Il grande gioco di Lenin: prima l’India, poi Londra

Il grande gioco di Lenin: prima l’India, poi Londra.

In un saggio che sembra un romanzo, lo storico Peter Hopkirk narra come il leader bolscevico volesse portare la rivoluzione in Occidente. Ma la prese alla lontana, dal vicino Oriente.

 

Dal Cremlino Lenin guardava a Oriente. Era là, tra le steppe sterminate e le montagne altissime che vedeva l’inizio del cammino per portare la rivoluzione comunista nel mondo. Per farlo diede il via a un nuovo capitolo di quello che, qualche anno prima, l’ufficiale della British India Company Arthur Conolly aveva chiamato Il grande gioco. Ovvero la sfida combattuta tra Inghilterra e Russia per il predominio sull’Asia centrale. Dalle città della via della Seta ai deserti, alle leggendarie catene montuose del Karakorum, tra valli nascoste e villaggi irraggiungibili. I protagonisti furono spie, faccendieri, esploratori infaticabili, combattenti a loro agio tra voltafaccia, guerre di religione, brama di potere e sogni di rivoluzione. Peter Hopkirk, giornalista, scrittore e soprattutto meticoloso ricercatore, ha raccontato come nessuno queste vicende, prima nelle circa 600 pagine di “Il grande gioco” (Adelphi) e ora nelle 320 di “Avanzando nell’Oriente in fiamme” (Mimesis).

Perché se nell’Ottocento la sfida per il predominio nell’Asia centrale era tra la Russia zarista –in cerca di uno sbocco sull’Oceano Indiano- e l’Inghilterra, che non voleva mollare la presa sull’India, la sua colonia più importante, con l’arrivo dei bolos, così gli inglesi chiamavano i bolscevichi, le pedine sulla scacchiera tornarono a muoversi. Perché prmai la resistenza dell’Armata bianca era finita, la famiglia dello zar era stata massacrata a Ekaterinburg e Lenin poteva pensare a come incendiare il mondo con il fuoco rivoluzionario. “Cominciando dall’Inghilterra che considerava il peggior nemico”, scrive Hopkirk. Per creare le condizioni perché ciò potesse accadere, il leader comunista scelse una via indiretta. Quella di colpire il cuore economico di Londra, strappandole l’India. Le conseguenze economiche per i sudditi della Corona –era la convinzione di Lenin- sarebbero state devastanti e la Rivoluzione sarebbe arrivata anche Oltremanica.

Un pericolo che era ben chiaro al capo dei servizi segreti britannici, sir Walter Bullivant, “che sentiva soffiare un vento pericoloso e avvertiva il rischio che una scintilla potesse incendiare le steppe”. In quella scacchiera tornarono a intrecciarsi trame segnate da segreti e massacri. Spiccarono personaggi come l’agente britannico Frederick Marshman Bailey (1880- 1967). Uno che aveva combattuto nella Grande Guerra, abilissimo nei travestimenti, talmente astuto da farsi passare per un agente dei servizi segreti bolscevichi. Che a Tashkent, dove si era rifugiato, stava per essere catturato dai sovietici, convinti che prima di fuggire Bailey sarebbe tornato nella sua casa in città perché, e questo fu lo sbaglio decisivo, “un ufficiale inglese non parte mai senza il suo spazzolino da denti”. Chi lo braccava, però, non sapeva che Bailey ne aveva sempre in tasca uno di riserva.

Se la Gran Bretagna poteva contare su uomini come lui, Lenin mise in campo personaggi altrettanto astuti e fedeli alla causa. Come l’indiano Manabendra Nath Roy (1887-1954), che convinse il leader comunista della necessità di esportare la rivoluzione nel suo Paese. O il russo Michail Borodin che giocò la sua partita in Cina cercando di allungare i tentacoli di Mosca sul Paese.

Ma Lenin non era l’unico a voler creare un impero in quelle terre. Roman von Ungern Sternberg (1886-1921) era chiamato il barone sanguinario per le sue indicibili crudeltà. Fermamente convinto di essere un discendente di Gengis Khan, di cui voleva far risorgere l’impero liberando la Russia dai bolos, minacciava di costruire “un viale delle forche dalla Mongolia a Mosca dove appendere bolscevichi ed ebrei”, scrive Hopkirk. Finirà fucilato il 5 settembre 1921 dai soldati dell’Armata Rossa. Anche il turco Enver Pasha morì combattendo nella speranza di unire i musulmani delle vecchie province orientali zariste contro i bolscevichi. Nella primavera del 1922 radunò un esercito di circa settemila uomini dando del filo da torcere ai russi. Ma anche il suo sogno imperiale finì male. Il 4 agosto 1922, con soli 25 fedelissimi, guidò una carica suicida contro un muro di mitragliatrici bolsceviche.

Infine Ma Shongying, cinese di fede musulmana che voleva costruire un impero islamico in Asia centrale, trascinando lo Xinjiang in una feroce guerra civile. Sconfitto, sparì nel nulla.

Nel frattempo, dopo la morte di Lenin (1924), a Mosca si era aperta l’era di Stalin. Che, prima, diede il via a una dura contrapposizione con l’Inghilterra, per poi accantonarla davanti all’aggressività del Giappone. A quel punto, ragionava il Piccolo Padre, era meglio che l’India restasse sotto l’egida inglese, piuttosto che finire sotto il controllo del Sol Levante. Per questo ai comunisti indiani venne imposto il dietrofront: i sogni di liberazione avrebbero dovuto aspettare. E fu proprio con Londra, quando il 22 giugno 1941 i nazisti attaccarono l’Urss, che Stalin si trovò alleato. Alla fine l’Oriente non aveva preso fuoco. Lo stava facendo l’Occidente, ma non come aveva sognato Lenin.

 

                                                        Matteo Tonelli

 

Questo articolo è stato pubblicato il 20 agosto 2021, nel “Venerdì di Repubblica”, alle pp. 94-95.