L’epidemia di “febbre spagnola” (1918-1920): radiografia di un killer.

Febbre “spagnola”: radiografia di un killer.

Era solo un’influenza, ma un secolo fa decimò la popolazione del pianeta. Due esperti ci spiegano come avvenne.

 

L’articolo è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 5 gennaio 2018, alle pp. 58-61. Per una bibliografia minima suggerisco: Frank Snowden (docente di storia della medicina all’Università di Yale), “Epidemics and Society. From the Black Death to the Present”, Epidemie e società dalla Peste Nera al presente, Yale University Press, pp. 600, euro 38; Jared Diamond, “Guns, Germs, and Steel. The Fates of Human Societies”, London, 1997; Armi, acciaio e malattie”. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi, 1998. Un saggio recentissimo è stato pubblicato da Laterza e include nel racconto i cambiamenti climatici, le eruzioni vulcaniche, i cicli solari, i virus devastanti, nel solco tracciato in Francia da Emmanuel Le Roy Ladurie con il suo classico “Storia del clima”, Einaudi: è stato scritto da Francesca Canale Cama, Amedeo Feniello, Luigi Mascilli Migliorini e si intitola “Storia del mondo”, pp. 1291, € 38. Un altro libro importante è quello di Kyle Harper, “Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero”, Einaudi, pp. 508, € 34. Un’ultima aggiunta, forse la più importante: nel 2012 David Quammen ha pubblicato “Animal infections and the next Human Pandemic”; nel 2014 comparve, per Adelphi, la traduzione italiana di Luigi Civalleri, “Infezioni animali e la prossima pandemia umana”: nel libro vengono spiegate le tappe di diffusione del contagio, le modalità con cui si è sviluppata in Africa l’Ebola, ora con le medesime modalità riprodotto in Cina, infine diffuso anche in Italia e ormai nel mondo intero.

Non dimentichiamocelo mai: i microbi hanno diversi vantaggi. Il loro numero è sterminato e si riproducono un miliardo di volte più rapidamente di noi, quindi possono mutare moltissimo. E poi, come il riscaldamento globale, non hanno bisogno di passaporto per fare il giro del mondo. Sono globali per definizione. E dal punto di vista dell’evoluzione sono geneticamente favoriti per la vittoria finale. Le nostre uniche armi sono l’intelligenza, la prudenza e la solidarietà.

                                                                  Gennaro Cucciniello                                                                                                                                                                            

 

Cento anni, e cento milioni di morti. L’anniversario della spagnola, la più grave epidemia della storia dell’umanità, è di quelli che non sono tanto da celebrare ma da prendere come monito, del tipo “cerchiamo di evitare che succeda di nuovo”. Perché si trattò di un’influenza, la stessa malattia virale che arriva ogni inverno e che tendiamo a etichettare con l’aggettivo “banale”. E perché cento anni fa era ancora in corso una guerra, e che guerra, ma l’influenza spagnola, che banale non era per niente, riuscì a fare più morti della guerra e a farli su tutto il pianeta, nessuna nazione esclusa.

L’epidemia (o meglio: la pandemia, perché appunto coinvolse tutto il mondo) iniziò nella primavera del 1918, e ai primi di autunno ebbe il suo momento di massima ferocia. Molto probabilmente ebbe origine negli Usa e si spostò con le truppe americane. “Se la chiamiamospagnola”, spiega Mauro Capocci, storico della medicina della Sapienza Università di Roma, “è perché durante la guerra la Spagna era neutrale, quindi non aveva la censura militare e le notizie circolavano liberamente, compresa quella della malattia di re Alfonso XIII. Perciò si ebbe l’errata impressione che la Spagna fosse il paese più colpito”. Oggi questa convinzione la inseriremmo tra le “fake news”. Il bilancio complessivo della pandemia, invece, più che “fake” è oscuro: “Le statistiche dell’epoca non sono affidabili, per via della censura ma anche perché da certe zone del pianeta non arrivavano informazioni”. In più, prosegue Capocci, “laddove i decessi venivano registrati capitava che si usassero diciture diverse. Per esempio, se un soldato influenzato moriva al fronte magari si scriveva “morto in guerra” e noi non lo contiamo”. Però ci sono le stime, che periodicamente gli storici rivedono al rialzo. Oggi si ritiene che ci siano stati intorno ai cento milioni di morti su mezzo miliardo di persone che si ammalarono, per una popolazione mondiale di poco inferiore ai due miliardi.

Tra le vittime ci furono il poeta Guillaume Apollinaire, i pittori Egon Schiele e Gustav Klimt, il sociologo Max Weber: morirono anche due dei tre pastorelli veggenti di Fatima e morì Frederick Trump, nonno del più famoso Donald. Edward Munch invece guarì e ritrasse se stesso ammalato in due tele che rendono bene l’idea dei sintomi, soprattutto il colorito livido della pelle, segno di scarsa ossigenazione del sangue per la gravissima compromissione polmonare. Victor Vaughan, colonnello medico del campo militare di Fort Devens, in Massachusetts, descrisse così l’andamento della malattia: “Centinaia di vigorosi giovani con l’uniforme americana indosso entravano a gruppi di dieci o più nei reparti dell’ospedale, dove venivano ammassati sulle brandine. Presto diventavano cianotici, e tossendo espettoravano muco venato di sangue. La mattina i cadaveri venivano ammonticchiati nell’obitorio”. Scene simili si vedevano da Lagos a Tokyo, da Buenos Aires a Oslo, da Vancouver alla Nuova Zelanda.

Una caratteristica della malattia era particolarmente allarmante: risultava aggressiva soprattutto nei giovani. Per spiegare il perché ci vuole una piccola lezione di virologia in tre passaggi. Primo: “Di un virus sono importanti la contagiosità, cioè la capacità di diffondersi, e la letalità, cioè quanto è pericoloso”, spiega Pierluigi Lopalco, professore di Igiene e Medicina preventiva all’Università di Pisa. La contagiosità dipende dalle proteine sulla superficie del virus, perché sono quelle che si attaccano alle vie respiratorie. “Mentre la letalità dipende da quanto il virus è capace di scendere nei polmoni, scatenando polmoniti emorragiche, oppure di renderli vulnerabili a batteri a loro volta causa di polmonite”. Ci possono essere influenze molto contagiose ma poco letali (le più frequenti) e influenze pochissimo contagiose ma ad alta letalità: è il caso dell’influenza aviaria.

Secondo passaggio: “Oggi sappiamo che quello della spagnola era un virus influenzale di tipo H1N1. Questa sigla indica un gruppo di virus in cui le proteine di superficie caratteristiche dell’influenza, H e N appunto, sono entrambe di tipo 1”. I virus influenzali si classificano sulla base del tipo di H e del tipo di N (ricordate il virus H5N1 dell’influenza aviaria di qualche anno fa?). I virus di tipo H1N1 non sono tutti uguali tra loro, perché sono fatti di varie proteine oltre a H e N, ma quelle sono le responsabili della contagiosità. Ne segue il terzo passaggio: “Nel 1918 la popolazione anziana probabilmente aveva conosciuto epidemie precedenti da altri virus di tipo H1N1 meno letali, ed era protetta da anticorpi contro queste due proteine, mentre i giovani no”. Quanto alla capacità di scendere nei polmoni, come il dottor Vaughan aveva capito molto bene, questo virus era micidiale. “Insomma –conclude Lopalco- il virus della spagnola combinava il peggio di contagiosità e letalità. Da allora di altrettanto pericolosi non se ne sono più visti”.

La spagnola, però, fu tanto letale anche per via della guerra e della fame che avevano fiaccato la popolazione, per la mancanza di antibiotici, e per il fatto che non si conosceva la causa della malattia. Questo fece sì che le contromisure fossero fantasiose. Lo ha raccontato la storica Eugenia Tognotti in un libro di due anni fa (“La spagnola in Italia”, Franco Angeli editore): ci fu chi tornò a fare salassi, chi inventò intrugli da sciogliere nel caffè, chi vendeva collane d’aglio, chi proponeva zuppe di cipolla e tanto cognac, mentre illustri medici concionavano sull’uso del chinino (che funziona, ma contro la malaria) o dell’olio di ricino (che è un potente lassativo, quindi fa pure peggio). Nelle città vennero presi provvedimenti di igiene pubblica, tra i quali la chiusura dei luoghi affollati, che colpì anche messe e feste patronali. Benito Mussolini sul Popolo d’Italia se la prese con la “sudicia abitudine della stretta di mano”. Comunque, il nostro Paese fu duramente colpito: le stime variano tra 375 e 650mila morti, su circa 38 milioni di abitanti. Questo anche perché, dice Capocci, “non vi fu collaborazione tra la sanità militare e quella civile: si dette la precedenza alla prima, e i cittadini si trovarono senza assistenza”.

A pandemia passata, a guerra passata, e dopo quasi un secolo, gli scienziati sono riusciti a guardare in faccia il virus della spagnola grazie alla ricostruzione del materiale genetico trovato congelato nei polmoni di una signora Inuit, che morì per l’influenza e fu sepolta nel permafrost in Alaska. E’ per questo che sappiamo che si trattò di un virus di tipo H1N1 ad alta letalità. E ora, la domanda inevitabile: può arrivare una nuova epidemia influenzale come la spagnola? “Quel virus fu davvero terribile: oggi però non solo siamo più sani e abbiamo farmaci efficaci, ma in pochi mesi possiamo sviluppare vaccini per fermare la diffusione dell’epidemia”, rassicura Lopalco. “In più abbiamo capito quanto sia importante la collaborazione tra le autorità sanitarie e lo scambio di informazioni”. Insomma, abbiamo capito che, anche nel caso dell’influenza, la guerra dobbiamo farla noi uomini, insieme, uniti contro un virus che di banale non ha proprio niente.

 

Silvia  Bencivelli