Fuoruscita dal Pd: quei dem sul lettino dello psicoanalista.

Scissione Pd, quei dem sul lettino dello psicoanalista

Ciò che sta avvenendo non ha il carattere improvviso del trauma, quanto piuttosto quello di un lento logoramento non trattato nei tempi giusti. Laddove l’opera di mediazione incontra un limite invalicabile, che fare?

 

In questo articolo Massimo Recalcati, con l’aplomb del professionista, commenta con relativo distacco la separazione dal Pd di una parte della minoranza: si può concordare con la sua analisi, è meglio separarsi che continuare a litigare. Quasi nello stesso tempo, domenica 26 febbraio, Walter Veltroni –in un colloquio con Eugenio Scalfari, pubblicato su “Repubblica”- ha puntualizzato il fatto traumatico delle sue dimissioni, nel marzo del 2009, da segretario del Pd. Ha detto testualmente: “mi sono dimesso non in seguito agli insuccessi delle elezioni regionali in Abruzzo e in Sardegna ma per preservare l’unità del partito”, unità messa in crisi già allora dalle iniziative parascissioniste di D’Alema. Ricordo bene quella circostanza: tanti di noi avevano incoraggiato Veltroni a non arrendersi di fronte a questi attacchi subdoli, a convocare un Congresso straordinario e a chiedere al popolo dei Democratici di pronunciarsi e scegliere la leadership. Veltroni pensò e decise altrimenti: oggi si è visto che la sua scelta non è stata fruttuosa. D’Alema ha continuato a tramare, ha fatto fuori Prodi nelle elezioni presidenziali dell’aprile 2013, ha preparato e concluso questa fuoruscita nel febbraio del 2017.

Voglio utilizzare un pensiero di Leopardi per spiegare il mio tentativo di comprendere: “Si perviene a una parvenza di verità solo sviluppando, indagando, svelando, considerando, notando le menome cose, e risolvendo le stesse cose grandi nelle loro menome parti” (P. Citati, “Leopardi”, Mondadori, p. 52). Scegliendo la segreteria Veltroni moltissimi, nel Pd, erano tenacemente convinti di alcuni punti fermi: c’era bisogno, dopo le risse di coalizione che avevano distrutto l’Unione, di un partito plurale, di attivi e di partecipanti, non di un partito liquido in un’Italia già tanto frammentata; di una classe dirigente diffusa che non rispondesse al capo o a un paio di consoli ma a un indirizzo di governo condiviso; di un percorso che unificasse il partito senza però pagare dazi a catene di obbedienza personale, ai tanti cacicchi sparsi nei territori, coi pacchetti di tessere finte. Nella realtà “botti troppo vecchie hanno impedito al vino nuovo di entrare”: con questa efficace metafora Ilvo Diamanti fotografò la situazione. Veltroni si dimise non resistendo al cannibalismo tra i gruppi dirigenti ma pagò soprattutto l’errore di una sua candidatura appoggiata con sospetta unanimità da esponenti di diverso orientamento (D’Alema, Bersani, perfino De Mita) e non accompagnata da una discussione franca e approfondita sui problemi gravissimi che condizionavano la realtà italiana (debito pubblico, scarsa produttività, corruzione, inefficienza della pubblica amministrazione, evasione fiscale, carenza di classe dirigente, etcc….).

Il Pd in realtà non è mai stato unito fin dall’inizio. L’unità fittizia era data dal sistema elettorale maggioritario e dall’antiberlusconismo. Avrebbe dovuto essere un partito nuovo, più pragmatico e meno ideologico, più riformista e radicale; non fratturato in varie correnti ideologiche o consociative ma plurale, dove le tante diversità di idee potessero confluire in una sintesi di proposta politica. Il Pd che si spacca quindi non mette a repentaglio un grande patrimonio ideologico. Quei mondi se ne sono già andati e sono stati seppelliti 25 anni fa. Solo si è interrotta una convivenza oggettivamente impossibile.

E diciamo finalmente le cose come stanno. La scissione è stata studiata e strutturata da mesi. Bersani e D’Alema per settimane ci hanno preso in giro, raccontando tutto e il contrario di tutto: il sostegno al governo Gentiloni (e ora si uniscono ai reduci di Sel che non vogliono il governo Gentiloni); la conferenza programmatica; il carattere anaffettivo di Renzi (e ora D’Alema dice che se al congresso vincesse Orlando loro ritornerebbero sui loro passi); la data del congresso; le periferie e la rivoluzione socialista. Così come le condizioni ricattatorie, poste e poi subito cambiate ogni volta: congresso subito, carte bollate, congresso dopo, congresso mai, fino all’incredibile richiesta di una minoranza che vorrebbe vincere pretendendo l’abbandono del principale avversario. Tutto suona fastidiosamente vecchio. Ora la parola d’ordine è : scindiamoci  e moltiplichiamoci. Per dirla con una vecchia gag di Corrado Guzzanti, scinderci sempre di più e creare microscopici partiti comunisti, che cambiano continuamente nome e forma, forma e nome, ogni giorno un nuovo nome e un nuovo simbolo. Per sparire dal mondo del visibile, dividiamoci anche se la pensiamo allo stesso modo e così la Sinistra diventerà un mistero.

Si scrive bene in un articolo sull’”Unità”: i fuorusciti in verità non hanno mai creduto nel progetto del Pd, non hanno creduto nella vocazione maggioritaria (e infatti ora pascolano beatamente nel proporzionale), non hanno fiducia in un partito capace di rappresentare da solo le richieste di un intero Paese, che sappia sostenere i talenti e proteggere le fragilità, che sappia accompagnare il riscatto di chi vuole emergere, che sappia favorire la scommessa di chi vuole estendere i diritti e richiamare i doveri di tutti. Buona lettura e tanti auguri.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

Nelle letture politiche della scissione in corso nel Pd il coro sembra essere giustamente unanime: la scissione è il frutto di una irresponsabilità che coinvolge entrambi i contendenti. Con una penale per chi –Matteo Renzi- avrebbe avuto più mezzi per provare ad arrestarne il decorso. E’ indubbio che chi col cuore e con la ragione guarda a sinistra non può che sentirsi angosciato e smarrito. Gli psicoanalisti nel loro lavoro quotidiano si occupano continuamente di separazioni e, dunque, conoscono bene il dramma che le accompagna. Scompaginamento, incertezza per il futuro, trauma della perdita, vacillamento della propria identità, rottura col proprio passato. Ma la scissione del Pd non ha il carattere improvviso del trauma, quanto piuttosto, come spesso accade nelle separazioni della vita individuale e di quella collettiva, quello di un lento logoramento che non è stato trattato nei tempi giusti.

La scissione in corso non è il prodotto di una frattura violenta, ma di un processo che ha origini lontane legate addirittura, per alcuni, all’atto stesso di fondazione del partito diviso in due anime tra loro culturalmente inconciliabili: quella cattolica sociale e quella socialista-comunista. Secondo Massimo Cacciari questo sarebbe stato il peccato originale del Pd: esigere una convivenza forzata tra elementi troppo eterogenei per stare insieme. E’ la sentenza del partito nato già morto che risuonerebbe oggi come una profezia avveratasi.

In realtà la psicoanalisi insegna a leggere il dramma della separazione anche da tutt’altra prospettiva. Per esempio, quella dell’impossibilità della separazione. Questo vale per i legami familiari, quelli amorosi e anche quelli gruppali e istituzionali. In molti casi restare insieme, non separarsi, è il vero problema che può ostacolare un progetto di crescita e autonomia. Il legame che si è leso, che ha perso forza generativa, si trasforma allora in un laccio mortale. Io credo, come molti elettori del Pd, che anche la separazione in corso può non essere solo una sciagura, una maledizione da tamponare ad ogni costo, ma diventare un’occasione (certamente dolorosa e angosciante) per ritrovare le ragioni di una convivenza possibile e non avvelenata da continue aggressioni intestine. Se per un verso l’azione politica degna di questo nome mira sempre alla mediazione tra le parti, essa dà prova di maturità anche quando deve prendere atto di una differenza che è divenuta insormontabile.

Laddove l’opera di mediazione (che entrambi i fronti rivendicano, in questo caso specifico, di avere esercitato) incontra una barriera, un limite invalicabile, cosa resta da fare? E’ un punto di impasse che riguarda la nostra vita in generale. Se in un legame storicamente fondamentale non si trovano più le ragioni della sua esistenza o, meglio, se la sua esistenza appare contaminata da continue tensioni, da odi reciproci, da mancanza di fiducia, da accuse ripetute, da infinite rivendicazioni, cosa resta da fare? La scissione non era già manifesta nel tempo della campagna referendaria dove, per la prima volta all’interno del Pd, si organizzavano comitati militanti a sostegno dello schieramento avverso a quello della maggioranza del partito e del suo segretario? E’ mai accaduto qualcosa del genere nella storia della Sinistra?

Quando un legame affettivo o istituzionale si spezza, quando una sua parte si perde irreversibilmente, è sempre una sconfitta. La pulsione di morte –che è una pulsione autodistruttiva- prevale su quella di vita, che è una pulsione affermativa e aggregativa. Tuttavia, non si può non vedere come il prolungarsi di una convivenza forzata rischi anch’essa di alimentare una pulsione di morte altrettanto devastante. L’orizzonte del mondo allora si restringe sulle vicissitudini interne del legame. Anziché trasformare il mondo –come invitava a fare Marx- si resta paralizzati nella continua ruminazione su se stessi. E’ quello che ha distanziato la politica dal Paese reale. Non è forse questo uno dei mali maggiori che affligge il Pd da qualche tempo? Una scissione esterna si chiama separazione, mentre una scissione interna permanente si chiama schizofrenia.

Massimo Recalcati

Articolo pubblicato in “Repubblica”, mercoledì 22 febbraio 2017