Le vere parole di don Lorenzo Milani (1923-1967)

Le vere parole di Don Lorenzo Milani (1923-1967)

Perché il potere ha ancora paura del prete senza chiese.

 

Cinquantadue anni fa, nell’estate del 1967, moriva Don Lorenzo Milani, grande educatore, maestro e prete scomodo. La sua attualità divide ancora il mondo di oggi. Pubblico due articoli: il primo, di Silvia Ronchey, apparso nella “Repubblica” di venerdì 21 aprile 2017, a p. 42; il secondo, di Eraldo Affinati, edito nel “Venerdì di Repubblica” del 14 aprile 2017, alle pp. 108-111.

Gennaro Cucciniello

 

 

Vissuto per metà sotto il fascismo, per metà nell’Italia divisa tra democristiani e comunisti, Lorenzo Milani è il rampollo di un’alta borghesia ebraica di antico lignaggio, radicate posizioni liberali, sofisticate tradizioni culturali –bisnonno senatore, Freud e Joyce, Svevo e Pasquali tra le conoscenze di famiglia, l’intelligencija russa nel Dna- che si fa traditore sia del proprio ceto, sia degli schieramenti autoritari della propria Chiesa, nonché, in seguito, di quelli dei partiti, che i suoi gesti provocatoriamente radicali negli anni Cinquanta del Novecento faranno più di una volta infuriare. E’ un ebreo non praticante che fa “indigestione di Cristo”, come scrive al suo mentore e direttore spirituale Raffaele Bensi. Ma la sua conversione non è certo dall’ebraismo al cristianesimo, bensì da un battesimo di convenienza, ricevuto per sfuggire alle leggi razziali, a un abito scomodo, indossato per vocazione di riscatto: quello di cercatore di verità.

Cosa ha fatto Lorenzo Milani? Si è fatto maestro, non metaforicamente ma alla lettera, nel modo più umile e concreto, prima a San Donato, poi a Barbiana. Nel suo insegnamento si è liberato del catechismo, alla lettera ma anche in metafora, per attuare un progetto di “redenzione immanente” dell’ingiustizia sociale, ma anche per rovesciare l’impianto ideologico della scuola confessionale. Dove per confessione si intende quella cattolica, ma anche l’altrettanto autoritaria catechizzazione prodotta dalle ideologie secolari. Finendo così per “smascherare l’inganno costitutivo del potere e restituire la sovranità a una manciata di subalterni inafferrabili alla scolastica marxista allora imperante”, come scrive Alberto Melloni nell’ardente introduzione all’edizione critica dell’opera omnia in uscita nei Meridiani Mondadori.

Calamitato dalla letteratura, dalla poesia, dalla pittura fin da adolescente, artista bohémien dalla non celata omosessualità nella Firenze di fine anni Trenta, è quasi dandistico il suo primo incontro con il messale romano: “Ho letto la Messa. Ma sai che è più interessante dei “Sei personaggi in cerca d’autore”, scrive diciottenne all’amico Oreste del Buono. Nel 1943 entra in seminario. Quando, dopo più di un decennio di attrito con le gerarchie, il suo primo libro, “Esperienze pastorali”, gliene guadagna definitivamente l’opposizione senza garantirgli alcuna effettiva protezione della sinistra comunista, Milani non fa che rafforzarsi nel convincimento, forse inevitabile per un intellettuale italiano, che l’unica possibile resistenza sia l’inappartenenza. Ed ecco che quando l’autorità ecclesiastica lo esilia in “quell’angolo estremo senza acqua, senza corrente elettrica, posta o strada” che è Barbiana, Milani “farà dell’esilio un trono”.

Nella sua lotta al conformismo, nel voto di riscatto che sia il ruolo di intellettuale sia l’abito sacerdotale ritiene gli impongano, avrà cari non solo “i mezzi poveri del proprio mestiere con la gelosia con cui il nobile decaduto tiene ai propri titoli”, ma cercherà di aprire un varco ai figli del proletariato contadino che tenta di educare proprio in quel modo alto borghese contro cui il feroce sistema di esclusione ha lottato, arrivando a dispensare loro, ostentatamente, gli stessi privilegi materiali, applicando ai venti allievi di Barbiana “i metodi dell’educazione grande borghese”: l’opera alla Scala, i soggiorni all’estero, addirittura la piscina. La passione per un utopistico “riscatto del tempo penultimo”, in cui l’avanguardia contadina che ha riacquistato la parola diventa élite, domina ogni suo gesto, sempre politico, mai settario, sempre etico, mai arbitrario. Ogni intellettuale è un prete mancato. Il problema è che molti intellettuali mancati si fanno preti –di qualunque chiesa, confessionale o secolare, per innato dogmatismo, per ansia di assoluzione anticipata e garantita. Don Milani non era né l’uno né l’altro, e per questo la sua profonda laicità è stata tenuta per più di mezzo secolo in ostaggio da più cleri.

Lorenzo Milani muore nell’estate del 1967 e la sua ricerca sarà, scrive Melloni, “rapita dal Sessantotto che farà di lui l’icona di un mondo che gli era estraneo”, postumamente affiliata da un’opposizione politica che ha avuto tra le sue responsabilità, peraltro condivise con demagogici schieramenti di governo del nostro paese, la sistematica decostruzione del suo sistema scolastico. Proprio quello che a Milani stava più a cuore, che auspicava acattolico e aconfessionale, che vedeva come unico vero strumento rivoluzionario –ma certo solo se e quando “dota i tacitati della parola”, non quando li riduce a un nuovo, subculturale silenzio. Nell’anno in cui ricorre il cinquantenario della sua morte, sembra che da più parti si cerchi di infangare la sua memoria. “Sto con la professoressa”, è il titolo di un recente articolo apparso sul “Sole 24 Ore”, con allusione al suo scritto più celebre, “Lettera a una professoressa”. Altrove si è cercato di “pasolinizzare” la sua figura e addirittura, in un recente romanzo di Walter Siti, di suggerirlo, contro ogni evidenza, pedofilo. Ma nessun equivoco è possibile a partire da oggi. Nei due volumi dell’opera omnia si dispiega la scrittura provocatoria e indocile di questa figura di prete divenuta un punto di riferimento per i laici proprio per avere lottato tutta la vita contro gli opportunismi di chi cerca la protezione dei partiti, delle sette e delle chiese.

 

                                                        Silvia Ronchey

 

Nella sua attualità Don Milani ancora oggi divide

 

Don Lorenzo Milani morì il 26 giugno 1967 a Firenze nella casa di via Masaccio 208, a soli quarantaquattro anni, stroncato dal linfoma di Hodgkin. Ad accudirlo furono gli scolari ai quali, scrisse nel testamento, aveva voluto più bene che a Dio, sperando nella Sua benevola comprensione. Quattro mesi dopo venne condannato, in quanto difensore degli obiettori di coscienza, accusati di viltà da un gruppo di cappellani militari toscani, ma il reato fu considerato estinto perché lui era deceduto.

Il testo che aveva scritto ai suoi giudici, prima ancora di quello indirizzato alla famosa professoressa, è uno dei grandi risultati della letteratura italiana del Novecento, non solo e non tanto per ciò che dichiara sull’idea di patria, chiesa, scuola, storia, giustizia e responsabilità, ma per come lo esprime. In quale altra opera di quegli anni potremmo ritrovare un controllo stilistico così potente del sentimento partecipativo realizzato sul campo vivo delle operazioni?

Don Lorenzo ci consegna una scrittura-azione perfino più originale di quella pasoliniana: una goccia del sangue per come ha saputo legare parola e esperienza. Tutti potremmo dire ciò che vogliamo, certo, ma poi dovremmo essere pronti a pagare il prezzo del risarcimento nel caso in cui commettessimo un danno. Il corpo non può e non deve venire preservato: così diventi credibile. Ecco la prova. Un anno e mezzo prima della fine Nadia Neri, giovane professoressa napoletana, gli chiede consigli. Sta per risponderle Carla (14 anni), ma il priore, vincendo il dolore della malattia, con la lingua screpolata, le ossa rotte, la mano tremante, capisce che deve farlo di persona. Si alza dalla brandina, prende la penna in mano e ci regala un altro gioiello: “Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio… Ai partiti di sinistra dagli soltanto il voto, ai poveri scuola subito prima d’essere pronta, prima d’essere matura, prima d’essere laureata, prima d’essere fidanzata o sposata, prima d’essere credente. Ti ritroverai credente senza nemmeno accorgertene. Ora son troppo malconcio per rileggere questa lettera, chissà se ti avrò spiegato bene quello che volevo dirti”.

L’ultima frase è forse ancora più importante delle precedenti. Don Lorenzo infatti fu uno scrittore epistolare, nel solco più puro della nostra tradizione (senza tornare alle epistole del Petrarca, basti pensare a Foscolo, alle Ultime lettere di Jacopo Ortis), con una differenza essenziale: non ricopiava in bella. Scriveva di getto e poi spediva, così come viveva: a fondo perduto, senza curarsi del risultato che avrebbe potuto conseguire, ma avendo fede nell’azione che stava realizzando. Allora noi oggi, dopo la scomparsa di quello che ho definito l’uomo del futuro (anche pensando ad una battuta da lui rivolta al cardinale Florit che lo aveva sempre ostacolato: “Io sono più avanti di lei di cinquant’anni”), dovremmo chiederci perché don Milani continua a dividere: c’è chi lo ama e chi lo rigetta. Tra gli attacchi più famosi ricordiamo almeno il celebre articolo di Sebastiano Vassalli (Don Milani, che mascalzone, uscito 25 anni fa su Repubblica). Nelle settimane scorse, sulle pagine del supplemento domenicale del Sole 24 ore, Lorenzo Tomasin ( Io sto con la professoressa, 26 febbraio) e Paola Mastrocola (Uscire dal donmilanismo, 26 marzo), pur con accenti diversi, gli hanno attribuito la responsabilità del presunto sfacelo della scuola italiana, come se lui fosse davvero il padre spirituale dell’egualitarismo indifferenziato di marca sessantottina e non invece il fustigatore incompreso di ogni possibile negligenza e pressapochismo educativi, fino al punto di aver redarguito un insegnante troppo permissivo, che non aveva saputo tenere a freno i suoi studenti, scrivendogli: “La scuola deve essere monarchica assolutista ed è democratica solo nel fine” (…)

Il priore di certo non si riconoscerebbe nella riduzione di qualsiasi obiettivo didattico. Mandava gli studenti all’estero affinché imparassero le lingue (anche l’arabo in Algeria). Voleva ottenere il massimo in termini di preparazione culturale (grammatica compresa), ma soprattutto puntava a far brillare gli occhi degli scolari.

Questo gli costò caro perché non tutti, anche ai suoi tempi, lo apprezzarono. Molti gli si rivoltarono contro, compresi certi ragazzi. E lui si prese le bastonate. Educare significa ferirsi. Andare là dove sai che ti fa male. Così ci possiamo spiegare anche un’altra delle sue celebri battute, forse la più amara: “Le maestre sono come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere. Il mondo è una famiglia immensa. C’è tante altre creature da servire. E’ bello vedere di là dell’uscio della propria casa. Bisogna soltanto essere sicuri di non aver cacciato nessuno con le nostre mani”.

Va bene, ma oggi dove starebbe don Lorenzo Milani? Non ci ha lasciato metodi, piuttosto energia allo stato puro. Una sapienza del fare scuola. Ecco perché io, anche sulla scorta di una foto che lo ritrae a Barbiana con un bambino congolese in braccio, sono andato a cercarlo in giro per il mondo: nei villaggi africani, in certe bettole indiane, alla periferia di Pechino. Ne ho colto il riverbero negli occhi di un disertore russo. Ho rivisto in Africa i nuovi ragazzi di Barbiana. A Berlino gli adolescenti ribelli. A Città del Messico gli alunni svogliati. Nel mondo arabo i bambini perduti. Sono stato a Ellis Island a parlare coi fantasmi degli immigrati italiani (…) Ho avuto qualche problema a ritrovare don Milani nella chiesa di oggi, ma tutte le volte che restavo deluso dai parroci romani mi consolavo osservando la fotografia sopra di loro: quella di papa Francesco, il primo fra gli alti prelati vaticani a indicare don Lorenzo quale punto di riferimento essenziale per credenti e non credenti, nell’ottica e nello spirito di un cristianesimo militante concepito alla Dietrich Bonhoeffer: non una medicina spirituale per guarire dalle nostre malattie interiori, ma un incrocio di sguardi di cui prendersi cura.

                                                        Eraldo  Affinati