L’Italia, 51° Stato degli USA
Ne “La Lettura”del 25 maggio 2025, alle pp. 24-25, Davide Ferrario con una narrazione distopica e grottesca rivela…
L’idea venne enunciata per la prima volta durante un talk show, uno dei tanti che contrassegnarono i giorni della crisi del 2025 quando, dopo l’avvento di un presidente americano particolarmente volitivo, antichi equilibri politici e culturali venivano ogni giorno sovvertiti. Incrinatosi il fronte occidentale, in quale sfera d’influenza ci conveniva rimanere? Con gli Usa o con l’Unione Europea? All’improvviso il futuro minacciava cupi orizzonti di guerre commerciali e non solo… Fu messa in opera il più a lungo possibile la tattica di tenere il piede in due scarpe, pratica in cui la nostra diplomazia aveva una lunga e magistrale tradizione. Ma l’imprevedibilità del già citato irrefrenabile capo di Stato destabilizzava ogni giorno l’opinione pubblica in modo tale che tutto il Paese –e il mondo intero- erano entrati in uno stato di ansia che logorava le giornate.
Fu in questo clima che un autotrasportatore di Montebelluna, invitato a un talk show dove si riteneva che personaggi come lui esprimevano le opinioni della gente comune, se ne uscì con questa domanda: “Ma perché non diventiamo il 51° Stato americano? Quello là vuole annettere Canada e Groenlandia, perché noi no? Ci converrebbe…”. Durante la trasmissione non fu preso molto sul serio, anche se le obiezioni immediate non riguardavano tanto la sovranità della nazione. Si contesyò piuttosto che noi non avevamo terre rare da offrire allo sfruttamento, e che non eravamo nemmeno confinanti con gli Usa. In retrospettiva, un indizio illuminante per capire come sarebbe andata a finire.
La faccenda cominciò a ingrossarsi il giorno dopo quando un quotidiano nazionale commissionò un sondaggio a proposito (insieme a un altro che chiedeva chi avrebbe vinto il campionato di calcio, quell’anno particolarmente combattuto). Non si è mai potuto stabilire con quale serietà scientifica venne realizzato, o addirittura se si fece davvero. Ma si era entrati in un’epoca in cui non faceva più molta differenza. Come che sia, il 50% degli intervistati considerava la proposta plausibile. La questione entrò improvvisamente nel dibattito pubblico, tanto più quando l’assertivo presidente americano comunicò, con un sorprendente messaggio social, che lui la trovava “un’idea davvero buona” (A damn good idea); e che lui considerava persone speciali gli italiani in genere e la premier allora al governo in particolare. Certo, ci furono polemiche quando il giorno dopo si lasciò sfuggire che gli italiani, così facendo, erano pronti a baciargli una certa pare anatomica; ma la battuta venne presto derubricata a un caso di cattiva traduzione, con conseguente licenziamento dell’interprete.
La questione era definitivamente sdoganata e spaccò le tradizionali alleanze politiche. In fin dei conti Machiavelli era italiano e in ogni italiano albergava un Machiavelli in miniatura, perciò le considerazioni che fecero pendere la bilancia verso l’affiliazione agli Usa furono di tipo utilitaristico. In quella drammatica congiuntura storica si valutò che ;diventare un nuovo Stato americano presentava vantaggi innegabili: diventando l’Italia parte integrante degli Usa, i problemi del commercio e del riarmo si sarebbero risolti da soli. Avremmo potuto continuare a esportare oltreoceano, ma sul mercato interno, senza aggravi tariffari; e non avremmo dovuto preoccuparci di mettere in piedi un esercito credibilmente attrezzato perché ci avrebbe pensato il Pentagono. Quanto alle questioni ideologiche, la già citata premier disse di essere perfettamente coerente con la linea da lei fin lì seguita, che vedeva l’Italia “leale ma non subalterna”. Quale prova migliore di non subalternità che entrare negli Usa con gli stessi diritti dell’Alabama, del New Hampshire o del South Dakota? Quanto a certi suoi alleati dichiaratamente sovranisti, risolsero i dubbi facendo appello a un tema che –sostenevano- rientrava a pieno titolo nelle loro ragioni fondative: il federalismo. Non se ne era parlato in Italia per decenni senza combinare niente? Entrare a far parte di uno Stato federale di lungo corso avrebbe risolto i problemi in un colpo solo. Anzi, la tradizionale autonomia degli Stati americani nei confronti del governo centrale avrebbe garantito un’invidiabile indipendenza gestionale dei bilanci locali: che, alla fine, era sempre stato il cuore di ogni rivendicazione in tal senso.
Quanto ai rapporti storici con il restio dell’Europa, molti studiosi –brutalmente ma oggettivamente- ricordarono che:
- Nel ‘900 avevamo una consolidata e continua tradizione di tradimento delle alleanze;
- Nello stesso secolo avevamo fatto guerra, a turno, a tutti i nostri confinanti esclusa la Svizzera; e perfino alla Grecia e all’Albania, nonché alla perfida Albione.
Infine, che gli americani ci avevano già invaso una volta, nel 1943, e li avevamo accolti come liberatori. Per non parlare di quei lunghi decenni del dopoguerra in cui i comunisti italiani non avevano mai potuto andare al governo, tanto che gli storici parlavano di un Paese a sovranità limitata. Insomma, si trattava –per una volta- di non essere ipocriti.
La proposta di unione agli Usa (che qualcuno continuava polemicamente a chiamare annessione) passò in Parlamento con una maggioranza trasversale il 25 aprile 2026. Una data scelta con una certa perfidia, bisogna ammetterlo: ma d’altra parte non era mai stata una ricorrenza condivisa. Il referendum abrogativo che fu subito chiesto dagli oppositori non raggiunse il quorum necessario: e così l’anno dopo diventammo il 51° Stato dell’Unione. Certo, ci fu chi si lamentò del fatto che il referendum si tenne durante il weekend di Ferragosto e che le basi americane presenti sul territorio erano state messe in allerta per garantire la sicurezza del voto. Ma nella sostanza tutto seguì le regole formali della democrazia, come riconobbero gli osservatori russi e bielorussi che seguirono lo svolgimento delle votazioni su invito dei governi americano e italiano. La nostra entrata negli Usa fu ufficialmente festeggiata durante lo svolgimento dell’America’s Cup a Napoli, un evento il cui significato simbolico non sfuggì.
Nei fatti, la nostra vita cambiò ben poco. A parte le abitudini alimentari, lo stile era già ampiamente americanizzato. Qualche problema si ebbe con il capo dell’agenzia che l’impetuoso presidente (ormai, il nostro presidente…) aveva incaricato dell’efficientamento della burocrazia. Costui inviò ai dipendenti statali una mail in cui si chiedeva conto a ciascuno di spiegare cosa aveva fatto nella settimana precedente, argomentando nel suddetto report l’effettiva utilità del proprio lavoro, pena il licenziamento. Non rispose nessuno. Gli oppositori politici esaltarono una così nobile e compatta prova di disobbedienza civile. Uno scrittore di fama ci ricamò un memorabile pezzo in cui si rintracciavano le radici di questa forma di resistenza passiva nel celebre Bartleby di Melville, lo scrivano che alla protervia del mondo e dei potenti rispondeva con un laconico diniego. Altri, meno liricamente, commentarono che, più che altro, i diretti interessati proprio non sapevano cosa rispondere, non essendo in grado nemmeno loro di capire l’utilità di quel che facevano. Tesi corroborata dal fatto che il questionario era stato mandato anche a tutti i ministri del governo, i quali avevano fatto scena muta pure loro, soprattutto quando gli fu spiegato che mandare messaggi sui social non si poteva considerare un lavoro. Ma alla lunga la battaglia contro il deep state, che tanti successi aveva mietuto oltreoceano, da noi sfumò lentamente in un conflitto a bassa intensità. Le draconiane norme federali di Washington venivano sistematicamente sabotate a Roma da leggi statali ad hoc, declinando in modo originale quel concetto di autonomia di cui si era discusso a lungo. Fu un processo nel quale la vecchia classe politica si riciclò con efficienza.
Dopo qualche tempo il nostro dinamico presidente smise di fare la faccia truce e decise di lasciar perdere. Piuttosto che assimilarci a forza al resto degli Usa conveniva trattarci come una specie di colonia o protettorato, tipo Portorico: inaffidabili ma simpaticamente pittoreschi. Alla fine, come era stato scritto in quel famoso romanzo, era necessario che tutto cambiasse per non cambiare niente.
L’assimilazione fu favorita da un processo già in essere nel Paese: l’invecchiamento demografico, con conseguente emigrazione dei giovani. Adesso che erano diventati americani, costoro non avevano più bisogno di andarsene all’estero. Presero semplicemente a spostarsi in massa in California o a New York, dove le possibilità di successo professionale erano migliori. Nella penisola rimasero gli anziani, che già prima erano la maggioranza. Il moltiplicatore della tendenza fu l’arrivo in massa di pensionati d’oltreoceano che avevano sempre desiderato visitare l’Italia: tanto più ora. Per non parlare dell’effetto legato ai molti italoamericani di ritorno. Insomma, nel giro di una quindicina d’anni, l’Italia si trasformò in una specie di Florida europea; o, nel giudizio di alcuni demografi particolarmente critici, in una via di mezzo tra una enorme Rsa e un altrettanto gigantesco parco a tema. Fu allora che venne coniato il termine Italialand, a tutt’oggi in auge. Fortunatamente l’agonia di questa fase storica venne accelerata dalla privatizzazione della sanità pubblica, realizzata secondo gli spicci dettami del solito presidente. Anziane ed anziani, senza cure adeguate, cominciarono a morire in numeri significativi. Il che giovò anche alle statistiche economiche, realizzando finalmente l’antica teoria secondo cui, per abolire la povertà, bastava eliminare i poveri.
Certo, molte di queste cose le ho solo sentite raccontare. Io sono nato proprio nei giorni del referendum del 2026 e adesso, ormai anziano, guardo il passato con la nostalgia delle cose legate alla gioventù. Quanto a noi nati negli ultimi anni dell’Italia sovrana, siamo rimasti non più di un paio di migliaia. La sera si chiacchiera con gli avatar di dante, Leopardi, Fellini, prodotti dalla IA. Poi, prima di dormire, usciamo sul lungomare a prendere un po’ d’aria, almeno quelli non in sedie a rotelle. Io cammino guardando le onde che si frangono lente, confortandomi per quella che tutto sommato è stata una buona vita.
Davide Ferrario