Quando mi leggerete, spero di essere morto. Con dignità, con serietà, con serenità, senza soffrire molto, mi auguro. La vita non aveva più nulla da darmi. Diciamo tutta la verità: la mia vita era già finita con la morte di Luisa, mia moglie. Quella notte di un anno fa era stato spezzato il filo che ci legava, il filo che solo era capace di annodare i nostri ricordi, il nodo di amore che si era alimentato per sessanta anni. Per tanto tempo Luisa e io siamo vissuti insieme, in uno scambio di sguardi, sorrisi, gesti, parole, silenzi e anche scontri. Perciò dalla sua morte ero stato condannato a una solitudine sgomenta, alla mancanza di senso, alla fine di quello che mi univa a tutto il resto del mondo, padrone solo del mio dolore. L’anno trascorso accanto a Luisa malata di cancro mi ha dato i momenti più belli, più vivi, più intensi e profondi della mia vita. In tutto questo anno ho sempre avuto Luisa davanti a me: la sua voce, la sua parola, le sue mani, i suoi occhi, la sua bocca, la sua intelligenza, la sua figura, il profumo dei suoi capelli, il suo sorriso, la sua visione del mondo, la sua sensibilità, insomma il suo stile e la sua grazia: la sua anima. E’ questo che mi è rimasto dopo la sua morte, un’immagine che mi illumina e mi tormenta. Quando ti rendi conto che la persona amata non tornerà più da te, la cosa più semplice è andare tu da lei.
Non vi sembri sacrilego se cito un passo dal Vangelo di Giovanni (15, 12-13), quando Gesù nell’ultima Cena dice ai suoi discepoli: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi. Nessuno ha amore più grande che quello di dar la sua vita per la persona che ama”. A me è sembrato coerente, quindi, di donare quel poco che resta della mia vita per ricongiungermi nella tomba con Luisa, mia moglie, la persona che ho tanto amato.
E quando gli apostoli chiedono a Gesù: “Come sapremo che sarai tornato?”, Gesù risponde in modo chiarissimo: “Quando ci sarà amore tra due di voi, io sarò lì”. E’ tutto qui. E voglio citare ancora un altro passo dal Vangelo di Giovanni (21, 18-19), con Gesù che si rivolge a Simon Pietro presso il Mar di Tiberiade: “In verità ti dico che quand’eri più giovane, ti cingevi da te e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio, stenderai le tue mani, e un altro ti cingerà e ti condurrà dove non vorresti”. (Sì, lo so, questa interpretazione del testo evangelico è troppo compiacente con la mia causa, perdonatemi).
Perciò voglio che la mia morte abbia decisamente il volto, i caratteri e le convinzioni della mia vita. Il punto rimane sempre quello del mistero che ognuno di noi rappresenta per sé stesso, prima ancora che per gli altri. Quindi, addio cari amici e care amiche, addio care lettrici e cari lettori. Un saluto caro ai miei familiari, Olga, Maria Vittoria, Antonio, e ai miei più intimi amici ed amiche.
Luisa ed io ci siamo amati, fino alla morte. Voglio ancora ricorrere alle parole dell’apostolo Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi per definire l’amore che ci ha legati: “L’amore è magnanimo, benigno è l’amore, non è invidioso, l’amore non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si arrabbia, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Esso tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’amore non avrà mai fine; le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà; la scienza svanirà. Ma quando verrà la perfezione, sarà abolito ciò che è imperfetto”.
Un ricordo.
Era una mattina dei primi giorni di marzo del 1974. Passeggiavamo, Luisa ed io, lungo una strada innevata di Fiera di Primiero, in Trentino. Giunti all’ingresso del camposanto del paese, leggemmo sul cancello d’ingresso questa scritta: “Venne sera, Gesù disse: “Passiamo il fiume”, e tutti serenamente passarono”. Restammo entrambi molto colpiti da quel messaggio di malinconica pace e ricordo che ne discutemmo a lungo. Io lo interpretai come un segno di amicizia: non vidi in Gesù il figlio di Dio, il Salvatore dell’umanità, il Redentore di noi tutti dal peccato originale ma semplicemente un amico autorevole e tranquillo, dotato di antica esperienza, che ci aiutava in un passaggio difficile, in un momento in cui la solitudine del morire rievoca lo stupore e il pianto della nascita. Erano interessanti le metafore del tramonto, dell’avvicinarsi della notte, del fiume da passare; era armoniosa la tranquilla accettazione da parte di tutti del destino comune. Anche Dante scriveva “del viver ch’è un correre a la morte” (Purgatorio, XXXIII, 54), ci preparava al tempo inesorabile della nostra fine.
E’ difficile sintetizzare in poche parole più di ottanta anni di vita: mi basta dire che ho cercato di essere un cittadino cosciente dei propri doveri e dei propri diritti, e dei diritti e dei doveri di tutti gli altri. Oso dirlo: la mia è stata un’esperienza materiale e spirituale tesa alla conoscenza e all’affermazione intellettuale del bene. Ho cercato di lottare per il bene, per come me lo permettevano le mie forze. E’ in questa mia lotta che si è decisa della mia fede in Dio. Se ho fallito, Dio è morto. Del resto Dio muore ogni volta che muore l’umano. Ma se non ho fallito, e non ho fallito, Dio vive. Per questo spero tanto di rivedere la mia Luisa nella luce della grazia. Quando ero triste, Luisa –negli ultimi giorni della sua vita- mi consolava: “Dopo la mia morte, fin quando tu sarai vivo, io sarò sempre vicina a te”. Voleva forse dirmi che Dio resterà sempre con noi?
La politica.
Nel 1966, era la fine di aprile se mi ricordo bene, ero alla Facoltà di Lettere della Sapienza di Roma quando, in un incidente, venne ucciso da militanti fascisti lo studente Paolo Rossi durante le elezioni universitarie. Furono quelli, e anche molti che seguirono, gli anni del mio lavoro politico, nel primo ingenuo Movimento Studentesco, nel Sindacato, nel PCI, nel collettivo del “Manifesto”, poi ancora nel PCI. Anni di utopie teorizzate, di ricerca e di pratica sociale, di discussioni appassionate nelle sezioni e nelle assemblee, di lavoro assiduo, di sacrifici, di fervidi sogni, ma anche difettosi di pragmatismo, di visione corretta della società italiana, di concretezza e capacità di fare alleanze. Ho potuto così verificare la fondatezza del detto popolare: “Nella vita conta solo quello che hai fatto e vissuto, non quello che hai sognato”.
Nel 1980 fui anche eletto –nelle liste del Pci- nel Consiglio Comunale di Venezia: con il grande storico Marino Berengo facevamo parte della Commissione Scuola e Cultura, di cui ero presidente. Nel novembre 1980 un terremoto di grave entità colpì la Campania e la Basilicata, in particolare l’Irpinia fu devastata. I morti furono poco più di tremila. In quell’occasione tantissimi Comuni italiani si impegnarono nei soccorsi. Anche il Comune e la Provincia di Venezia furono pronti a inviare una spedizione di soccorso e il sindaco Rigo mi scelse per guidare l’intervento nella sua prima fase. Di quelle giornate curai il racconto nei dettagli, cronache che furono pubblicate nell’inserto veneziano del quotidiano “l’Unità”. Se ne può trovare il resoconto per intero in questo mio Sito Internet, Categoria “Politica”, postato il 5 dicembre 2009 e intitolato “Il terremoto del 1980 in Irpinia e in Basilicata”.
Tornando alla Commissione Scuola e Cultura del Consiglio Comunale di Venezia, Berengo ed io avemmo modo di constatare la grande difficoltà della collaborazione amministrativa con il Psi, già allora interprete e protagonista nelle Istituzioni di una pratica politica non condivisibile. Nel Direttivo del partito feci presente questo problema, ma mi trovai in grandissima minoranza; sottolineai che se si accettava la prassi amministrativa degli assessorati come feudi personali, con tutto quello che ne conseguiva, inevitabilmente nella prima occasione che si fosse presentata il Psi sarebbe tornato nel pentapartito con la DC e i partiti laici. Infatti così avvenne nel 1985. Io guardavo la realtà con gli occhi del passato; il Psi magari vedeva arrivare l’Italia moderna con largo anticipo. Di continuo mi arrivavano dalle sezioni comuniste dei diversi quartieri della città (ero Responsabile della Commissione Scuola della Federazione) segnalazioni di denuncia e di protesta su diverse delibere della giunta; io cercavo di parlare con l’assessore ma non c’erano possibilità di modifica. Mi si aprivano due strade: dimettermi dal partito e restare consigliere indipendente, con la possibilità di condurre una sterile battaglia moralistica; oppure dimettermi dal Consiglio comunale e lasciare il mio posto a un altro/a compagno/a. Scelsi, coerentemente, questa seconda strada nell’ottobre del 1983. Nel giugno del 1984 Enrico Berlinguer moriva a Padova. Tutto lentamente si appassì.
La Ricerca.
Nello stesso arco di anni, più o meno, la casa editrice Principato di Milano ideò per le scuole medie superiori e per l’università –sotto la guida di Salvatore Guglielmino- una collana di ricerca storico-letteraria. Io mi ero laureato all’Università La Sapienza di Roma, relatore il prof. Giovanni Macchia, con una tesi di impianto storico su “Il teatro e lo spettacolo a Roma durante i pontificati di Gregorio XIII e Sisto V”. Guglielmino nella sua collana voleva sottolineare un tema particolare: l’indagine comparata sulla elaborazione e il ruolo degli scrittori illuministi lombardi e meridionali del Settecento. Io scrissi “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”; Renato Pasta, “La battaglia politico-culturale degli Illuministi lombardi”. I volumi furono pubblicati nel 1974-’75, con molti altri su temi diversi, e intendevano proporre un nuovo metodo di indagine e di lettura e analisi delle fonti.
Il lavoro.
Sono stato un insegnante. Ho voluto bene a tutti i miei studenti, ho cercato di trasmettere loro un metodo di apprendimento basato sull’esercitare lo spirito critico, sul ragionare sulle complessità, sul valutare l’affidabilità delle informazioni ricevute, sull’analisi delle fonti, sulla necessità e capacità di saper giudicare se stessi, sul pensare i pensieri divergenti. Ho tentato di fare in modo che gli studenti uscissero dall’aula-laboratorio sentendosi più intelligenti di prima di esservi entrati, vale a dire coscienti di problemi di cui non supponevano l’esistenza e di soluzioni –o meglio, di ipotesi- che non avrebbero mai immaginato di poter proporre. Mi sono interrogato più volte, insieme a Luisa mia moglie, nella nostra casa piena di libri e carica di domande dubbiose, sul senso e sulle finalità del nostro operare e sui nostri errori.
Erano gli anni Settanta del secolo scorso. Io ero arrivato a Mestre da Roma nel 1973. Le ore di scuola passavano con noi, docenti e studenti, chiusi, rinserrati in una frontalità rigida, senza possibilità strutturali di organizzare i modi dell’imparare con flessibilità, agilità, anche creatività, per riuscire a combattere la routine, un senso di espropriazione e di non appartenenza. L’incontro-scontro tra le generazioni (un docente maturo e un adolescente inquieto), che si ripete ad ogni inizio di ciclo, è simile a quello che avviene tra due culture diverse: sono avventure, percorsi di passaggio all’interno delle culture reciproche, ed entrambi –studenti e docenti- scopriamo la nostra fragilità ma anche delle bellissime utopie e ci sforziamo di tradurle in realtà. Da qui la consapevolezza (che maturai allora) che erano necessarie modifiche profonde nel curriculum, nello spazio-tempo della scuola (logistica e calendario), nell’organizzazione del lavoro. Per questo nel 1975, sotto l’impulso decisivo e la direzione ferma del prof. Lino Palmeri, si crearono i corsi sperimentali dell’Istituto “Stefanini” a Mestre. La sperimentazione è durata venti anni circa e poi è finita asfissiata, anche se alcune idee innovative della nostra esperienza, ma non le più radicali e significative, furono in quegli stessi anni fatte proprie dai Programmi ministeriali Brocca e generalizzate in tutte le scuole italiane.
La Sperimentazione.
Dei primissimi anni voglio ricordare l’entusiasmo di noi docenti, ma soprattutto la fiducia che più di cinquanta famiglie e di cinquanta giovanissimi studenti dimostrarono, in quel 1975, rifiutando le sicurezze e le tradizioni dei Licei e dei Tecnici e scegliendo la strada –impervia e misteriosa- di una sperimentazione che nasceva con idee chiare di rinnovamento metodologico e di riforma dei contenuti. Negli anni seguenti studentesse e studenti furono migliaia. Di questo parla, con profondità di analisi e di documentazione, il libro di Maddalena Muffatto, “Lo “Sperimentale Stefanini” di Mestre tra gli anni Settanta e Ottanta nella storia della città e della scuola italiana”, editore Cleup, Padova. Questo libro, soprattutto, indagando -nei dettagli- la storia sociale e politica di Mestre-Marghera e Venezia rivela le radici profonde dei mutamenti che intervennero in quegli anni nella città e spiega bene la disponibilità e l’entusiasmo di alcuni genitori e alcuni insegnanti a scegliere e a vivere un modo nuovo di fare scuola.
Negli anni si è sempre criticata la scuola, e queste rampogne sono cresciute a dismisura in questi ultimi tempi. I rimproveri e le denunce sono necessari ma non si deve mai dimenticare che la scuola è uno dei pochissimi “luoghi sociali” rimasti che permettono di riflettere in libertà, in gruppo, e dove ci si può ancora appassionare alla vita; dove si possono costruire proposte culturali organizzate, documentate, potenzialmente pluridisciplinari; dove ottenere una crescita intellettuale di massa senza passare per la selezione; dove si possono cercare le vie della ricerca con pazienza, provare e riprovare e –se si fallisce- correggersi e ricominciare. Si impara dalla sconfitta: il professore impara a migliorare la sua condotta quotidiana e la sua programmazione, lo studente a contrastare la sua pigrizia e a costruirsi una disciplina e un metodo, impara ad imparare. E questo costa fatica per tutti.
Oltre a tante meravigliose esperienze, quello che mi stimolava di più negli anni della Sperimentazione era –soprattutto nella Ricerca storica- il poter offrire stimoli e suggestioni per entrare il più possibile nella psicologia quotidiana (fantastica e –insieme- materialmente elementare) di un’epoca studiata, e coglierne le sfumature, e scoprire della realtà i lati più nascosti, i significati meno limpidamente espressi con le parole. Usare e intrecciare la storia, le letterature, le filosofie, il teatro, il cinema, l’arte e l’iconologia, la musica, le tecniche…
Nel maggio del 1996 come Istituto Stefanini pubblicammo, dopo vari altri libri negli anni precedenti, un volume riassuntivo delle esperienze realizzate intitolato “Vent’anni di Sperimentazione (1975-1995): Verso dove?”, Supernova editore. In quegli stessi giorni, sul “Corriere della Sera” Ernesto Galli della Loggia, in un articolo di fondo, riproponeva l’ideale dell’insegnamento come “processo dall’alto”, fondato sul binomio “autorità-costrizione”. E su “Repubblica” Umberto Galimberti sottolineava invece che non si realizza apprendimento senza un coinvolgimento emotivo, richiamava la necessità del carisma del docente e parlava degli insegnanti quali “poeti della scuola”, citando San Paolo (“si entra nella Verità solo con l’Amore”). Sono concetti ripetuti tante volte anche da Massimo Recalcati. Erano e sono estremizzazioni interessanti, con del vero in entrambe, e tra le quali occorre trovare punti di realistico compromesso e che, nel nostro lavoro sperimentale di quegli anni, abbiamo cercato faticosamente di realizzare. Leggevo i consigli di Spinoza: “Non ridere, non piangere, non detestare, ma capire”.
Nel novembre del 1986, presentando i nostri materiali di lavoro al Convegno di Milano delle scuole sperimentali italiane sul Biennio, scrivevamo: “Nella nostra scuola lo studente deve essere liberamente attivo e nello stesso tempo soggetto a norme, responsabile ma non intimorito, capace di affermarsi nella sua individualità e di essere tenuto alla buona convivenza della comunità. Vogliamo strutturare una vita della scuola in cui l’autorità si regga sul consenso e favorisca la discussione e la critica, stimolando l’eguale rispetto di ognuno per tutti con la progressiva acquisizione di forme di auto-disciplina”.
Certo, allora non si disponeva degli smartphone, dei Social e dell’Intelligenza Artificiale. A ognuno la sua sfida. Scrive bene oggi Marco Mondini: “I lettori di giornali, gli spettatori dei talk-show, gli utenti dei cellulari devono battersi per primi, rifiutando di essere vittime passive di qualsiasi falsità”.
Conclusione.
Comunque, essendo io vecchio, più che al tempo breve del presente mi sento affine al tempo lungo, lunghissimo, della storia, al respiro naturale dell’estate che finisce e dell’autunno che arriva. Noi siamo umani fragili che nascono, crescono, decadono e muoiono, in armonia con l’universo che sperimenta lo stesso ciclo di vita.
Ecco, questo è il mio testamento di addio. Stiamo vivendo tempi rovesciati, confusi e aggressivi. Sognare il mondo di ieri non è più possibile. C’è il pericolo della fine della democrazia come sogno politico partecipato dell’Occidente. L’Europa rischia di diventare soltanto un’espressione geografica: si recitano litanie o si pratica un europeismo strumentale e opportunistico. Sarebbe necessario rafforzare sul serio le istituzioni sovranazionali, realizzare l’integrazione politica, sviluppare l’autonomia tecnologica e militare. Ora i tempi nuovi sono forgiati da potenze imperiali e crudeli. A Gaza si realizza uno sterminio terrificante di persone innocenti, bambini e donne soprattutto, nell’indifferenza di tutti noi. Putin sta sistematicamente distruggendo l’Ucraina. In un cantuccio vivacchia l’apocalisse del cambiamento climatico. Però si può utilmente riflettere su una frase del premier polacco Tusk: “Siamo cinquecento milioni di europei che chiedono aiuto a trecento milioni di americani per difendersi da centoquaranta milioni di russi”. Quindi cerchiamo almeno di operare tutti per un mondo migliore, nel quale prevalga “l’umana, usata, fraterna compagnia” evocata da Leopardi.
Voglio finire questa mia lettera ritornando a Luisa. Un mese prima di morire, fine agosto 2024, mia moglie scrisse una breve poesia e mi pregò di inserirla -accanto alla sua foto- nel Ricordo di Lei che stavo preparando per distribuirlo -dopo la sua morte- a tutti quelli che l’avevano conosciuta e le avevano voluto bene. La trascrivo:
“Sono stata vera / sarò un ricordo / finché un fiore / sarà per me.
Sono stata voce / sarò silenzio / ma la mia eco / vi parlerà.
Sono stata corpo / sarò un’anima / che la Natura / accoglierà.
Sono stata Luisa / sarò un nome / che il tempo presto / cancellerà.
Desideriamo che ci ricordiate così, Luisa e Gennaro, uniti nella vita e nella morte, nostalgica memoria di una bella storia umana d’amore che si è chiusa con la morte di entrambi e di un’apertura fiduciosa verso l’infinito.
Gennaro Cucciniello



