La vicenda di Monsieur Landru

      La vicenda di Monsieur Landru

 

Al momento in loco non ne vedo, ma mi raccontano che fino a tempi recenti, sui muri del palazzo dove fu arrestato, c’erano graffiti inneggianti a Landru. La sua carriera criminale si concluse la mattina del 12 aprile 1919. Tre anni dopo, il 25 febbraio 1922, esattamente un secolo fa, il più celebre femminicida seriale dopo Jack lo Squartatore finiva sulla ghigliottina. Da allora la sua figura si è incastonata nell’immaginario spettrale della Modernità attraverso libri, canzoni, pièce teatrali, fumetti, film. Fra questi basti ricordare l’impareggiabile Monsieur Verdoux di Charlie Chaplin –da un’idea di Orson Welles- che nel 1948 costò al regista la scomunica puritana di Hollywood. O il Landru firmato nel 1963 da Claude Chabrol, perfido vivisettore della borghesia francese, con sceneggiatura di Francoise Sagan.

Seppur tenebrosamente, il personaggio continua a intrigare. Perché, a differenza del fumoso Jack the Ripper, fantasma vittoriano di cui ancora ignoriamo la vera identità, Henri Landru fu incarnazione pulsante di un’epoca, dei suoi entusiasmi e dei suoi conniventi deliri. Pioniere dell’omicidio banalizzato, ridotto a ragioneria, burocratica routine piccolo-borghese.

Ma torniamo a quella mattina di primavera del 1919. Parigi: civico 76 di rue de Rochechouart. Un anonimo edificio di cinque piani. Sul pianerottolo del primo c’è un poliziotto con gli occhi mezzi cuciti dal sonno. Si chiama Jules Belin. Ha dormito lì. La legge vieta di irrompere in privati appartamenti durante la notte. L’ispettore controlla l’orologio. Aspetta che si facciano le nove. Poi, con qualche collega di rinforzo acquattato per le scale, bussa alla porta, mentendo: “Sono qui per l’annuncio”. Si riferisce a un’inserzione nella quale il locatario, tale Monsieur Guillet, si diceva alla ricerca di un’automobile. Ad aprire è un ometto in pigiama, calvo, barbuto, magrolino. Fa per richiudere, ma gli sbirri lo travolgono. “Aiuto!” grida il tizio, presentandosi come Lucien Guillet, ingegnere. Belin gli concede cinque minuti per vestirsi e seguirlo. Nel frattempo da una porta sbuca una ragazza bionda, seminuda. “Tranquilla, non è niente, un equivoco, chiariremo tutto”, prova a calmarla l’omino. Ma nel panico la giovane sviene. Presto, i sali! Più che da thriller sembra una  scena da vaudeville. Mentre i poliziotti rianimano la signorina, l’ispettore Belin si rivolge a Guillet a bruciapelo: “In campana: è roba pesante. Omicidio. Anzi, omicidi”. Vuole sondare le reazioni dell’inquilino, che però rimane impassibile. Tempo mezz’ora, lui e la compagna si ritrovano sotto torchio alla centrale della Brigata Mobile, la moderna unità di polizia che, nel 1907, l’allora ministro dell’interno Georges Clemenceau, detto “La tigre”, ha voluto provvista d’ogni innovazione tecnologica: automobili, telefoni, telegrafi.

Strane sparizioni.

Nel corso degli interrogatori il barbuto continua a spacciarsi per Lucien Guillet. Ma intanto nel suo appartamento gli agenti hanno scovato documenti, una patente di guida e il contratto d’affitto di un garage, intestati a Henri Désiré Landru. Nel casellario c’è su di lui un fascicolo che parla di ripetute condanne e detenzioni per truffa. Landru è costretto a rinunciare all’identità posticcia, però respinge le accuse che lo collegano alle sparizioni di due donne, segnalate pochi anni prima.

Retrocediamo al 1917: le rispettive famiglie denunciano la scomparsa di Anna Collomb e Célestine Buisson. Entrambe si sono volatilizzate mentre, senza sapere l’una dell’altra, intrattenevano affettuosi rapporti con il medesimo individuo, tale Monsieur Fréymet. Il tizio era solito invitarle in una villetta appartata alle porte del villaggio di Gambais, 80 km da Parigi. In paese però non s’è trovata traccia di alcun Fréymet. La casa era affittata a un certo Dupont. Un tipo gentile, ma schivo, fin troppo riservato –hanno raccontato i vicini: teneva gli scuri sempre accostati e il cancello chiuso con una catena; riceveva donne ogni volta diverse e doveva soffrire parecchio il freddo perché il comignolo sputava fumo anche d’estate. A quel punto le indagini si sono spente. Infuria la Grande Guerra e la Francia ha altro a cui pensare.

Con un coup de théatre, la vicenda si riaprirà a conflitto concluso, mentre alla Conferenza di Versailles vincitori e vinti negoziano una pace cagionevole sui calcinacci d’Europa. La svolta avviene per caso il 6 aprile 1919: lungo rue de Rivoli, una donna di nome Laure Bonhoure vede uscire da un negozio di porcellane un tipo barbuto che anni addietro le era stato presentato da un’amica misteriosamente scomparsa, Célestine Buisson, come una specie di fidanzato. Ora l’uomo passeggia beato sottobraccio a una ragazza bionda. Laure si lancia all’inseguimento, ma lo perde in mezzo alla folla dello shopping. Comunque la polizia viene allertata. Dal negoziante si scoprirà che le barbu ha appena comprato un servizio da tavola chiedendo di farselo consegnare a domicilio: rue de Rochechouart n. 76, primo piano. L’ispettore Belin, piedipiatti ambizioso, non sa ancora di essere piombato sull’affaire del secolo, ma fiuta qualcosa di grosso. E prepara la trappola.

Gioielli e dentiere.

Cinema e romanzi ci hanno spesso raccontato i serial killer come animali da tana che, compiuto il misfatto, corrono a ficcarsi in un rifugio sinistro, zeppo di macabri feticci. Ma Landru rientra solo in parte in questo canone. Non è un soggetto stanziale. E’ affetto da fregolismo nomadico. Negli anni del massimo impegno omicida, 1914-1919, cambia continuamente di indirizzo e assume 96 identità diverse (Fréymet, Dupont, Guillet…). Uccidendo per lucro, è però costretto ad ammassare da qualche parte i proventi delle sue gesta delittuose. Nel garage che ha preso in affitto a Clichy i poliziotti scopriranno l’impressionante bottino di quelle spoliazioni. Alle vittime Monsieur Henri ha sottratto di tutto: gioielli, mobili, indumenti, parrucche, addirittura dentiere. Meno feticci che roba, merce: “E’ il mio magazzino. Faccio anche il rigattiere”, proverà a giustificarsi lui col solito candore disarmante. L’inventario delle refurtive è oggi esposto a Parigi nel Museo della polizia.

Ma il vero segreto di Landru si nasconde nelle sue tasche. Quando lo pizzicano, gli trovano nella giacca un taccuino e un’agenda. Redatti con scrittura cifrata, sono i registri contabili della sua intera parabola criminale. Costi e ricavi, spese di rappresentanza ed entrate: tutto è minuziosamente registrato. Dai quadrni saltano fuori i nomi di 283 donne. Di alcune non si saprà più nulla, altre invece sono ancora vive e andranno a deporre. Alla fine, sulla base di indizi e testimonianze, ma senza che sia stato rinvenuto un solo cadavere ch’è uno, saranno accollati a Landru appena undici omicidi: dieci signore più il figlio di una di loro, un ragazzo di 17 anni –vittima collaterale, forse aveva visto cose che non avrebbe dovuto.

Niente di morboso: il modus operandi del barbuto è pianificato come quello di un imprenditore che individua i suoi target previo studio di mercato. Le prede vengono selezionate frugando sui giornali, tra gli annunci dei cuori solitari, oppure nelle agenzie matrimoniali. Meglio se vedove senza prole. Basta che abbiano un bel gruzzoletto da parte. In tempi di guerra, con gli uomini al fronte, Henri non faticherà a trovarne. E’ un imboscato, un disertore sfuggito all’arruolamento. Bombetta, redingote, bastone da passeggio, si propone come single malinconico o vedovo inconsolabile. Irretisce le vittime isolandole dal loro entourage –famiglia, amicizie-, ne prosciuga gli averi e poi le elimina. Come? Con esattezza non s’è mai capito. Probabilmente le narcotizza o le strangola nel sonno. Lavorando di sega, accetta, coltellaccio, smembra i cadaveri, brucia i resti in cucina e i più ingombranti li dissemina chissà dove per le campagne. In stagni remoti o, si favoleggia, persino negli champs d’honneur, i campi di battaglia, quei carnai dove appena smuovi una zolla ne scappa su un femore, un teschio. “Mostratemi i cadaveri! Fino ad allora non avrete nulla contro di me”, ripete l’accusato. Dalla stufa della villetta affiorano strani residui di ossa, dal giardino quelli di tre cani. Sono le uniche uccisioni di cui le barbu si riconoscerà responsabile: “Ho soppresso le bestiole su richiesta della padrona: non ne poteva più”.

Un bimbo adorato.

Ma chi era, da dove spuntava Monsieur Landru? Le sue origini squinternano ogni determinismo di sociologia criminale. Un padre autista, una madre sartina. Brava gente ligia, sgobbona. Enrichetto è un bambino accudito e, come segnala il secondo nome Désiré, anche molto atteso. Ma, appresi i raggiri del figlio, e non ancora le sue atrocità, i genitori moriranno nella disperazione, lei di crepacuore, lui suicida. Nel vicinato parigino nessuno avrebbe potuto immaginare che Henri sarebbe diventato Landru. Un chierichetto così pio, in odore di seminario. Poi, durante la naja, un serpentino tanto a posto. Dopo il militare prende moglie. Fanno quattro figli. In casa lo credono un genio incompreso. Perché nell’euforia del progresso, papà –che è diplomato all’istituto tecnico- ha brevettato una visionaria bicicletta a petrolio che, giura, farà il botto. Invece col trucchetto della neo-bici e molti altri ancora, Landru crea società fittizie, adesca investitori, ne incamera le quote, poi smantella tutto e svanisce. Però finiscono sempre per beccarlo. E così, intorno al 1914, snervato da tanti fallimenti, Henri decide che è tempo di cambiare strategia, di cominciare a rapinare uccidendo. Dopotutto, riflette, nelle trincee si crepa in quantità industriali, e morto più morto meno… Diverrà un businessman indaffaratissimo, dalla tripla vita (omicidi, famiglia, un’amante), e spesso più affari contemporaneamente tra le mani. Ci vorrebbe una segretaria, ma non è il caso. Perciò le agende.

La credulità con cui le vittime cadono nella sua rete è cosa che può sorprendere. Ma Landru ha modi galanti e maneggia con maestria il linguaggio dei sentimenti: le sue lettere sono orge di sdolcinatezza. Non solo. In anni di rude virilità guerriera, Henri è un anti-macho tenero e sensibile. Rassicura, sa ascoltare, immedesimarsi nelle altrui solitudini, nelle tristezze muliebri. Un gentiluomo come non se ne fanno più”, gli fa scudo Fernande Segret, la giovane maitresse arrestata con lui, che pare ne fosse davvero innamorato.

Processo-show.

Il processo si apre a Versailles il 7 novembre 1921. Sarà uno show. Da Parigi il pubblico arriva sul treno gremito che parte ogni mattina dalla Gare Montparnasse e verrà ribattezzato Train Landru. Alle udienze assistono principesse, ambasciatori, vedettes dello spettacolo. In veste di cronista, la scrittrice proto femminista Colette scruta il mostro, annotando: “Nel suo occhio infossato cerco un’umana crudeltà, ma invano, perché non è umano. E’ l’occhio luccicante dell’uccello quando fissa davanti a sé. Ma appena le palpebre si abbassano a metà, lo sguardo acquista quel languore, quello sdegno insondabile della belva in gabbia”.

Alla sbarra l’accusato si difende con arguzie e facezie. Molte apocrife. Tipo quella, dal retrogusto di bruciato: “Il posto della donna non è forse il focolare?”. Quando non sa cosa rispondere, Henri si barrica dietro un “Sono affari miei”. Diritto alla privacy anche per gli assassini, insomma. E’ una sorta di clown malefico che –un po’ come oggi i gangster di certo rap- entrerà nell’epica popolare. “Landru/Landru/Landru/ cattivaccio sei tu/ Fai paura ai ragazzini/ E seduci le mammine”, cantava Charles Trenet. In una vignetta vediamo un secondino dire al detenuto: “Ah, Monsieur, vi avessi conosciuto prima, vi avrei presentato mia moglie!”.

Sui giornali ci si appiglia al Barbablù di Gambais per denunciare l’inettitudine della polizia o per randellare le incipienti rivendicazioni femminili: vedete che cosa succede a lascier libere le donne? Eppure in carcere Landru riceve migliaia di lettere, proposte di matrimonio inviate da sedicenti ammiratrici: quelle che lo ritengono un romantico innocente o quelle stregate dal suo appeal luciferino. In gergo tecnico si chiama ibristofilia: attrazione per i soggetti pericolosi.

Momento clou del dibattimento sarà però l’arringa dell’avvocato difensore. L’istante in cui maitre Vincent de Moro-Giafferri squarcia l’uditorio indicandola col dito: “Quella porta! E se ora da quella porta vedeste entrare in aula le donne che mancano all’appello?”. Enorme brusio. Tutti si girano. Ma non appare nessuno. Landru è l’unico a non aver voltato la testa. Non la conserverà sul collo ancora per molto. Quando all’alba del 25 febbraio 1922 lo svegliano per l’appuntamento col boia, Henri rifiuta il prete, il bicchierino di rum e la sigaretta. “Fa male alla salute” avrebbe detto.

A Gambais, con i suoi seimila metri quadrati di parco, la tremenda villetta è adesso in vendita a 450mila euro. Prezzo ragionevole. Ma un secolo dopo nessun acquirente si fa avanti.

 

                                                                  Marco Cicala

 

Questo articolo è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 25 febbraio 2022, alle pp. 14-19.