Lettera di Dante a Cangrande della Scala

Caro Cangrande, tuo Dante. L’enigma.

La XIII epistola dell’Alighieri è indirizzata al suo protettore e mecenate, signore di Verona.

 

Ne “La Lettura” del 10 marzo 2024 è pubblicato questo articolo, alle pp. 22-23, di Paolo Di Stefano, che ne discute l’autenticità.

 

Se volete divertirvi con una questione irrisolta che non smette di far discutere e anzi di far litigare gli studiosi di Dante, eccovi serviti: provate a concentrarvi sull’Epistola a Cangrande e ne uscirete soddisfatti. Una possibilità ve la offre l’uscita per Antenore dell’edizione commentata a cura di Luca Azzetta (si tratta dell’aggiornamento dell’edizione apparsa in un volume Nuova Edizione Commentata delle Opere di Dante, ovvero la Necod, diretta da Enrico Malato).

Tredicesima tra le lettere dantesche pervenuteci, tutte in latino, l’Epistola a Cangrande presenta una struttura composita. Nella prima parte (detta nuncupatio), molto breve, il poeta si rivolge al signore di Verona, Cangrande della Scala, per esprimergli la sua devota amicizia, l’auspicio che venga ricambiata e l’impegno a conservarla offrendogli in dono la dedica del Paradiso. Da notare che Cangrande fu vicario generale dell’imperatore Arrigo VII dal 1311, governò Verona dal 1312 al 1329 e fu il protettore di Dante forse dal 1316, quando il poeta, allontanato da Pisa, riparò a Verona, sede di diversi ordini religiosi con importanti Studia e di un’ottima biblioteca Capitolare con preziosi codici antichi. Già molti anni prima, fra il 1303 e il 1304, il poeta aveva potuto approfittare della protezione scaligera. I forse sono d’obbligo quasi sempre, parlando della vita di Dante.

E’ noto che Cangrande viene esaltato nel Paradiso attraverso le parole di Cacciaguida, il quale annuncia a Dante che beneficerà del suo sostegno (profezia ex post, di ciò che in realtà è già passato). Non tutti sono concordi sulla durata del secondo soggiorno veronese, che si estende almeno fino alla fine del 1318, prima del trasferimento a Ravenna. La seconda parte della lettera, molto più lunga, contiene una introduzione (o accessus) del poema, scritta in terza persona, e un’analisi del primo canto del Paradiso, con un focus sui dodici versi iniziali (citati in latino). In chiusura viene comunicata una angustia economica che impedisce di continuare il commento. Nell’Epistola c’è molta carne al fuoco, a cominciare dalla definizione del titolo del poema: “Il titolo del libro è “Incomincia la Commedia di Dante Alighieri, fiorentino di nascita, non di costumi”. Entra in gioco il genere letterario: come nelle commedie antiche, il poema inizia nel dolore e finisce nella gioia, al contrario delle tragedie, che hanno un finale infelice. C’è poi un distinguo stilistico: mentre la tragedia “si esprime con linguaggio altisonante e sublime”, la commedia utilizza “un linguaggio dimesso e umile”. Oltre a ciò, la lettera discute il soggetto del poema e i diversi livelli di lettura possibili, a partire da quello letterale fino alle letture di secondo grado (“allegorica, morale, anagogica”, ovvero trascendentale). Si tratterebbe insomma di un’eccezionale dichiarazione di poetica.

Il documento, già noto al notaio fiorentino Andrea Lancia che lo cita nelle sue chiose alla Commedia del 1341-43, ci è pervenuto in nove manoscritti: i tre più antichi risalgono al XV secolo e contengono solo la prima parte dell’epistola, ovvero la noncupatio. Gli altri sei codici, cinquecenteschi, comprendono anche la seconda parte. In considerazione di questa circolazione squilibrata e della disomogeneità delle parti, la critica, pur essendo quasi unanime nel ritenere autentica la prima parte (che per alcuni sarebbe comunque la rielaborazione di un frammento originario), diverge invece sulla seconda parte fino ad avanzare ipotesi sull’identità dei falsari: Carlo Ginzburg ha fatto il nome di Boccaccio.

Si potrebbero stilare elenchi di illustri studiosi per l’uno e per l’altro schieramento. Senza far torto a nessuno, citeremo solo Michele Barbi e Luca Serianni per il sì; Bruno Nardi e Marco Santagata per il no. Un no sicuro è emerso anche da un’indagine di stilistica computazionale, a cura di un team di scienziati e filologi, tra cui Mirko Tavoni e Fabrizio Sebastiani (le stesse metodologie algoritmiche che attribuiscono a Domenico Starnone le opere firmate da Elena Ferrante). L’autenticità dell’Epistola fu messa in dubbio la prima volta nel 1819 e in seguito c’è chi parlò di uno “strano accozzo di elementi cuciti esteriormente fra loro”. Per Santagata, i contenuti “hanno uno spiccato carattere compilativo, sono quasi una raccolta di luoghi comuni”.

Si aggiungono aspetti storici e cronologici ma anche incongruenze di carattere formale. Per Alberto Casadei, che nega recisamente la paternità dantesca, la formula “vobis ascribo, vobis offero, vobis denique recommendo” che compare nella lettera implica tradizionalmente e senza eccezioni la dedica e l’invio di un’opera completa. Dunque, se è vero che la terza cantica è stata terminata da Dante nella primavera-estate 1321, poco prima della morte, i conti cronologici non tornano e Casadei giunge a ipotizzare che si tratti di un testo di propaganda scaligera redatto a scopo celebrativo dopo la morte di Cangrande avvenuta nel 1329.

Azzetta colloca la stesura della lettera tra la seconda metà del 1318 e l’estate 1320, quando ancora Cangrande poteva dirsi, come viene definito nella lettera victoriosus, prima della sconfitta contro i padovani. Sulle questioni più dibattute, Azzetta non ha dubbi e nell’Introduzione intende mostrare la coerenza della paternità dantesca. E poi: l’ipotesi della derivazione dei manoscritti sopravvissuti da un archetipo già molto corrotto di una lettera probabilmente mai spedita. E ancora: la coesione strutturale dell’opera e la compatibilità con gli altri testi danteschi. Azzetta consente sul fatto che la lettera non avrebbe potuto accompagnare una copia del Paradiso completo, ma a suo parere la dedica sarebbe avvenuta in corso d’opera: non va escluso, anzi, che all’Epistola Dante volesse allegare unicamente il canto XVII con l’elogio al signore veronese, così da offrire a Cangrande un doppio omaggio (con promessa per il futuro, a cantica conclusa). Interessanti le osservazioni di Azzetta sulle condizioni quasi disperate che avrebbero costretto il poeta a scrivere la lettera e sul progressivo deteriorarsi dei rapporti con il mecenate (ne scrisse anche Petrarca). Da qui la rinuncia e l’interruzione dell’Epistola non appena si prospettò il trasferimento a Ravenna. Ultimo ma non ultimo: per Azzetta la lettera “rivendica la verità dell’esperienza visionaria paradisiaca”, e aiuta a capire perché Dante chiamò sacrato o sacro il suo poema, evocando le visioni divine narrate nelle Sacre Scritture. Tutto molto illuminante, ma il sospetto è che solo in una visione divina l’affaire-Epistola potrà placarsi.

 

      Paolo Di Stefano