Il lungo viaggio di Leone l’Africano
Musulmano, battezzato da papa Leone X, è stato il primo geografo a descrivere, nel Rinascimento, terre fino ad allora solo immaginate.
Pubblicato a Venezia nel 1550 nell’antologia delle “Navigationi et viaggi” di Giambattista Ramusio, più volte ristampato e tradotto in latino, francese, inglese e tedesco, il libro “Della descrittione dell’Africa et delle cose notabili che ivi sono” ebbe un notevole successo, dovuto sia a un minuzioso resoconto geografico, storico e antropologico del continente, sia all’eccezionale vicenda umana dell’autore, che il frontespizio presentava come Giovan Lioni Africano.
Questi era nato intorno al 1488-89 nella ricca e colta Granada moresca, che aveva poi abbandonato bambino nel 1492, quando la reconquista castigliana aveva infine cacciato dalla Spagna gli ultimi baluardi musulmani. Trasferitosi a Fez con la famiglia, dopo aver completato gli studi coranici assunse un ruolo diplomatico al servizio del sultano marocchino, il che lo portò a compiere lunghi viaggi fino a Timbuctu nelle “terre dei Neri”, a Istanbul, al Cairo, ad Aswan nell’alto Egitto. Fu al ritorno dalla corte ottomana, nel 1518, che egli fu catturato al largo di Creta da un pirata spagnolo che lo portò a Roma, dove (cosa del tutto eccezionale) fu donato al papa e per un anno rinchiuso in Castel Sant’Angelo. Leone X (Giovanni de’ Medici) ne apprezzò l’ingegno e la cultura, ne promosse la conversione e nel 1520 lo battezzò in San Pietro coi suoi due nomi, Giovanni e Leone. Fu così che al-Hasan al-Wazzan divenne Giovanni Leone de’ Medici, detto Leone l’Africano.
Per oltre dieci anni, nel turbine delle guerre d’Italia e del Sacco di Roma del 1527, egli visse in Italia, dedicandosi alla stesura della “Descrittione dell’Africa”, sostanzialmente ultimata intorno al 1526, e di opere storiche, grammaticali, lessicografiche. Le sue tracce si perdono dopo il 1531, quando fece ritorno alla sua Africa, forse a Tunisi, e alla sua fede islamica. Ma poco o nulla si sa di lui. Egli stesso si definì un anfibio, a cavallo di una rocciosa frontiera che seppe oltrepassare in un senso e nell’altro, affrontando scelte difficili, forse fittizie e abilmente dissimulate, vissuto sul crinale di civiltà e fedi diverse e nemiche, sempre in guerra tra loro per terra e per mare, ma anche collegate da molte e inattese porosità come quella vissuta da un musulmano battezzato dal papa in persona.
“La Descrittione dell’Africa” non è un resoconto di viaggio, ma un’opera di geografia umana ricca di riferimenti storici, basata su ricordi personali e scritta per un pubblico europeo senza poter avere accesso alle fonti arabe, ma muovendo da premesse e modi di pensare che arabi sono (a cominciare dal calendario dell’egira). Arabi del resto erano stati celebri viaggiatori, geografi e storici del passato quali al-Idrisi, ibn Battuta e ibn Khaldun di cui l’opera di Leone Africano è in qualche modo erede. Andrea Donnini ne offre ora una sontuosa edizione in tre volumi (“Africa” di detto Leone l’Africano, Roma nel Rinascimento, pp. 2508, € 140), frutto di un’improba e meritoria fatica filologica e dotata di un’ampia annotazione, in cui figurano rispettivamente alcuni saggi introduttivi, il testo basato su un importante manoscritto romano (con ogni probabilità quello più vicino all’originale) e la princeps ramusiana del 1550. In una stagione in cui alla vecchia Europa si spalancavano gli immensi spazi del mondo intero, da un oceano all’altro, l’opera offriva nuove e minute conoscenze sull’altra sponda del Mediterraneo, il Mare nostrum dell’Impero romano che l’espansione islamica aveva trasformato in una frontiera politica e religiosa, al di là della quale l’opera di Leone Africano sostanziava di luoghi e di fatti le terre ignote o malnote che sulle carte geografiche erano talora indicate come “hic sunt leones”. Su quelle pagine si costruì e durò a lungo l’immagine europea dell’Africa.
Seguendo “li nostri doctori et cosmographi” Leone divideva l’Africa in quattro parti: la costa maghrebina (Barbaria), l’interno con i paesi de li dattoli (Numidia), il Sahara (Libia) e a Sud la “Terra negresca”. In questi mondi lontani, talora visitati personalmente, egli si addentrava città dopo città, regno dopo regno, deserto dopo deserto, fiume dopo fiume, combinando variamente geografia, storia, economia, etnografia, zoologia per descrivere usi e costumi, animali, cibi, abitazioni, modi di vita (“li arabi fora delli deserti sonno come li pesci fora de l’acqua”. Paesi a suo dire opulenti, come Timbuctù, al centro di una fitta rete di commerci e abitata da homini ricchissimi, il cui bellicoso re, inimico mortale de li iudei, possedeva un tesoro in pietre preciose et in verghe de oro ed era venerato come un dio: “Si alcuna persona li vole parlare, bisogna che se ingenochia et piglie del terreno et lo sparga su capo et sulle spalle”. O il suo vicino re di Gago, città dove viveva grandissimo populo et ricco, in gran felicità et civiltà ad comparazione de le altre terre, e si vendevano migliaia di schiavi: “Vale una giovane de 15 anni circa 6 ducati”. Ma nell’africa nera le terre diventavano via via più aspre e miserabili, abitate da uomini vili et pigrissimi, et hanno li nasi troppo grossi, similmente le labbra”, e vivono in triste capanne; altri “hanno certe facce larghacie et sono homini quasi bestiali”.
Il suo sprezzante giudizio di maghrebino colto, del resto, si nutriva di luoghi comuni e pregiudizi nell’elencare tutti i “vitii et cose nephande che hanno li affricani”, senza risparmiare i suoi compatrioti berberi, soprattutto i rozzi pecorai della montagna: i numidi sono “homini privati de la cognizione delle cose, (…) tradituri et ho micidiali ladri senza conscientia alcuna”; i libici “bestiali, idioti et ignoranti in ogni scientia, et sono ladri et assaxini, et vivono come le bestie selvatiche (…) senza fede et senza regula”; gli abitanti della Terra negresca “bestialissimi et fori di ogni rascione et quasi più che irrationali, senza ingenio et senza pratica, (…) senza lege et senza regule; et sonno infra loro molte meretrice et homini cornuti”, salvo poi elogiarli in un’altra pagina come “homini de integrità et di buona fede, et fanno molte careze alli forestieri, senza malitia alcuna”. Molte furono le vite vissute da Leone Africano tra islam e cristianesimo, tra Oriente e Occidente, tra i deserti del Sahara e la corte papale di Roma, tra avventure e contraddizioni che non sembrano scalfire la compattezza didascalica della “Descrittione dell’Africa”. Un’Africa che gli europei cominciavano allora ad addentare, come i portoghesi in Mozambico, in Angola e anche in Marocco. Sul che al-Wazzan preferiva tacere, forse perché –come ha scritto un’illustre studiosa americana in un libro a lui dedicato- “il silenzio gli consentiva di tenere l’Africa e le sue distese per sé, confermandone l’appartenenza alle popolazioni musulmane e africane anziché ai cristiani d’Europa”.
Massimo Firpo
L’articolo di Firpo è pubblicato nella “Repubblica” del 20 ottobre 2023, a pag. 43.