La notte del Getsemani. Il tradimento e le lacrime di Pietro.

La notte del Getsemani

            Le lacrime di Pietro

 

Il destino di un maestro è sempre quello di deludere i suoi allievi? Il destino del legame con un maestro è necessariamente parricida? Avere la pelle del maestro, denigrare la sua parola, svenderlo, rinnegarlo, tradirlo, è il desiderio inconscio di ogni allievo?

Il tradimento di Giuda pone in luce queste domande scabrose. Ma non si è detto che Giuda tradisce perché si sente innanzitutto tradito? Perché Gesù non ha risposto, come egli si aspettava, al suo desiderio politico? Perché non ha voluto piegare la sua parola all’urgenza della rivendicazione politica, della liberazione militare della Palestina dal dominio romano? Il tradimento dell’allievo verso il maestro spesso si giustifica con il sentimento che una promessa –quella che il maestro incarnava- è stata tradita. E Gesù, agli occhi di Giuda, non è innanzitutto colui che ha tradito la promessa?

Nel caso di Giuda l’amore deluso si trasforma in odio, la sua fedeltà in infedeltà. Giuda non è Satana ma è prima di tutto un cattivo erede. I cattivi eredi –come i contadini omicidi della parabola di Gesù- rifiutano di saldare il debito con il loro padrone perché vorrebbero essere privi di debiti, proprietari di una proprietà che non è la loro, assolutamente liberi. Essi non vogliono riconoscere la loro discendenza. Inrterpretano malignamente l’eredità come usurpazione violenta. Nei contadini omicidi Gesù indica i sacerdoti del tempio, i farisei e gli scribi che hanno usurpato la parola di Dio e non hanno riconosciuto suo figlio. Anche in questo caso in primo piano è il tradimento di un patto simbolico. I contadini ribelli –come Giuda l’Iscariota- vorrebbero cancellare ogni forma di debito.

Molto diverso è il tradimento di Pietro. La differenza balza subito agli occhi: Giuda, diversamente da Pietro, tesse un complotto, medita la rivincita aggressiva sul Maestro che lo ha deluso. Pietro, invece, tradisce per paura, per debolezza, per fragilità umanissima. Se per Giuda il tradimento non è vissuto affatto come un gesto di impotenza, ma come l’esito affermativo di un piano, come un gesto di liberazione da una dipendenza divenuta soffocante, per Pietro il suo tradimento lo confronta con la sua stessa mancanza, con la sua più totale e inerme inaffidabilità. Il suo tradimento è assai più sconcertante di quello di Giuda. Perché quello di Giuda coincide con il suo stesso destino, è una sorta di tradimento necessario, è un tradimento voluto, deciso, assunto, mentre quello di Pietro entra in dissonanza con il suo essere, è innanzitutto tradimento di se stesso.

Il trauma del tradimento non è per Gesù quello del transfert negativo di Giuda, ma quello dell’amato Pietro, del suo discepolo più fedele. Il vero tradimento non è quello del “politico” Giuda ma dell’allievo che Gesù ha nominato suo erede. Il vero tradimento è sempre il tradimento –come accade a Pietro- del proprio desiderio.

Terminata l’ultima cena Gesù e i suoi escono verso il monte degli Ulivi. Giuda si era nel frattempo già inabissato. La prima parola che il Maestro rivolge ai discepoli che hanno deciso di rimanere con lui è sconcertante: voi tutti inciamperete su di me, sul mio corpo, “voi tutti sarete scandalizzati per causa mia in questa notte” (Mt, 26, 31). Nell’ora più difficile per Gesù i suoi discepoli si allontaneranno tutti da lui lasciandolo solo. Inciamperanno sul corpo abbandonato, rinnegato, svenduto del loro maestro. Ma di fronte alla profezia di Gesù, Pietro è colui che reagisce con maggior impeto ribadendo il suo amore fedele e inscalfibile. Non io, non certo io, non sarò io colui che vivrà la tua presenza come motivo di scandalo. Eppure il suo tradimento è previsto con certezza da Gesù che rincara la dose rivolgendosi direttamente all’apostolo. La tua fedeltà è una fedeltà di paglia: “In verità io ti dico: questa notte, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte” ( Mt, 26, 34).

Il tradimento di Pietro è il più doloroso perché Pietro è stato scelto da Gesù come suo erede in terra, come la pietra sulla quale poter appoggiare la nuova comunità che si riunisce sotto il suo nome. Gesù annuncia a Pietro e a tutti i suoi il tradimento imminente: sarete indifferenti alla mia solitudine estrema, vi dimostrerete scandalizzati da me, mi rinnegherete, inciamperete sul mio corpo.

Il gesto di Pietro, forse più ancora di quello di Giuda, ci interroga ancora oggi. Pietro è sincero quando afferma il suo amore ed è sincero anche quando assicura la sua fedeltà a Gesù. Non c’è traccia di menzogna nelle sue parole, di rivendicazione, di critica, di ostilità; non c’è alcun transfert negativo. Il suo amore non è un amore deluso come quello di Giuda. E’ un amore solido, forte, pieno, determinato. Pietro, diversamente da Giuda, afferma la fedeltà granitica e la forza grande del suo amore. Quanta forza troviamo in Pietro? “Se tutti inciamperanno su di te, se per tutti il legame con te diverrà motivo di scandalo, io non ti tradirò mai, non mi allontanerò mai da te”, sembra dire. “Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai. (…) Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò”, dichiara con decisione Pietro (Mt, 26, 32-35).

La sua dichiarazione d’amore è senza tentennamenti. Dovremmo ricordare il tratto solido della fede di Pietro. E’ grazie a essa che egli, Simone, diviene Pietro agli occhi stessi di Gesù. “Ma voi, chi dite che io sia?” chiede una volta ai suoi, e di fronte al silenzio attonito dei discepoli, solo Pietro sa rispondergli, senza tentennamenti: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt, 16, 15-16). La forza di Pietro è la forza della nuda fede che eccede ogni calcolo, ogni programma, ogni strategia. La fede di Pietro è la fede che troviamo presente in ogni autentica dichiarazione d’amore. Gesù sceglie Pietro tra i dodici proprio perché Pietro è l’uomo della fede: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa” (Mt, 16, 18). Pietro riceve le chiavi del Regno grazie alla sua fede, grazie al suo amore senza interesse. La fiducia che Gesù ripone in lui è assoluta.

Dobbiamo, dunque, mettere in rapporto queste due scene: la scena del riconoscimento, della parola piena che sancisce l’Uno come discepolo dell’Altro e l’Altro come Maestro dell’Uno –Pietro riconosce in Gesù il figlio di Dio e Gesù riconosce in Pietro la pietra della sua Chiesa-, con la scena dove Gesù annuncia l’imminente triplice tradimento di Pietro. Se Pietro è l’uomo della fede, se è l’uomo il cui desiderio assume la forma radicale della nuda fede nella parola del Maestro e nella sua promessa, se il suo amore è forte e puro, è proprio questa fede che Gesù scopre come vulnerabile e incerta. Prima che il gallo canti, per tre volte, Pietro tradirà, rinnegherà il suo Maestro. Lo scandalo è sotto gli occhi di tutti i dodici: Pietro –nella notte del Getsemani- somiglia tremendamente a Giuda. Questo è sconcertante. Gesù ha appena subìto il tradimento di Giuda, è appena stato venduto ai sacerdoti e subito deve subire un’altra offesa, la più dolorosa, quella di essere tradito dal suo allievo più fidato e più premuroso.

La distanza abissale che separa Pietro da Giuda sembra scomparire nel buio fitto, le due figure sembrano sovrapporsi. Pietro tradisce non una volta, ma più volte, ben tre volte, in poche ore. La sua fede che sembrava fatta di granito si disfa, si sfalda, cede ai primi colpi, si decompone. Come può accadere? Egli, diversamente da Giuda non complotta, non trama alle spalle, non critica, non misconosce ma onora sinceramente la parola del Maestro. Gesù attraverso il tradimento di Pietro sta destituendo ogni idealizzazione eroica della fedeltà. Vuole mostrare che anche l’amore più solido –essendo umano- può cadere, scivolare, tradire la propria causa. Pietro non riflette forse l’ambivalenza drammatica che percorre ogni legame d’amore? Egli dice la verità quando afferma senza esitazioni il suo amore, eppure non è in grado di sostenere la prova di questo amore. Il suo tradimento rivela una contraddizione che appartiene all’umano: non sempre siamo all’altezza del nostro amore, non sempre siamo coerenti con il nostro desiderio. E’ possibile non essere all’altezza, non riuscire a sostenere le prove che l’amore esige? Il gesto umanissimo di Pietro ci insegna che la fragilità e la contraddizione appartengono anche all’amore più puro, al desiderio più deciso, che, sempre, la vita umana è esposta al rischio dello smarrimento e dello sbandamento.

Nondimeno, è proprio su questo decisivo crinale che si evidenzia la profonda differenza che separa i due tradimenti e che, anche nel buio della notte, ci permette di non confondere le loro sagome. Mentre Giuda, di fronte all’orrore del proprio gesto, sceglie la via senza ritorno del suicidio, Pietro piange. E dobbiamo immaginarle, dobbiamo provare a immaginarle davvero le lacrime di Pietro.

Altra contraddizione umanissima: quella tra la forza e la debolezza, tra l’animo deciso, determinato, impetuoso del discepolo nominato successore e la sua fragilità, la sua insicurezza, la sua divisione. Ma sono allora proprio le lacrime di Pietro a risignificare diversamente il suo tradimento, a farci leggere quel tradimento in una luce nuova. Dopo il terzo falso giuramento con il quale Pietro cerca di non farsi identificare come discepolo di Gesù da persone che lo avevano riconosciuto come tale, al canto del gallo, egli, resosi conto della verità della profezia di Gesù e del tradimento ripetuto per ben tre volte, pianse amaramente (Mt, 26, 75). Sono, dunque, le lacrime e non la parola falsa, la menzogna, il rinnegamento di Gesù, l’ultimo gesto di Pietro. Queste lacrime sono profondamente differenti dal gesto suicidario di Giuda. Queste lacrime mantengono aperta una possibilità che invece l’atto del suicidio rende impossibile perché in quel caso la morte subentra alla vita e chiude ogni discorso. Il pianto mostra invece l’umanità vulnerabile di Pietro, la sua mancanza e la sua divisione e consente di riaprire il contatto con l’Altro.

Le lacrime di Pietro insegnano qualcosa di essenziale sull’amore umano. E’ sempre possibile cadere nel baratro del tradimento, non essere coerenti con la propria parola, contraddirsi, sbagliare, fallire, tradire il proprio desiderio. Ma saper cogliere la propria incoerenza, la propria contraddizione, il proprio errore, il proprio fallimento, il proprio tradimento non impedisce l’amore, ma lo fonda, lo rende possibile, lo istituisce. Il pianto di Pietro non mostra la fine di un amore, ma la sua ripartenza dopo la caduta. L’amore ideale non esiste, l’amore senza mancanza e senza contraddizione non appartiene alla vita umana. L’insegnamento più alto delle lacrime di Pietro consiste nell’accogliere e non rigettare la propria mancanza, nel non rinnegarla come invece ha rinnegato il suo Maestro. Nel fare della propria mancanza il fondamento nuovo del suo amore.

 

Massimo Recalcati

 

Il testo è tratto dal saggio, “La notte del Getsemani”, Einaudi, pp. 47-53