L’intellettuale illuminista meridionale: un educatore sociale e/o un funzionario del potere?

     

Lezione tenuta ai docenti del Liceo Scientifico di Adria (Ro) nel novembre del 1977.

 

 

 

            L’INTELLETTUALE MERIDIONALE ILLUMINISTA :

            EDUCATORE SOCIALE e/o FUNZIONARIO DEL POTERE?

 

La problematicità del titolo è dovuta a due fattori: il movimento culturale e politico illuminista del Sud fu vivace, con strumenti concettuali di notevole respiro, moderni anche se non originali, ma non fu omogeneo; la complessità e l’articolazione della stessa figura dell’intellettuale illuminista europeo. Confronto con la Francia e la Lombardia sotto il dominio austriaco.

Analizziamo subito questo secondo aspetto. In Francia gli Illuministi costituiscono già, verso la metà del ‘700, il germe di un partito politico (cioé l’espressione di un’alternativa, di governo e di regime, rispetto all’ordinamento sociale e istituzionale esistente) e i portavoce consapevoli di un’opinione pubblica già vasta e compatta. Il movimento illuminista francese ha fratture e antitesi, con lotte intestine e quasi di “correnti”, è caratterizzato da una molteplicità di temi ma ciò è segno di vitalità: rappresenta un impulso generale e dal basso, uno stadio di sviluppo dei rapporti sociali dinamico e avanzato. Diderot e D’Alembert sono dei “parvenus” sociali, e si fanno largo nella società solo per mezzo delle proprie qualità personali e l’eccezionale acutezza dell’ingegno, e si guadagnano da vivere -spesso- coi proventi della propria attività intellettuale. Pensate agli altri artefici dell’”Enciclopedia”: gente che collabora dalle province, uniti tra loro da una fitta trama epistolare che consente una vivacissima circolazione delle idee. In Francia perciò si afferma non l’intellettuale riformatore, spesso di estrazione aristocratica e profondamente inserito nel meccanismo politico del paese, ma l’intellettuale tout-court, l’intellettuale borghese, portavoce e coscienza riflessa di una società in sviluppo e dei suoi ceti economicamente più attivi e intraprendenti (un esempio: le bellissime pagine di Diderot nell’”Enciclopedia” sul rapporto fra arti intellettuali e arti meccaniche, fra la scienza e la sua applicazione tecnologica, -”la concezione prometeica dell’attività umana”-). In senso lato la filosofia illuminista è proprio la presa di coscienza che la borghesia francese fece di sé medesima: pure nella pluralità dei punti di vista, si possono individuare alcuni punti fermi dell’elaborazione: la ribellione contro l’autorità politico-religiosa, il rifiuto del sovrannaturale, il richiamo alle forme concrete della convivenza umana, alle scienze positive, al mondo della tecnica e del lavoro.

In Lombardia, invece, il gruppo del “Caffé” costituisce il germe di un’élite dirigente, il fulcro d’una ristretta “intellighentzia” destinata ad inserirsi prima o poi nei gangli vitali dell’amministrazione asburgica (Verri, Beccaria, Longo, Frisi). Il quadro sociale è meno dinamico e più ristretto di quello francese e questo spiega, in ultima analisi, la vocazione pratico-riformista del gruppo e la relativa minore importanza del dibattito ideologico. E in quanto all’origine di classe sono quasi tutti nobili, esponenti illuminati di un patriziato che aveva retto per secoli la direzione amministrativa del paese e che ora -superato dagli avvenimenti storici- non si decideva a delegare ad altri -espressione diretta della volontà di Vienna- la gestione del potere. Origine di classe, ristrettezza dell’ambiente sociale, guardinga e talvolta minacciosa tutela da parte delle autorità dello Stato: queste sono le coordinate entro cui si inserisce l’attività del “Caffé” e che ne segnano l’importanza e l’originalità, chiarendone anche i limiti ideologici. Si specifica un rinnovato ed operoso “senso civico”, nel sentimento di appartenenza ad una “res publica”, ad una vera comunità di cittadini: sentimento e intelligenza che sarebbero sfociati nella concreta opera di ristrutturazione del paese. Potremmo chiamarlo una specie di umanesimo civile, da studiare non solo sotto il profilo della storia delle idee ma anche nelle sue interrelazioni con la pratica amministrativa e politica. In sostanza gli Illuministi lombardi costituiscono il nerbo di una embrionale classe dirigente politica, intimamente legata alla realtà sociale del paese, consapevole di rappresentarne gli interessi più profondi e progressivi, incapace perciò di piegarsi ad un ruolo puramente strumentale al servizio dell’assolutismo austriaco. Essi, nella rivista, tracciano un organico piano di riforma che investe tutti gli aspetti fondamentali del vivere civile: dall’assetto giuridico-istituzionale al problema educativo e del costume, a quello dei rapporti di proprietà e dei nuovi criteri di conduzione delle terre. L’analisi dovrebbe fissare perciò due elementi di rilievo: 1) la collaborazione tra intellettuali e potere politico (seguire lo svolgersi d’una latente contraddizione fra i riformatori, che a più riprese rivendicano un ruolo politico esplicito, e la funzione prevalentemente burocratico-organizzativa che la monarchia asburgica intende loro assegnare); 2) l’iniziale assoluta fiducia che gli illuministi hanno nell’azione della monarchia come unica forza capace di opporsi vittoriosamente al particolarismo politico e alla senescenza culturale e civile della società contemporanea, la grande occasione storica di rinnovamento insomma (ricorrendo all’opinione pubblica, laddove fosse stato possibile suscitare una serie abbastanza ampia di consensi, e alla partecipazione diretta e personale alla pratica amministrativa, contro i vecchi istituti, simboli del privilegio e della prepotenza nobiliare. Con la società contro lo Stato (Francia); con la società e con lo Stato, per educare la prima e riformare e rinnovare il secondo (Lombardia).

 

Il movimento illuminista meridionale, pur con alcuni tratti di consonanza con l’esempio lombardo, presenta un quadro culturale e politico più differenziato e composito di personalità metodologie interessi; profondamente unitario per alcune aspirazioni di fondo  (sentimento di riscossa nazionale del Sud; presa di coscienza dell’arretratezza di fronte al sempre più veloce progresso europeo; necessità e urgenza d’una politica di riforme; fiducia nella monarchia; concetto di Stato come cosa pubblica e collettiva; la cultura al servizio della società) ma anche diviso e fratturato perché espressione diretta del faticoso processo di ammodernamento e trasformazione della società meridionale, e quindi dello scontro fra le classi che questo comportava. Occorrerà ritornarci con esempi più precisi ma il processo di rinnovamento che si avviò negli ultimi sessanta anni del ‘700 in Europa in Italia e anche nel Sud –se pure in forme e tempi diversi di svolgimento-, se da un lato sviluppò energie e capacità nuove di controllo e sfruttamento delle risorse naturali e umane (sull’abbrivio dell’espansione dei mercati e della rivoluzione industriale inglese), otteneva questi risultati spingendo i ceti proprietari ad una più efficace redditività dei propri investimenti, per rispondere ai più dinamici rapporti di integrazione nel mercato italiano ed europeo. Ma in un paese ancora fortemente arretrato, in una posizione di ribadita dipendenza dal resto dell’Europa (Londra Madrid Parigi), questi sviluppi incrinavano equilibri immobilistici ma consolidati nei rapporti fra le classi sociali, peggioravano le condizioni di lavoro e di vita delle masse popolari, inasprivano lo scontro di classe. Nell’Illuminismo meridionale c’è consapevolezza di questo, e l’obiettivo della politica di riforme vuole proprio essere la ricomposizione unitaria della società in un quadro di collaborazione fra i ceti sociali, di impegno comune di svecchiamento di ammodernamento di cambiamento; ma si pagherà la sfasatura tra il progetto e le forze reali in campo, e l’indagine su questo tema ci potrà dare anche utili spunti di riflessione sui rapporti e le correlazioni tra la storia delle idee e i processi materiali che accompagnano l’evoluzione da un sistema sociale ad un altro. Ambiguità e duplicità, quindi, del ruolo rivestito. Sono da puntualizzare le ragioni.

La situazione politico-diplomatica del regno di Napoli nella prima metà del ‘700. La centralità dello Stato riformatore.

Le novità diplomatiche. Le dinastie asburgiche e borboniche insediate nei vecchi Stati ex-spagnoli. Sprovincializzazione dei circoli governativi. Introduzione di idee metodi e personale europei. Avviata la formazione di nuovi quadri amministrativi indigeni. Una più duttile ed energica libertà d’azione diplomatica si accompagna alla possibilità di legami e di ingresso in nuovi mercati.

Risentita coscienza “nazionale”: ottenuta finalmente l’indipendenza politica, finalizzata soprattutto a un progetto di sviluppo economico e sociale che avrebbe dovuto reinserire il Mezzogiorno italiano nel circuito europeo, liberandone le energie produttrici ed accelerandone l’uscita dalle servitù feudali, e questo con un’azione graduale e rinnovatrice di governo. Le idee sarebbero state fornite dall’elaborazione degli intellettuali. Questi ultimi avevano una composita origine di classe: abati e professionisti di provenienza piccolo-borghese (ceto avvocatesco, nobiltà decaduta e impoverita, piccoli proprietari), alta nobiltà di antica stirpe baronale; con una evoluzione significativa negli ultimi quaranta anni del secolo.

Tratti francesi: legami fra le diverse regioni del paese, Napoli e l’Università come raccordo, vivace dibattito delle idee.

Le ragioni dell’idillio tra la Corte borbonica e gli illuministi: la Corte li appoggiava per ragioni di riorganizzazione finanziaria e di moderno sviluppo produttivo da incentivare, ma li teneva in subordine e cooptava nei quadri dell’amministrazione solo i più titolati. Erano gli illuministi ad avere un bisogno vitale dell’appoggio monarchico: era l’unica speranza di realizzazione dei propositi di cambiamento e di modernizzazione delle strutture feudali, era la sola garanzia perché si passasse dal campo delle osservazioni delle relazioni e dei pamphlets a quello delle misure concrete. Era soffocante la realtà meridionale: si era coscienti dello strapotere dei baroni, dell’invadenza ecclesiastica, della disomogeneità del ceto borghese, della barbarie legislativa: tanto più suggestiva e rispondente al reale l’idea che solo un rafforzato potere centrale avesse forza e capacità per riequilibrare il sistema, per portare ordine e razionalità, per stimolare al progresso.

Questa centralità dello Stato e della modernizzazione della macchina statale, del resto, è un dato europeo (legato alla dinamica del dispotismo illuminato) e ha una sua spiegazione: il riformismo dei monarchi procede in maniera relativamente indipendente dall’affermarsi della borghesia come forza dominante che sottomette tutta la società alla sua logica di classe. Esso si configura invece come programma di compensazione delle opposte spinte sociali –aristocratiche e borghesi- e si crede che questo bilanciamento cauto e attento possa assicurare la stabilità del potere. E trova la sua conferma strutturale nello stesso sviluppo delle forze sociali: spesso è difficile, per non dire impossibile, tracciare netti confini tra ciò che convenzionalmente si chiama aristocrazia e ciò che si vuole definire borghesia. Nella Lombardia austriaca, ma anche nel Sud (si pensi ai gabelloti siciliani), capita spesso che un imprenditore agricolo (uno disposto a rischiare capitali in attività di bonifica e in altre opere di miglioria fondiaria, perché se ne ripromette un ragionevole profitto) sia nello stesso tempo un percettore di censi, livelli e altri diritti signorili sopravvissuti all’estinzione del feudo giurisdizionale. Costui è un aristocratico o un borghese? E se si scende sul terreno del pensiero politico, come non notare che Montesquieu elabora la sua teoria della divisione dei poteri –rifacendosi all’esperienza costituzionale inglese- allo scopo di restituire alla nobiltà quel ruolo politico diretto che in Francia ha perduto e in Inghilterra mantenuto e consolidato? A Napoli c’è chi come Giuseppe Grippa si oppone alla soppressione dei maggioraschi e dei fedecommessi perché vuol riservare ai baroni un compito di garanti contro il dispotismo regio. O ancora, nella diversa accentuazione data da Genovesi Filangieri e Palmieri: spingere l’aristocrazia a diventare imprenditrice e produttiva. “Vuol essere l’agricoltura impiego di gentiluomini e di scienziati. Hanno più intelligenza e sanno meglio profittare dell’occasione e de’ lumi, che la natura istessa ci somministra per poco che vi ci applichiamo; hanno più lettura e sanno quel che fassi oggi da altre più savie nazioni; possono più facilmente avere da spendere, se han giudizio, e vi prendono dell’affezione; hanno più pazienza da aspettarne il frutto col suo tempo, perché possono farne di meno”.

Del resto una coscienza nazionale non è una novità per l’elaborazione culturale e l’azione politica degli intellettuali meridionali. Basti un riferimento alla rivoluzione del 1647-48, presentata impropriamente come la rivolta di Masaniello e del sottoproletariato napoletano, e che non fu nemmeno solo l’espressione del disagio e del malcontento di alcuni gruppi sociali privi di rappresentanza politica. Fu invece un vasto e diffuso movimento, di portata europea e che toccò anche zone periferiche dello sviluppo, che aveva caratteristiche anti-feudali, voleva superare rapporti e valori ereditati dalla vecchia società e poneva grandi problemi quali lo sviluppo dello Stato e la modifica dei rapporti sociali. Lo scontro nel Sud Italia ebbe una precisa qualità anti-feudale con un serio tentativo di rafforzare le alleanze tra le forze sociali progressive (legare Napoli, dove erano presi di mira gli speculatori della finanza pubblica, i grandi appaltatori delle gabelle, al moto antifeudale delle campagne), e si pose l’obiettivo di rivoluzionare l’ordinamento politico e sociale. Furono messi in discussione il sistema di potere, la gerarchia degli ordini, il rapporto tra azione di governo e sviluppo dell’economia, la funzione stessa della monarchia. Vennero addirittura adottati i moduli tattici della rivolta fiamminga. Ma non c’erano favorevoli alleanze internazionali né la borghesia meridionale possedeva oggettivamente le energie e le capacità per porsi realmente in opposizione alla configurazione politico-sociale di stampo feudale del dominio spagnolo.

Economia e società: convivono rifeudalizzazione e sviluppo. Il panorama che si presenta a metà ‘700 nel meridione d’Italia è impressionante per la drammaticità e la gravità dell’arretratezza di tipo feudale: vecchi feudali rapporti di lavoro, vaste zone abbandonate alla coltura estensiva e al pascolo brado, incredibili privilegi fiscali, territori paludosi e malsani, impedita la libera circolazione delle terre dai diritti feudali e frenato perciò l’investimento di capitali, l’amministrazione corrotta ed inefficiente, mancante un qualsiasi ordinamento scolastico. Ma ciò è insufficiente, anzi fuorviante per una comprensione piena della realtà: non è completa la descrizione della situazione. La moderna ricerca storica (Villari Villani Romano Lepre Capecelatro Carlo) ha individuato altri elementi, più dinamici e contraddittori: il sistema feudale era stato incrinato da un attacco concertato contro la proprietà ecclesiastica e i demani comunali e per la contemporanea riduzione degli usi collettivistici delle terre, cosicché i beni dei nobili e dei borghesi si stavano ingrossando a spese appunto della proprietà fondiaria clericale e dei diritti contadini (R. Villari, “Mezzogiorno e contadini nell’età moderna”, Laterza: catasto onciario di Brienza; P. Villani, “Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione”, Laterza: catsto onciario di Eboli). La chiusura dei terreni privati era un incentivo per i proprietari ad introdurre migliorie colturali e ad aumentare la produzione cerealicola, e questo in un periodo congiunturale di forte rialzo dei prezzi dei prodotti agricoli e quindi con un netto aumento dei profitti (R. Romano, “Prezzi, salari e servizi a Napoli nel ‘700”, Milano). L’incremento demografico e la crisi della piccola proprietà contadina alimentavano il mercato della forza lavoro bracciantile; le stesse novità imprenditoriali in agricoltura (l’affittanza), utilizzando i vantaggi dell’inflazione (pagare lavoratori e redditieri in moneta svalutata) e cercando con tenacia nuovi vantaggiosi sbocchi di mercato, introducevano elementi di dinamismo nel pigro panorama meridionale. Siamo perciò di fronte ad una situazione complessa, dove arretratezza e modernità s’intrecciano,, dove elementi feudali e semifeudali s’uniscono a indubbi fenomeni capitalistici, dove anzi il modo capitalistico di produzione si fonda su supporti feudali, s’alimenta di quel parassitismo e lo riproduce. “La borghesia imita ruoli sociali e modelli di comportamento dell’aristocrazia”.

Il progetto riformatore illuminista: concretezza e utopia. Tradizione di pensiero attenta al reale e che si lega ad una seria milizia culturale e politica. Il movimento riformatore si pose perciò come l’espressione culturale ed economico-politica di questo processo di sviluppo, che si intuiva disuguale e contraddittorio, ma che si tentava di omogeneizzare il più possibile e di regolare. E la dialettica società-potere (tra la società da ammaestrare educare guidare e il potere da governare moderare svecchiare cambiare) fu al centro di questo grande sforzo di contribuire, con un uso civile e politico della cultura, al miglioramento delle strutture e dei rapporti economico-sociali. E naturalmente il movimento riformatore ne espresse non solo la varietà di interessi ma ne subì soprattutto i riflessi della crisi.

Quali furono i temi concreti di questo impegno? La terra, il possesso fondiario e le indispensabili trasformazioni in agricoltura; lo sviluppo delle forze produttive e la modernizzazione dei rapporti sociali di produzione; una più equilibrata e dinamica crescita dell’economia del Regno e la ricerca di nuovi sbocchi commerciali. Rinnovare quindi il regime della proprietà fondiaria allargando il numero dei proprietari, qualificare la manodopera agricola, ammodernare le colture introducendo capitale tecniche concimi per aumentare la produzione, facilitare ed incrementare il commercio con l’estero adeguatamente proteggendo le nascenti manifatture, curare l’attivo della bilancia dei pagamenti facendo ogni sforzo per sottrarre il Mezzogiorno dall’ingrato e sottosviluppato ruolo di produttore di derrate agricole a basso prezzo e importatore di costosi manufatti industriali. Genovesi aveva invitato i suoi scolari a viaggiare per le province del Sud, aveva invitato il governo ad avviare inchieste conoscitive sulla realtà delle diverse situazioni locali per annotarne le carenze e i bisogni e programmare i primi interventi riformatori, ad inventariare le risorse per predisporne un piano di organica utilizzazione. Domenico Grimaldi costruì un accurato piano economico per la Calabria, uno studio misurato lucido, tutto centrato su dati tecnici, fondato sulla valorizzazione delle risorse interne della regione, con un’economia che non era di pura sussistenza ma orientata verso il mercato, anche europeo; esaltando il ruolo del potere centrale nelle sue capacità di sostegno finanziario e ribaltando l’ingiusto ed esoso rapporto tra Napoli e le province. Anche Giuseppe M. Galanti (insostituibile la sua “Descrizione del regno delle due Sicilie”, anche per una nota di anticipatore pragmatismo sociologico) pensava che solo l’integrale utilizzo delle potenzialità produttive delle province sarebbe stato, accanto alla risoluzione della questione agraria, il volano dello sviluppo meridionale; e per le zone interne –desolate già dall’emigrazione temporanea- scriveva di una necessaria politica di difesa del suolo, di bonifiche, di uso dell’acqua e della legna abbondanti per l’avvio di un insediamento manifatturiero, di costruzione di strade.

E su un altro piano, altrettanto importante e significativo, gli illuministi condussero battaglie per un sistema giudiziario finalmente libero dai vincoli della giurisdizione feudale, per la rivendicazione d’una magistratura non ancora indipendente dal potere politico ma fedele esecutrice delle riforme monarchiche; espressero una violenta denuncia dell’origine sociale della criminalità (Genovesi, “Noi non siamo nati fiere, ma ci siamo ben fatti tali”), l’invito al recupero del delinquente, l’attacco alle carceri individuate come scuole di violenza (Galanti, “Miseria e criminalità”); la richiesta di una istruzione primaria pubblica e generalizzata come indispensabile premessa di una alfabetizzazione tecnica della manodopera e di una rinnovata coesione sociale e politica.

Ecco, una raggiunta coesione sociale e politica, il mitico sogno del Filangieri di “un corpo sociale fatto di un picciolo nunero di non proprietari e di un immenso numero di proprietari” segnò con caratteri di ideologia e di utopia le proposte dei nostri intellettuali. Si pensava ad uno sviluppo fondato sulla valorizzazione di tutte le classi produttive e non in particolar modo della borghesia, senza puntare su una rottura con la stessa nobiltà feudale: individuato il nemico principale nei latifondi ecclesiastici –in questo gli illuministi erano continuatori delle istanze di P. Giannone- si fidava in una capacità della società di integrare le diverse esigenze dei suoi corpi sociali in un superiore equilibrio interclassista per raggiungere lo scopo di un graduale e ordinato progresso economico (Genovesi: “Donde dipende la prosperità e la felicità d’una repubblica? Unite insieme le magnanime cure dei sovrani, quelle dei magnati, dei gentiluomini, dei dotti, dei ministri della religione, la ben regolata fatica del popolo: e siate sicuro di avere uno Stato florido, prospero e beato”). Non si puntava né si pensava allo scontro: si credeva in un passaggio pacifico e quasi indolore da una struttura socio-economica feudale ad un’altra più moderna ed efficiente fondata sullo sviluppo produttivo e sul libero scambio; paradossalmente una trasformazione in senso capitalistico senza la borghesia: di qui si originarono il paternalismo verso i ceti inferiori e una visione idillica e ingenua del rapporto tra le classi soprattutto nelle campagne (chi non ricorda l’idealizzazione del gentiluomo che insegna ai suoi contadini l’arte di coltivare la terra?).

Quali furono le trasformazioni che invece avvennero nella realtà? Per trasformare in senso moderno le campagne occorreva superare l’ostacolo dei latifondi feudali, con i limiti che i vincoli giuridici e gli istituti dei feudi ponevano alla libera commercializzazione delle terre e alla circolazione dei capitali e delle derrate. Gli illuministi propongono, ma tra loro ci sono tendenze diverse, una generale piccola privatizzazione della proprietà terriera, cioè un incremento massiccio della piccola proprietà contadina che avrebbe risollevato le sorti di centinaia di migliaia di coloni e di braccianti ridotti alla fame dagli arretrati rapporti di colonia e di affitto e favorito una più regolare e curata messa a coltura delle terre. Cioè, attaccando i più vistosi esempi delle rendita fondiaria improduttiva, si proponeva di razionalizzare e migliorare la produzione agricola e di risolvere positivamente la questione contadina. Questo programma di redistribuzione delle terre e di introduzione di migliorie tecniche necessitava di una massa ingente di capitali privati e di un deciso appoggio finanziario e creditizio da parte dello Stato. C’era stato un moderato progresso economico nel periodo 1730-1760 che aveva indubbiamente favorito una certa accumulazione capitalistica concentrandola nelle mani dei grandi proprietari laici ed ecclesiastici e negli “arrendatori” che controllavano la più gran parte della ricchezza mobiliare e che spesso s’identificavano negli stessi proprietari terrieri. Ma le possibilità e le capacità stesse dell’investimento si finalizzavano evidentemente al profitto: e i proprietari non erano per niente interessati a contribuire coi loro soldi a stabilizzare in modo iniquo per loro il mercato del lavoro, proprio perché inidoneo all’aumento dei profitti. Le grandi proprietà agricole avevano infatti bisogno di una larga massa di manodopera bracciantile a buon mercato, facilmente ricattabile perché priva di sicure garanzie di lavoro; perciò l’investimento di capitale non solo si opponeva ai progetti di diffusione della piccola proprietà contadina ma attaccava la piccola proprietà già esistente intensificando la proletarizzazione di larghe masse. Questo spiegava l’attacco borghese e nobiliare agli usi comunistici dei villaggi e la quotizzazione privata dei demani comunali, esigeva il libero commercio dei grani, l’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli mantenendo rigidi i salari. Illusoria perciò la speranza illuministica in uno sviluppo economico fondato sulla cooperazione, e velleitari i loro propositi di trasformazione ordinata della società meridionale; perché anzi i rapporti sociali si inaspriscono e gli egoismi diventano più energici. Gli illuministi appoggiarono la soppressione dei demani e degli usi civici e l’abolizione dell’annona, provvedimenti sbandierati come riforme ammodernatrici ma che nei fatti significarono soltanto il tracollo dell’atomizzata proprietà fondiaria dei contadini-braccianti e la fine di ogni controllo popolare sui prezzi e sull’ammasso delle derrate. Anche lo stesso appoggio dato all’aumento dei prezzi agricoli, in quel contesto, finì col favorire lo sviluppo della grande proprietà, aumentando il valore dei terreni col conseguente insostenibile rialzo dei canoni di affitto.

Quindi cos’era successo in realtà? Lo sviluppo si era realizzato in modi parziali e distorti, incurante delle coordinate riformatrici co n le quali gli illuministi avevano tentato di pianificarlo e disciplinarlo: uno sviluppo rivelatosi privo di un’ampia e nuova dimensione produttiva e prevalentemente o unicamente fondato sul supersfruttamento contadino, e che non aveva nemmeno favorito la stabile aggregazione d’una borghesia agraria definitivamente libera da ipoteche feudali. Uno sviluppo che non aveva avviato a soluzione nessuno dei problemi drammatici denunciati dalla pubblicistica illuministica. Del resto non c’erano margini: l’economia del Mezzogiorno ricopriva un ruolo di subordinazione coloniale nel quadro europeo, il Sud era destinato –nella divisione internazionale del lavoro- ad una sorta di monocoltura provinciale, i rapporti con l’estero erano limitati e instabili. Perciò le trasformazioni tardo-settecentesche della realtà meridionale furono espressione di un sottosviluppo squilibrato i cui elementi di fondo erano la marginalizzazione periferica e la dipendenza strutturale dai mercati europei più sviluppati, e la precarietà di un potenziamento economico che non modificando i rapporti di produzione esistenti, anzi mortificando l’estensione e la qualità delle forze produttive, distruggeva gli arcaici equilibri feudali ed era incapace di sostituirne di nuovi e più avanzati. Come non rilevare comunque, nonostante l’insuccesso di fondo nella trasformazione storica immediata, gli elementi di novità politica e culturale dell’impegno illuminista? Essi avevano inaugurato una tradizione di milizia degli intellettuali che per la prima volta nella storia della cultura italiana non solo si era sostanziata di un senso di rivolta contro una realtà sociale ingiusta e crudele, ma anche e soprattutto di uno sforzo costante nell’accoppiare alla denunzia proposte concrete di riforma (il bisogno di un uso sociale della conoscenza, l’istruzione elementare pubblica e generalizzata, il problema dell’informazione e della formazione dell’opinione pubblica, il nodo dell’amministrazione della giustizia). Una tradizione di pensiero attenta al reale, laica ed antigesuitica, con un grande patrimonio di serio impegno civile. E che aveva antecedenti seicenteschi: la filosofia razionalista cartesiana che si era sviluppata a Napoli nelle Accademie degli Investiganti e di Medina Coeli e la scuola galileiana toscana, per non parlare del magistero giuridico e della battaglia anticuriale di Giannone. Del resto la scuola giurisdizionalistica napoletana aveva contribuito a formare (nella lotta contro l’invadenza della Chiesa di Roma) una risentita nuova sensibilità nazionale, a diffondere un concetto dello Stato come cosa pubblica e collettiva, a generalizzare una tradizione di impegno civile e politico degli intellettuali. E lo stesso antivichianesimo, nettamente percepibile negli ambienti illuministici, era interpretabile come rifiuto d’una filosofia e d’una conoscenza astratte e, se era testimonianza di un’eccessiva cautela speculativa e di innato moderatismo, voleva esprimere soprattutto –con una forte attenzione ai temi economico-sociali- il bisogno di confrontarsi subito con la drammaticità dei problemi della società, di suggerire subito indicazioni di lavoro per le necessarie prime misure di riforma, di dare subito esempi e consigli.

Le esitazioni del riformismo borbonico. La ventata rivoluzionaria di Francia. La difficile scelta di una drastica alternativa di potere.

Qual era il bilancio che si poteva trarre alla fine degli anni Ottanta del ‘700? La popolazione era aumentata e la produzione pure, il prezzo dei cereali e delle altre derrate era salito a livelli impensabili, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate. Però, il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di cinquanta anni prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga dai villaggi verso le città. E nemmeno si parlava di nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, di investimenti massicci di capitali, di sviluppo manifatturiero. Anzi, l’attacco riuscito ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli quindi al ricatto delle speculazioni usuraie. Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (la Chiesa): da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari. Venivano distrutte le ultime illusioni illuministiche sul rafforzamento della coesione sociale tra le classi quale risultato finale delle riforme ma anche veniva resa sempre più incerta e titubante l’azione di riordinamento legislativo del governo.

La monarchia borbonica aveva intuito il pericolo disgregatore della potenza feudale dei baroni e nei suoi propositi iniziali di autonomia assolutistica, di restaurazione del potere centrale, di ammodernamento legislativo e finanziario aveva stimolato e accettato la collaborazione degli intellettuali illuministi. Ma i Borbone di Napoli non erano gli Asburgo d’Austria, non avevano un impero dietro di sé. La collaborazione era possibile soltanto finché le due parti avessero avuto un comune nemico da battere: e posto che la prima concedesse ai secondi un sufficiente margine di libertà per condurre avanti in relativa autonomia –lungo le linee di un dialogo equilibrato e rispettoso- la realizzazione effettiva delle riforme. Ma quando i facili ottimismi verranno a cadere, quando gli equilibri feudali precipiteranno, ecco allora venire dalla Francia notizie rivoluzionarie: gli entusiasmi regi si intiepidiranno fino a gelarsi.

L’assolutismo regio, anziché essere incalzato in senso progressista dalle vicende rivoluzionarie francesi, ripiegò su se stesso e imboccò la strada della reazione. Al contrario, i gruppi intellettuali, che avevano individuato nelle esitazioni e nella debolezza del governo, nelle riforme sbandierate ma non realizzate il vero pericolo, ruppero i legami con la monarchia. Alcuni erano morti (Filangieri, Palmieri, Longano), altri si ritirarono in deluso isolamento, i più incominciarono a prestare maggiore attenzione agli sconvolgimenti europei e alle novità politiche che si preannunciavano. Essi erano ormai consapevoli di poter ricoprire un’importante funzione nello scontro politico di quegli anni. Si formava così una classe politica di tendenze democratiche e repubblicane, fortemente influenzata dagli esempi costituzionali europei, e che sarà in gran parte protagonista dell’esperienza giacobina del 1799. E che sarà caratterizzata dalle stesse stigmate di tutto il movimento illuminista italiano: essere priva di una reale coscienza dei rapporti di forza tra le classi, il paternalismo nei confronti delle masse popolari, l’inconsapevolezza degli stessi immediati bisogni dei ceti proprietari meridionali.

Così la reazione delle plebi contadine, in rivolta contro tutte le espressioni del potere padronale negli anni tumultuosi del 1798-99, non trovò negli illuministi giacobini un reale punto di riferimento. “Chi tene pane e vino, ha da esse giacubbino”, cantavano le bande sanfediste del cardinale Ruffo. “Non vogliamo repubblica quando dobbiamo pagare come prima”, si gridava nelle vie di Cirò, in Calabria.

Le trasformazioni avevano favorito vecchi e nuovi padroni, quest’ultimi più rapaci dei primi, uniti in un fronte proprietario teso ad aumentare in ogni modo lo sfruttamento dei contadini poveri e senza terra. I riformatori erano spesso, nelle province, i nuovi proprietari più ferocemente odiati dalle masse popolari. I repubblicani erano danneggiati dal dover contare su truppe straniere di occupazione. E contarono soprattutto le ambiguità e i ritardi del governo rivoluzionario sul tema delle tasse e della distribuzione delle terre. E’ interessante quanto riportato in un libro pubblicato a Potenza nel 1892 e riferito agli avvenimenti del 1799 a Piperno (Lucania): “Il popolo divenne repubblicano, e combatté duramente per la difesa della repubblica, perché s’era risolta a suo favore la questione della terra”. L’appoggio contadino al movimento sanfedista di Ruffo fu più una esplosione anarchica contro ogni forma di potere statale che un’adesione coscientemente reazionaria; le devastazioni, gli attacchi contro le case dei signori, gli incendi, il rifiuto di pagare le imposte, l’auto-esaltazione delle masse proletarie, furono il segnale di una esasperazione popolare che non trovava altre e più convincenti espressioni politiche, altri e più seri strumenti di lotta.

Le centinaia di morti per le strade e di impiccati in piazza del Mercato a Napoli saranno la triste conclusione della sconfitta giacobina. Ma segneranno anche la fine, per un lungo periodo, del rapporto di collaborazione fra gli uomini di cultura e il potere politico. Nel corso dell’Ottocento il Sud vivrà ancora fasi di aspro scontro sociale e politico, dopo il decennio riformatore francese, con episodi di notevole importanza (le rivoluzioni del 1820-21 e del 1848, le riforme borghesi, le occupazioni di terre da parte dei contadini, il brigantaggio post-unitario) ma è ormai netta e irreversibile la separazione tra “momento economico” (rafforzamento della borghesia agraria e commerciale, i primi interventi di capitale straniero e il decollo dell’industria manifatturiera, tessile soprattutto) e “momento ideologico-politico” (coscienza dell’omogeneità degli interessi di classe, volontà di assicurarne lo sbocco positivo fino alla conquista del potere): frattura importante perché all’origine della povertà del dibattito culturale e politico di quegli anni, decisiva infine per il contributo che dà all’approfondimento della separazione tra il fronte degli intessi borghesi e quello delle masse contadine e popolari prima e dopo l’unità nazionale. Una separazione che negli intellettuali illuministi non c’era stata e che ne aveva perciò esaltato la funzione civile di uomini di cultura e di militanti politici, tutti impegnati a insistere sul concetto che il potere politico aveva bisogno del consenso di tutti i cittadini e doveva essere rappresentativo delle loro esigenze. Pur con tutti i limiti, le astrattezze e le improvvisazioni che prima ho individuato nei dettagli.

 

                                                           Gennaro Cucciniello

 

*Tutte le citazioni sono tratte dal mio volume, Politica e cultura negli Illuministi meridionali, Milano, Principato, 1975.