La guerra arabo-israeliana del 1967. Parte seconda.

Israele contro tutti: La guerra del 1967 (2°)

I sei giorni che cambiarono il mondo. Un conflitto fulmineo. L’umiliazione dei paesi arabi, la potenza dello Stato ebraico, la fuga dei palestinesi. Racconto di una settimana di 50 anni fa…

 

Bernardo Valli ha curato per “Repubblica” di venerdì 2 giugno 2017, alle pp. 21-28, un dossier sulla guerra che nel giugno del 1967 scoppiò tra Israele e i paesi arabi suoi vicini. Qui ne pubblico una seconda parte.

 

Il secondo giorno di guerra.

Il 6 giugno i soldati israeliani avanzano sempre più nel Sinai e anche nella Striscia di Gaza. Il generale egiziano Amer ordina la ritirata dal Sinai verso il Canale di Suez, abbandonando tutte le armi pesanti. Migliaia di soldati vengono catturati. Intanto la Giordania intensifica la pressione su Israele, soprattutto dalla parte di Gerusalemme Est, così come da Betlemme ed Hebron. La Siria lancia uno sterile attacco di terra, facilmente neutralizzato. Si riunisce d’urgenza il Consiglio di Sicurezza dell’Onu: gli Usa chiedono un immediato cessate il fuoco con il ritorno ai confini pre-guerra ma i sovietici non accettano.

Tsahal concentrò la sua offensiva sull’Egitto, privato ormai, come gli altri paesi arabi, di una protezione aerea. I palestinesi, principali vittime del dramma, si difesero con coraggio a Gaza. Ma non a lungo. Noi cronisti scrivevamo dal Cairo le nostre corrispondenze, le affidavamo al telex dell’ufficio stampa, e finivano nella spazzatura, dopo essere state lette dai censori. Il passaggio sul lungo Nilo di camion isolati, con pochi soldati e i teloni slacciati e sbatacchiati dal vento, furono le prime immagini della disfatta nel Sinai.

Il terzo giorno.

Gerusalemme Est fu conquistata il 7 giugno. La controllava Hussein di Giordania, membro di una famiglia reale, quella hashemita, costretta ad abbandonare il califfato di due luoghi santi, La Mecca e Medina, e compensata con un regno ritagliato nel dissolto impero ottomano. Accusato di complottare con gli ebrei, Abdallah, nonno di Hussein, era stato assassinato da un palestinese. Mentre i paracadutisti israeliani stavano per superare le mura della vecchia Gerusalemme il giovane re cercò di farla dichiarare zona franca dall’Onu. Ma quella mattina Motta Gur, comandante dei paracadutisti, annunciò per radio: “Il Monte del Tempio è nelle nostre mani”. Alla notizia della conquista del luogo più sacro per l’ebraismo molti soldati non riuscirono a trattenere le lacrime. Fu un momento di intensa emozione per gli israeliani. Era come riappropriarsi di un pezzo di Storia. Quando veniva chiesto a Ben Gurion come mai lui, un agnostico, un laico, considerasse la Bibbia un testo essenziale, il fondatore dello Stato ebraico diceva che in quel libro c’è la storia dsel suo popolo. Il Monte del Tempio è un pezzo di quella storia.

All’occupazione della Gerusalemme orientale ricca di luoghi santi, Levi Eshkol reagì dicendo: “Abbiamo ricevuto una buona dote, ma è accompagnata da una sposa che non ci piace”. Si riferiva alla passione religiosa e alle polemiche che sarebbero sorte attorno alla città tre volte santa. Per gli ebrei, i cristiani e i musulmani. La battuta di Eshkol si è rivelata una giusta previsione. Neppure lui immaginava quanto fosse appropriata. Durante il mandato britannico e nei primi vent’anni dell’esistenza di Israele, il sionismo socialista aveva avuto un ruolo decisivo nella formazione della società e dello Stato. Per una parte della Sinistra europea, Israele con i suoi kibbutz e i governi laburisti era un punto di riferimento. I religiosi si erano uniti con fatica, riluttanti, al nazionalismo laico. Avevano ambizioni limitate: anzitutto far rispettare le regole religiose, in particolare quelle riguardanti l’alimentazione. Si accontentavano, secondo lo scrittore Amos Oz, di gestire il vagone ristorante. In effetti il laico Ben Gurion aveva dovuto fare concessioni ai religiosi superstiti dei campi di sterminio nazisti.

Ma la guerra dei Sei Giorni ha mutato il loro ruolo. Hanno rilanciato il sionismo in una versione impregnata di principi e riferimenti biblici, e hanno chiesto e intensificato (assecondati spesso anche da governi laburisti) l’insediamento di colonie nei territori occupati al fine di ricreare col tempo, secondo la loro visione, il Grande Israele. Favoriti dalla crescita dei sentimenti ultraortodossi e dall’intensificarsi delle pratiche religiose nella popolazione, in particolare in quella sefardita, i dirigenti della Destra rimasti a lungo nell’angolo hanno fortemente influenzato la società e di riflesso conosciuto un rapido successo politico. Al punto da scalzare la Sinistra sionista dal governo. Israele è cambiato con la guerra del 1967 e con quella del Kippur, di sei anni dopo. Oggi i nazional-religiosi non rappresentano numericamente molto, sarebbero il 10%. Ma sarebbero almeno il 40% tra gli ufficiali subalterni, e in parte anche tra quelli superiori. Ufficiali provenienti spesso dalle famiglie delle colonie di Cisgiordania (o Giudea e Samaria). Sono ottimi e fedeli soldati del miglior esercito della regione, e non solo, ma secondo i vecchi militari si richiamano a principi diversi da quelli che ispiravano gli ufficiali di un tempo, usciti dai kibbutz, in cui prevaleva uno spirito laico. Dayan e Rabin ne erano un esempio.

Il quarto giorno.

La conquista del Sinai è ormai solo una questione di ore: l’8 giugno le truppe israeliane, assistite dai caccia e guidate da validi generali come il futuro premier Ariel Sharon, vanno sempre più a fondo. Muoiono migliaia di soldati egiziani, molti altri vengono fatti prigionieri, gli israeliani arrivano al canale di Suez. Il Cairo si arrende e firma un armistizio. Ma la netta vittoria nel Sinai viene macchiata da un grave incidente: l’aviazione israeliana per sbaglio colpisce la nave statunitense Uss Liberty, al largo di Al Arish, nei pressi di Gaza: 34 americani morti e 172 feriti.

Per il teologo Yeshayahu Leibowitz questa guerra “è stata una catastrofe storica per lo Stato di Israele”.

                                                                     Bernardo Valli