non durevole e tuttavia necessaria, se si voleva ambire a scrivere come nessuno aveva mai scritto.

La Commedia, a questo modo, mi è sembrata una trappola straordinaria, preparata a lungo e minuziosamente. Credo ancora oggi che nessun autore, negli ultimi 700 anni, sia riuscito a trasformare la viva, studiosa analisi del proprio tempo, e la memoria ancor più studiosa delle carte del passato, in una gabbia così affollata della vita di tutti e, insieme, così singolarmente pensata, così appassionatamente personale, così dettagliatamente locale-universale. Qualcuno di indole generosa ha citato Proust e ho provato a convincermene. Ma non ci sono riuscita.

La pania miracolosa mi è sembrata, fin da quelle prime letture di tanti anni fa, l’immedesimazione. Nel mio elenco essenziale di lettrice con la vena scribacchina quella risulta la dote di Dante più stupefacente. Voglio restare, per comodità, all’incontro con Bonagiunta. Leggevo e mi esaltavo: come è bello quell’i’ mi son un, quanto è efficace quella fiera definizione del proprio lavoro. Ma due versi dopo, ecco, soffrivo. Soffrivo per Bonagiunta e la sua onesta ammissione di fallimento. Dante era Dante nella sua pienezza di sé, nel suo smisurato orgoglio di fondatore del nuovo; ma era, nel contempo, anche il sorpassato Bonagiunta. Ne rappresentava il municipalismo usando la memoria del suo stesso municipalismo. Ne metteva in scena il fallimento nutrendolo con la sua stessa angoscia di non avere tempo di vita sufficiente per imparare a fare meglio.

La capacità di Dante di dislocarsi nell’altro, pur facendo perno sull’io autobiografico coi suoi limiti costituzionali, mi lasciava a bocca aperta. Il segreto della sua lingua energica, capace di espressioni sintetiche folgoranti, spesso così veloci da fissare l’altro in un gesto fuggevole, una posa carica di sentimenti e risentimenti appena percettibili, mi sembrava soprattutto un effetto dell’immedesimazione. Una descrizione dantesca non è mai solo una descrizione, ma sempre un trapianto di sé, un salto rapidissimo del cuore –pochi secondi- dall’interno all’esterno. E certi dialoghi, specialmente quando sono fitti, fatti di battute di mezzo verso, sono una sorta di frenetica distribuzione di parti contrastanti. Balzi da sé fuori di sé, motivati da comprensione –proprio nel senso di afferrare assimilando- di ogni cosa, dell’animato e dell’inanimato, dell’errore e dell’orrore.

Forse la potenza dell’immedesimazione, fin troppo evidente nel poema –quasi un bisogno incoercibile di accorciare il più possibile le distanze- andrebbe osservata non solo nel Dante poeta-narratore, ma anche nel Dante lettore. A scuola le sue similitudini mi stordivano con la loro forza. Ma in seguito ho avuto altre occasioni di studio e ho imparato che spesso quelle figure derivavano dalla lettura di testi di svariata natura. Eppure non era mai una pura trascrizione o un omaggio deferente o un lavoro ligio di traduzione. Dante, anche quando leggeva versi pagani o la Bibbia o pagine filosofiche, scientifiche, mistiche, entrava nelle parole altrui in un modo così intimo, da captarne i segreti di senso e di bellezza, e trovare per loro una scrittura sua.

A volte quest’operazione riusciva e diventava memorabile, a volte pareva fallire, come se il testo di partenza non gli avesse dettato a sufficienza, o lui non avesse notato il notevole con la dovuta velocità e si fosse perso qualcosa. Ma l’energia verbale che Dante sprigionava, quando si dislocava in un testo e poi tornava in sé con il bottino, mi pareva sempre indiscutibile, anche quando i versi, al confronto con quelli proverbiali, parevano farraginosi, oscuri, se non brutti.

Devo dire anzi che questi ultimi mi assorbivano di più. Sospettavo che l’arruffio e la bruttezza testimoniassero, nel caso suo, di una tendenza ad alzare in ogni modo la posta. In tutte e tre le cantiche vedevo lo sforzo di andare oltre ciò che sapeva già immaginare e fare. A volte pensavo: qui nemmeno le note più dotte gli tengono dietro; e mi rompevo la testa e mi dicevo: s’è lasciato alle spalle non solo il suo senso del bello ma anche il nostro; siamo abituati a leggere e scrivere con troppa prudenza, siamo vili; lui no, lui vede se si può far poesia anche con la negazione della poesia.

Per esprimere questa spinta estrema all’immedesimazione ci ha lasciato –nel IX della cantica dove ipotizza la felicità celeste degli scambi muti, un fondersi e confondersi nella luce mistica- vocaboli come inluiarsi, intuarsi, inmiarsi. Sono stati verbi audacissimi e perciò senza fortuna. Abbiamo preferito la parola che ho usato fino ad ora: immedesimarsi. Eppure in quei vocaboli ho visto e vedo ancora il desiderio più grande di chiunque scriva e racconti: la smania di snodarsi da sé; il sogno di diventare l’altro senza ostacoli; un essere te mentre tu sei me; un fluire della lingua e della scrittura senza più sentire l’alterità come intralcio.

Mi colpì, però, che Dante non avesse mai inventato un inleiarsi, un diventare lei. Eppure aveva una violenta attrazione per il femminile, una spiccata sensibilità (rilevante, e anche un po’ divertente, che Pound definisse femminili le rime di Dante, sempre accentate sulla penultima). Era stato così audace da rappresentarsi ipersensibile come una Sibilla, esposto nel corpo ai segnali più impercettibili fin dalla nascita (Giunta), a ogni fragilità. E più di ogni cosa si era immaginato Beatrice, la più nuova delle sue novità.

A questo punto vorrei fare una piccola rettifica. Ho detto che mi sono decisa a scrivere questo testo per amore di Dante. Ed è così. Ma poiché intendo sforzarmi di dire il più “veracemente” possibile – la verità è sempre in cima ai pensieri di chi scrive, innanzitutto di Dante- voglio precisare che in me l’amore per Dante ha fatto subito tutt’uno con la sua più audace creazione: Beatrice appunto. Anzi, specialmente se mi tengo alle mie memorie di lettrice adolescente, devo aggiungere che è stata proprio lei a farmi amare subito Dante. Gli sono stata immediatamente grata per come si era rappresentato maschio pauroso, smarrito nella selva oscura, soggetto al pianto e allo svenimento di fronte al dolore altrui, salvato da una verosimile donna fiorentina che prima avviava il salvataggio togliendogli il saluto e poi, passata a miglior vita, lo rieducava sottraendolo definitivamente alla condizione di bamboccio deliro.

Ancora oggi faccio fatica a capire cosa ha fatto. Giustamente Gorni ha sottolineato che Beatrice “è l’unica donna in tutte le lettere occidentali a essere investita di un ruolo tanto onorevole”. Ma perché soltanto Dante colloca la sua donna così in alto nella gerarchia corrente del femminile? Quali strategie mette in atto per arrivare ad assegnarle plausibilmente un tale onore?

Ho pensato per molti anni che un’investitura di quel livello fosse del tutto fuori della norma del suo tempo. Ma c’è poco da fare, Dante era ben dentro a quella norma. Escludeva, per esempio, che fosse stata per prima una femmina a compiere l’atto egregio della parola. Considerava il bene dell’eloquio proprietà esclusiva di Adamo, dalla cui prima articolazione del fiato era uscito il vocabolo: Deus (fantasticavo, leggendo il De vulgari eloquentia, che la prima donna, in mancanza di una lingua sua, avesse imparato per necessità la lingua del serpente, l’unica disponibile, se voleva avere intelligenza del mondo creato). Sia prima che dopo Babele, Dante non concedeva nessuna dignità agli usi linguistici muliebri, accostati nel Convivio a quelli puerili. Le donne insomma si distinguevano per la loro bellezza e per il loro silenzio, e la giovane Beatrice delle Rime e di una buona metà della Vita nuova non è affatto un’eccezione.

Nel quotidiano Dante la rappresenta chiusa nelle sue vesti compostamente colorate, molto riservata e lontanissima dalle scollacciate fiorentine denunciate dall’avo Cacciaguida, ma bellissima tanto da occupare un posto di rilievo nella gerarchia del desiderio stabilita dai maschi. Nei sogni è muta e nuda, cioè coperta solo da un drappo rosso trasparente, ed è poco convincente che quella nudità appena velata sia simbolo di purezza. Ha occhi giovinetti per abbagliare e bocca per sorridere o, se va bene, per un trattenuto salvifico saluto che non è il principio di una conversazione ma rende muti e tremebondi. Insomma il giovane poeta è ben chiuso dentro al femminino provenzale, al suo adattamento siculo-toscano, alla reinvenzione guinizelliana e ai tratti angosciati di Cavalcanti.

Ma poi qualcosa comincia a cambiare, e già prima della morte della giovane donna. Mi parevano belli, nella Vita nuova, i momenti in cui a Dante veniva tolto il saluto. E mi piaceva quando, insieme alle sue vivaci amiche, Beatrice lo gabbava inchiodandolo, prossimo alla perdita dei sensi, contro una parete dipinta, come se lui stesso fosse nient’altro che un manufatto, figura tra figure, finzione tra finzioni. Ma soprattutto era memorabile la svolta del capitolo XIX, quando, passando per una strada lungo un fiume chiaro, a Dante veniva “tanta volontade di dire” e una spinta forte a cambiare registro, cancellare la convenzione letteraria della servitù amorosa e sostituirla con la lode senza contropartita della gentilissima.

Tutti i manuali segnalavano quel passaggio e io ne memorizzavo l’importanza: era l’inizio di un percorso lungo di studio e di conseguente auto trasformazione. Ma alla fin fine mi è rimasto in mente per sempre quella tanta volontade di dire a cui segue l’irruzione (“la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa”) di quel primo verso: “Donne che avete intelletto d’Amore”. Tanto che se oggi mi si chiede in che cosa consiste la svolta di quel XIX capitolo, faccio fatica a rispondere con formule tipo: la Beatrice storica, da persona incarnata nel “tu”, si muta ora in materia finissima del discorso poetico dantesco. Mi torna in mente invece, subito, la grande impressione che mi fece quel modo di definire le destinatarie della canzone: donne che avete intelletto d’Amore; donne cioè che non siete “pure femmine” ma avete la capacità di capire Amore.

Sentivo che l’intera gerarchia del femminile, in quel passo famoso, veniva ripensata, e in nome non più della servitù d’amore, e forse nemmeno del solo cuor gentile. La parola della rifondazione dantesca era intelletto, vocabolo di complessa tradizione scritta, subito seguito, in posizione di genitivo oggettivo, da un altro vocabolo –Amore,- di altrettanto complessa tradizione scritta. Dante faceva un balzo veramente inatteso, ben visibile solo se ci si sottrae all’interpretazione che oppone, nell’analisi del testo, le “pure femmine” alla loro mutazione in figure simboliche. Le figlie di Eva restavano, nel complesso, “volgare schiera”. Ma da loro si staccavano le donne gentili –diverse cioè dalle femmine dispettose e triste come la Micol di Purgatorio, X,- dotate in sovrappiù di intelletto, quelle probabilmente appartenenti alla categoria sociologica abbozzata nel Convivio: esseri umani, cioè, che non hanno potuto nutrirsi di sapere non per difetto organico o per superficialità e pigrizia, ma a causa della “cura familiare o civile”. E’ una élite a cui l’uomo-poeta, sensibile e colto, si rivolge con la sua parola fine dettata da Amore, perché sa che quella parola, da quelle donne, sarà capita. Certo, la loro lingua non può essere che la muliebre, perciò per sua natura inservibile. Certo, esse non possono dire, ma solo lasciarsi laudare. E tuttavia ecco che sono ritenute capaci di assorbire la lode concettualmente complessa che il poeta fa di loro nella figura di una che le riassume al meglio: la non gentile ma gentilissima Beatrice. Il giovane autore della Vita nuova, una volta messe tra parentesi l’attrazione sessuale e la gerarchia della bellezza, inaugurava così una nuova gerarchia del femminile, fondata sulla capacità di capire. Cancellate le finalità sessuali, ma tenuta in piedi la categoria delle donne gentili che pure con la loro beltà agitavano i cuori altrettanto gentili degli uomini, Dante isolava una categoria femminile alla quale era possibile esporre, offrire in lettura, cantare pensieri ardui sapendo che sarebbero stati compresi.

Se si fosse fermato lì, avrebbe, ai miei occhi, già fatto dentro i limiti del suo tempo un’operazione ragguardevole di promozione maschile delle potenzialità delle donne. Ma lui, come si sa, non si è fermato. O almeno così ho pensato negli anni del liceo e dell’università.

Forse si era accorto che il mondo delle donne non era solo quello immediatamente sotto i suoi occhi: madri schiacciate dalle responsabilità domestiche, sorvegliate ragazze da marito, fanciulle povere esposte a ogni violenza, donne dai costumi dissoluti o anche donne gentili come Francesca travolte dalla lettura dei romanzi cavallereschi. Forse, nelle righe finali della Vita nuova, si era già reso conto che certe donne potevano avere profili più complessi, che c’erano figure femminili radicalmente e rischiosamente nuove, ben più nuove di quelle, pure nuovissime, alle quali stava attribuendo intelletto d’Amore. Ed era perciò che chiudeva il suo libello proponendosi di non scrivere più di Beatrice, se non avesse trovato il modo di forzare ulteriormente le vecchie forme e “dicer di lei quello che mai fue detto da alcuno”.

Ce la farà davvero. Ci vorranno un po’ d’anni, un virile peregrinare e molto studio. Ma quando Beatrice riapparirà, nella Commedia, non sarà più solo una donna che ha intelletto d’Amore, né sarà più solo la gentilissima. Dante la cambierà radicalmente con un colpo di genio, facendola uscire, come accenna Garavelli nel commento al poema, dal suo mutismo. Non so se la cosa ha ricevuto altrove più che un cenno, ma sicuramente se lo merita, e comunque a me sembrò un fatto fondamentale che il monumento alla ragazzina di Firenze Dante lo fondasse sul dono della favella.

Beatrice ora parlava, e parlava non secondo i meschini usi muliebri della lingua, né per un breve saluto. Beatrice parlava come e forse meglio di un uomo. Dichiarava, per esempio, quasi fosse Dante stesso, già nel resoconto offerto da Virgilio in Inferno, canto II: “Amor mi mosse, che mi fa parlare”. E nel XXX del Purgatorio faceva un salto di qualità verbale che lasciava a bocca aperta. Dante insomma ce l’aveva messa davvero tutta. Per dire di lei ciò che di nessuna donna era stato mai detto, aveva spento la prima lingua indefettibile di Adamo, si era accodato a chi diceva che è opera naturale che l’uomo e la donna favellino (Paradiso, XXVI) e aveva dato a Bice Portinari, ormai definitivamente estranea alle “pure femmine” grazie alla morte, non solo uno scranno nei cieli ma un eloquio e un sapere fuori del comune.

Eccoci dunque al punto che mi entusiasmava di più e mi entusiasma: Beatrice, tra Limbo e Eden e sfere celesti, diventa un’autorità indiscutibile, mescolando ad arte il femminile col maschile. Nei toni è amante, madre e, a sorpresa, ammiraglio. Ha, nella sua vita oltremondana, un prestigio che le permette di attribuire all’io narrante maschile, protagonista della “visione”, una esemplarità non diversa da quella di Agostino d’Ippona e di Severino Boezio. La sua autorità di donna del cielo è tale che può assegnargli legittimamente, dopo un viaggio durato ben 64 canti, lo stesso nome dell’autore: Dante.

Ed è solo l’inizio. Subito dopo, proprio in virtù di quella sua collocazione gerarchica, Beatrice può permettersi di rimproverare il suo uomo con una durezza di donna che è passata, alla lettera, a miglior vita, cioè a una vita non più costretta nella spoglia della fanciulla bellissima dagli occhi giovinetti, ma in quella della persona ormai pienamente compiuta. La sua reprimenda ha tutti i tratti della rivalsa. E’ come se dicesse: guardami, ecco cosa ero in potenza e tu non hai capito la mia mutazione, sei rimasto fermo a uno stadio che non mi apparteneva più. La colpa, cioè, per cui Dante deve ora versare lacrime di pentimento, è essere rimasto all’immagine da lui stesso potenziata di gentil donna-sempre bambina; di non aver imparato per tempo dalla dissoluzione di quella immagine; di essersi anzi attardato a riesumarla con “pargolette” per loro natura non abilitate a una forte consapevolezza di sé e dell’Amore, ma al massimo capaci di una silenziosa comprensione della lode in lingua maschile. Ecco invece di quale coscienza e scienza e favella sa abbellirsi una donna, non più stretta dai nodi della vita terrena.

Da dove prendeva Dante gli elementi per inventare questa definitiva Beatrice? Gli studi degli ultimi 30 anni del ‘900 –ho imparato col tempo,- hanno mostrato ampiamente come i ruoli femminili, nel Medioevo, fossero più vari e complessi di quelli che i maschi ammettevano nel loro donneare. C’erano donne colte, c’erano donne che a loro rischio e pericolo leggevano e commentavano le Scritture. E infatti, se si fa pazientemente l’elenco di quante questioni complesse il poeta-filosofo –colui che aveva distribuito nel Convivio, democraticamente, sapere a uomini e soprattutto donne di scarso ozio e di molto negozio, componendo canzoni dense di sapere e di senso e dottamente commentandole- ha attribuito alla competenza di Beatrice, si resta molto meravigliati. Io lo sono tuttora. E mi viene voglia di accostare, oggi, Dante al Meister Eckhart come lo ha tratteggiato, proprio sull’onda di una serie di studi di fine secolo sulla mistica femminile, Luisa Muraro nel suo Il dio delle donne. Come Eckhart assorbe nei suoi scritti l’esperienza delle beghine, così Dante potrebbe aver reinventato poeticamente Beatrice guardando alle donne studiose e commentatrici delle Scritture. Non si tratta di attestarsi sul luogo comune di una Beatrice simbolo della Teologia. Beatrice non è (solo) un simbolo. Dante la immagina, alla lettera, come donna che ha intelletto di Dio e linguaggio speculativo, modellandola –mi piace pensare- sull’eco di figure come Matilde di Magdeburgo, Ildegarda di Bingen, Giuliana di Norwich, Margherita Porete o Angela da Foligno, magistra theologorum. Lo fa naturalmente assegnando a una figura femminile competenze scientifico-teologico-mistiche che sono le sue, che estrae dai suoi studi, da una sua costola. Ma nel farlo –in quel suo inleiarsi, diciamo- si spinge a immaginare –con il suo razionalismo misticheggiante, con il suo realismo visionario- il possibile delle donne. E per questo bisogna essergli grate. Ha fatto, con quel monumento, più di tanti altri nei secoli. Pazienza se “Dante” –la parola inaugurale di quel primiloquio di Beatrice inventato in Purgatorio XXX- suona un po’ come un calco della parola “Dio” in bocca ad Adamo, quando la figura di polvere del primo uomo riceve dal suo creatore il dono della favella e, per la prima volta, devotamente, gli parla.

 

                                                                  Elena  Ferrante