Linus e compagni, così teneri, così nevrotici, così attuali.

Linus & Co, così teneri, così nevrotici, così attuali.

In un libro di studi sui personaggi creati nel 1950 da Charles Schulz, lo scrittore americano Adam Gopnik analizza i perché del successo di questa “striscia caustica e desolata”.

 

Fin dalla sua comparsa nel 1950, la fantastica striscia di Charles Schulz si è sempre conquistata ammiratori e attenzioni, quindi aggregarmi a chi ne decanta le lodi potrebbe sembrare superfluo almeno quanto l’ennesimo tentativo di Charlie Brown di dare un calcio al pallone da football. Ma c’è un fatto in particolare che forse non viene abbastanza sottolineato e che invece vale ancora la pena di notare, e cioè che malgrado le vignette siano adorabili e ne siano stati tratti diversi adattamenti televisivi che noi americani amiamo perché vengono puntualmente messi in onda durante le nostre rocambolesche vacanze di Halloween e di Natale, la comicità della striscia nella sua massima espressione, ovvero dai primi anni Sessanta alla metà dei Settanta, è straordinariamente caustica e desolata, eppure in un certo senso appagante.

L’umorismo dei Peanuts è prima di tutto duro, e solo in un secondo momento diventa leggero. La condizione dei personaggi è più vicina a Cechov che a Gasoline Alley, e lo scarno orizzonte dei loro botta e risposta di sconforto spirituale assomiglia più a Beckett che a Beetle Bailey. Ognuno di questi bambini è perfettamente incompatibile con le sue ambizioni –proprio come la vita, i Peanuts sono una sferzante commedia sullo sfasamento tra i propri talenti e i propri desideri. Non è un caso che l’espressione più caratteristica della striscia sia “Misericordia!”. Uno scarno urlo di esasperazione, nato come espressione molto prima che Schulz lo facesse suo, che assume una duplice potenza di fuoco.

I personaggi soffrono davvero per le loro sconfitte, che sono reali; è la comicità con cui queste sconfitte vengono affrontate che rende “buono” questo dolore. La desolazione comincia forse proprio dalla premessa della striscia: un mondo occupato solo da bambini in cui i genitori sono deboli eco fuori campo, che sentiamo solo in rarissime occasioni e non vediamo mai. E’ una visione che non ha niente di confortante o di “carino”. I bambini non vivono in un mondo più innocente; il loro è inequivocabilmente lo stesso mondo degli adulti, fatto di ambizioni frustrate e desideri illusori, ma gli manca la capacità degli adulti di prendere una seppur minima iniziativa per adattare, almeno in apparenza, i loro obiettivi alla situazione in cui si trovano. Questi bambini non possono plasmare il loro mondo, arredare le loro case o scegliere in quale città vivere. Vivono stabilmente in uno strano paesaggio spoglio di periferia, che forse involontariamente ricorda una delle nuove, alienanti “aree di sviluppo urbano dell’epoca”, inquietanti ma “sicure”, più che il piccolo centro in cui anche Schulz era cresciuto. Solo Snoopy è in grado di crearsi una casa, come del resto riesce a trasformarsi a piacimento in un asso dell’aviazione della Prima Guerra Mondiale o in un romanziere. Tutti gli altri sono schiavi irrequieti di un mondo fatto di campetti polverosi, televisori con l’antenna e occasionali mazzi di gramigna, come fossero i pazienti di uno degli ospedali psichiatrici dell’epoca.

In questo universo eccezionalmente tetro –privo della ricchezza decorativa di strisce come il Popeye di Segar, dell’attenzione amorevole ai particolari borghesi di The Family Circus, e soprattutto della qualità satirica dei migliori vignettisti del New Yorker di quei tempi- ogni personaggio lotta con una suprema inadeguatezza rispetto al ruolo che gli è assegnato o con una costante repressione dei suoi veri sentimenti. L’unico personaggio votato alla psichiatria è anche il più nevrotico di tutti. Lucy è la persona meno idonea a dispensare consigli psichiatrici nella storia della narrativa –burbera e meschina, permalosa e del tutto priva di senso dell’umorismo, è di natura l’essere umano meno empatico e intuitivo del pianeta terra. E’ l’ultima persona al mondo da cui andremmo se avessimo problemi di cuore –eppure è l’unica abbastanza arrogante da dispensare consigli in materia, per giunta chiedendo un compenso.

L’ironia di questo paradosso è tristemente riconoscibile. La stessa legge dello specchio applicabile nella vita vale anche in questo caso: cerchiamo di diventare ciò che bramiamo, e non quello che sappiamo essere. Quelli tra noi che scelgono di diventare psichiatri o terapeuti il più delle volte sono in effetti persone frustrate o difficili, che hanno scelto di dedicarsi alla cura degli altri perché gli apre un’intrigante finestra sull’altro, o forse per il richiamo di una posizione di autorità. Nel corso delle mie avventure nel mondo della psicanalisi ho incontrato molte più Lucy che Linus, anche se come confidente preferiremmo tutti Linus, con la sua pacata intelligenza e la sua vasta sapienza. Ma anche Linus, a sua volta, benché venga rappresentato come il più gentile e acculturato dei personaggi, è in qualche modo danneggiato. Innanzitutto dalle prepotenze di una sorella maggiore alla quale riesce solo a rispondere con una stoica accettazione –lo ricordiamo con le stelle che gli vorticano sopra la testa- ma anche dalla sua dipendenza dall’onnipresente copertina. Linus, l’unico membro della famiglia che potrebbe essere un rifugio nella tempesta, soffre così tanto per la sua insicurezza che è difficile pensare che possa sorreggerci in un momento difficile. La dolcezza delle sue parole e la sua inesauribile riserva di elaborata, meticolosa buona fede riescono sempre a commuoverci. C’è la sua proposta di un momento di condivisione a scuola, che inizierà con “qualche parola di ringraziamento e di elogio per la maestra, poi magari un aneddoto divertente seguito da qualche statistica rilevante e un appello alla ragione… Che ne dici, Charlie Brown?”. Charlie Brown non lo insulta, ma lo prende affettuosamente in giro –“Il resto della giornata sarà una delusione” – ma sappiamo quanto lui che con le sue buone intenzioni Linus susciterà solo la beffarda ilarità di tutti. Nel mondo di Schulz i puri di cuore non vengono ricompensati per la loro purezza.

Schroeder, per quanto adori Beethoven, ha una sola vera e fedelissima ammiratrice: Lucy. Ma il suo modo di relazionarsi con lei somiglia al disprezzo, più che all’indifferenza –tutta quella dedizione sembra solo infastidirlo. Il suo interesse compulsivo per la musica, come la tenera erudizione di Linus, non lo aiuta a comunicare, ma lo isola ulteriormente con la sua ossessione. E’ felice solo quando suona e si spazientisce quando gli viene chiesto di parlare –figuriamoci di flirtare. Tutti amano la persona sbagliata, come è capitato a tutti noi nella vita reale. L’irascibile Sally Brown ama il flemmatico Linus; la gretta Lucy ama l’esteta Schroeder –perfino la venerazione di Marcie per l’ultima arrivata Piperita Patty sembra un’infatuazione a senso unico. Pur dando una prima impressione adorabile, il loro costante riproporsi diventa compulsivo. Nei Peanuts non si diventa vecchi, è vero. Ma non si diventa neppure grandi.

Queste spirali di amore non corrisposto e ambizioni rinnegate ci portano inevitabilmente alle due figure centrali della storia: Charlie Brown e Snoopy. Il primo è diventato una sorta di modello universale come forse solo un altro Charlie prima di lui, Chaplin, è riuscito a essere, sia per l’inesorabilità della sua sofferenza che per la complicità malata che instaura col suo dolore. Ma nel suo stoicismo Charlie Brown somiglia più a Buster Keaton che a Chaplin: non soltanto l’inettitudine della sua squadra, ma la loro litigiosa indifferenza al baseball; non solo i brutti voti a scuola, ma la dolente consapevolezza che sono meritati; e andando oltre la semplice infatuazione per la ragazzina dai capelli rossi, si ritrova a rendere pubblica la minuziosa analisi del suo amore non ricambiato.

Tutti sanno che la ama, tutti sanno che non ha speranza. “Sono depresso, Linus”, esordisce Charlie Brown in più di una striscia –e forse non ci soffermiamo abbastanza su quanto sia insolito e raro questo termine, e su quanto sia destabilizzante nelle parole di una striscia a fumetti che, pur non destinata ai bambini, verrà probabilmente letta anche dai più piccoli. In realtà, la parola preferita di Charlie Brown, “depressione”, è uno dei vocaboli-chiave per comprendere gli anni ’50 e ’60, il periodo in cui i Peanuts hanno preso forma, anche se ai tempi aveva un significato diverso da quello odierno. Oggi lo usiamo quasi sempre per descrivere la fase acuta di un disturbo clinico che colpisce molti pazienti, quell’oscurità trasparente di cui scrisse William Styron. Ma è anche il termine preferito di Holden Caulfield –e per molti versi Charlie Brown potrebbe essere Holden Caulfield sei o sette anni prima che scappi da scuola –che non lo usa per indicare una persona patologicamente incapacitata ma… depressa, rattristata all’improvviso da un qualche sviluppo degli eventi che rivela la natura essenzialmente insensibile di ogni esistenza. Holden è depresso quando pensa ai turisti di Seattle che si alzano presto per andare al Radio City Music Hall facendo uno sforzo inadeguato rispetto al premio che li aspetta; è depresso vedendo un “vaffanculo” sul muro di un museo –a deprimerlo, insomma, è la misera grettezza della vita. La sua è un’emozione che in epoche precedenti non prendeva il nome di depressione ma di “malinconia” –ed è ciò che affligge anche Charlie Brown. E’ malinconico, e la sua malinconia è la nota tonica della striscia. Il campeggio è una tortura da sopportare. La ragazzina dai capelli rossi non verrà mai conquistata, e nemmeno corteggiata.

Forse ciò che amiamo di più dei Peanuts sono la spontaneità e la facilità con cui Schulz trasforma le grandi preoccupazioni della letteratura impegnata e della crisi spirituale in un’indimenticabile serie di quotidiane parabole comiche, in cui la verità si ritrova espressa nei motti di spirito. “Non so cosa fare”, dice a un certo punto Charlie Brown, che sembra un Thomas Merton con un maglione buffo, a Lucy che lo ascolta in veste di psichiatra. “A volte mi sento così solo, non lo sopporto… Altre volte ho solo voglia di starmene per conto mio”. Cerca di stare nel mezzo” gli dice Lucy, aggiungendo subito: “Cinque cent, prego”. Stare nel mezzo e pagare i propri debiti –se esiste un consiglio più saggio nel mondo moderno, nessuno l’ha mai disegnato.

 

 

                                                        Adam Gopnik

 

Questo articolo è stato pubblicato nel “Robinson di Repubblica” di sabato 13 marzo 2021, a pag. 35.