L’anima del cristianesimo vive nel corpo e nei sensi

L’anima del cristianesimo vive nel corpo e nei sensi

Parla il teologo spagnolo Pablo d’Ors, ospite a “Torino Spiritualità”

 

Nel corso del festival Torino Spiritualità lo scrittore e teologo spagnolo Pablo d’Ors interverrà sull’episodio evangelico del “Noli me tangere”, in cui Gesù risorto intima a Maria Maddalena di non toccarlo. Lo abbiamo intervistato.

Nei Vangeli il corpo materiale di Gesù gioca un ruolo decisivo, ad esempio nell’episodio dell’emorroissa, quando sente di essere stato toccato e che il potere è scaturito da lui. Ancora oggi, il rito centrale della fede cristiana si celebra attorno alla memoria del corpo e del sangue del Salvatore, della materialità della sua esistenza. L’attuale tendenza alla virtualizzazione della realtà, che implica la “smaterializzazione” delle relazioni, non costituisce un rischio essenziale per il cristianesimo?

Il cristianesimo ha una dimensione fisica e corporea inalienabile, come testimoniano sia la cosiddetta resurrezione della carne sia, soprattutto, l’Eucaristia, come anche lei osserva. Ci sono scienziati autorevoli che hanno affermato che la materia in definitiva non esiste e che tutto è semplicemente energia informata. Tuttavia, anche se la materialità dell’intero universo sta in un chicco di riso, come è stato detto, è certo che non si può fare a meno di questo supporto informativo, chiamiamolo così, anche se minimo. Una spiritualità che finisca per fare a meno del corporeo, a mio avviso, degenererebbe in spiritualismo e certamente cesserebbe di essere cristiana. La contemplazione, invece, non può essere raggiunta senza la percezione o, in altre parole, il senso soprannaturale non è altro che la pienezza dei sensi naturali.

Uno dei temi più caratteristici del cristianesimo è legato all’idea dei “sensi spirituali”, cioè che l’esperienza autentica del contatto con Dio arriva a coinvolgere tutte le nostre facoltà di percezione, così come nella vita quotidiana tramite i sensi sperimentiamo e comunichiamo con l’altro: l’estasi dei grandi mistici non implica la cancellazione dell’esperienza sensibile, ma la trasferisce su un piano diverso. Si può recuperare questa tradizione e, se sì, come declinarla oggi? La pratica della meditazione è il luogo dove rintracciare questo percorso?

Sono molto interessato al tema dei “sensi spirituali”, proprio perché sono convinto che la percezione sia la porta d’accesso alla contemplazione. Potrei dirlo in modo più provocatorio: la spiritualità non è altro che la consapevolezza della vita naturale. Non si tratta solo di recuperare questa sensorialità, propria della vera sacramentalità cristiana; il punto decisivo è che, senza di essa, il cristianesimo è perduto. A mio avviso, buona parte dell’allontanamento dalla fede da parte delle nuove generazioni è dovuto a questa perdita di corporeità. Secondo me, una Chiesa che non medita, cioè che non medita in silenzio, ha poco futuro. Meditare significa portare la mente al cuore, e solo da cuore si può intravedere il mistero di ciò che chiamiamo Dio.

Torino Spiritualità ha scelto come tema “Pelle. La superficie profonda”. Nella “Genesi”, dopo il peccato, Dio avverte l’uomo e la donna delle “tuniche di pelle”, affinché possano coprire la loro nudità e affrontare la vita nel mondo. Generalmente, l’esegesi considera le tuniche di pelle una metafora del corpo, ma la pelle ha una sua specificità, è il primo elemento con cui l’essere umano si presenta all’altro. Nel bene e nel male: basta pensare a quanto il “colore” della pelle abbia significato nelle relazioni tra gli esseri umani. Si dà, a suo avviso, un’antropologia della pelle?

Non saprei dire che cosa possa significare un’antropologia della pelle, personalmente ho perso da tempo l’interesse per le questioni strettamente filosofiche. Ma so che il razzismo esiste ancora e che dobbiamo lavorare con tutte le nostre forze per sradicarlo. Non lo sradicheremo mai con la sola buona volontà. Né lo sradicheremo mai con le buone intenzioni o con una migliore comprensione razionale. La scoperta che siamo tutti uguali è una scoperta di natura spirituale, il che significa che solo attraverso la coltivazione dello spirito, accurata e sistematica, potremmo arrivare a una civiltà in cui il razzismo appartenga al passato.

Uno dei suoi libri di maggior successo è una “Biografia della luce”, dove mostra che abbiamo bisogno di qualcosa che illuminandoci ci permetta di ritrovare la direzione di un cammino e il senso del nostro io. Invece il corpo, la pelle, è opacità, contrasto, ma si definisce e si vede solo in controllo, grazie alla luce, ma in opposizione, per così dire, ad essa. Lei ha attraversato il deserto e praticato il silenzio: eppure la nostra salvezza passa necessariamente –oltre che dal corpo- anche dal caos e dalla condivisione della vita comune, dal rumore delle grandi città… Come tenere insieme questi aspetti così contraddittori?

Solo il contraddittorio è reale, diceva la mia venerata Simone Weil. La dottrina cattolica, d’altra parte, ama tremendamente le contraddizioni. Sostiene, ad esempio, che Dio è uno e trino. Allo stesso modo sostiene che Cristo è vero dio e vero uomo. E sostiene –questi esempi sono più che sufficienti- che Maria è vergine e madre. Forse è che gli opposti non devono essere visti in termini di disgiunzione (aut aut, o/o), ma in termini di complementarità (et et, e/e). La luce, invece, non è altro che un’ombra illuminata. Intendo dire che tendiamo ad avere un’idea molto semplicistica dell’illuminazione, quando l’esperienza dimostra (e questo è sostenuto anche dal Credo cattolico) che l’ascesa al paradiso è preceduta da una discesa all’inferno.

Lei è sacerdote cattolico. I più giovani, i “nativi digitali” sembrano vivere in una condizione in cui reale e virtuale si sovrappongono e si corrispondono: una tale situazione può essere un “luogo teologico”per l’annuncio del Vangelo?

E’ una domanda difficile, perché per rispondere in modo esauriente dovremmo discutere della realtà del virtuale e del carattere illusorio di ciò che chiamiamo reale. Ciò che sta accadendo oggi nel mondo digitale ci costringerà, ci sta già costringendo, a ripensare tutto, a considerare tutto in modo diverso, compreso il cristianesimo, il che è affascinante. Da parte mia, ad esempio, sostengo che oggi Cristo non deve essere il punto di partenza dell’evangelizzazione, ma piuttosto il punto di arrivo. In ogni caso, più che di luoghi teologici, dovremmo parlare di spazi teofanici. La teologia, in fondo, ha un ruolo secondario. Ciò che è essenziale è l’esperienza personale. Tutto ciò che non passa attraverso una validazione vitale viene solitamente ridotto a ideologia. Ed è molto triste che la verità sia ridotta a dottrina.

Il Concilio di Trento ha disegnato il volto del cattolicesimo proprio attorno alla coppia di “dottrina e disciplina”, cioè la fissazione dei contenuti dottrinali del cristianesimo nel catechismo e delle norme morali in precetti e comportamenti obbligati. Questo schema non funziona più nella nostra epoca, in cui libertà e desiderio sono diventati il paradigma attorno a cui si struttura la vita. Non le chiedo certo una soluzione alternativa, bensì quale –secondo lei- potrebbe essere una via perché la Chiesa cattolica accetti la sfida di quello che papa Francesco definisce non un tempo di cambiamento, bensì piuttosto un cambiamento di tempo.

Questa è una domanda molto profonda, la ringrazio. Per me ci sono tre posizioni possibili: 1) credere in Dio. 2) non credere in Dio. 3) lasciare la questione dell’esistenza di Dio come secondaria e iniziare a praticare, a coltivare lo spirito. Con questo intendo dire che la fede non deve essere un punto di partenza, ma un punto di arrivo. Il punto di partenza è il desiderio di qualcosa di più, la ricerca spirituale, non l’adesione dottrinale. Questa è la situazione opposta a quella che si è creata negli ultimi decenni. In passato, c’erano molti che si dichiaravano credenti, ma non praticanti. Prevedo che in futuro (sta già accadendo) ci saranno molti che si definiranno non credenti praticanti. Il percorso dottrinale e morale è quello esplorata dalla catechesi. La mistagogia (nell’antica Grecia, l’iniziazione ai riti misterici), invece, che appartiene anch’essa alla Tradizione, esplora la via simbolica e rituale, che è, ovviamente, quella che io stesso propongo.  

 

                                               Marco Rizzi           Pablo d’Ors

 

Ne “La Lettura” del 25 settembre 2022, supplemento culturale del Corriere della Sera, è pubblicata questa intervista, alle pp. 12-13.