Lo storico romano Tito Livio, un provinciale di successo.

Lo storico romano Tito Livio, un provinciale di successo.

Duemila anni fa la morte dello storico padovano, uno dei più grandi storici dell’Occidente, autore di una monumentale opera su Roma, “Ab Urbe condita libri CXLII”.

 

“Questo soprattutto è utile e salutare nello studio della storia: avere davanti agli occhi esempi di ogni genere testimoniati da un’illustre tradizione da cui trarre ciò che devi imitare per il bene tuo e del tuo Stato, e ciò che devi evitare, perché malvagio nelle intenzioni e nelle conseguenze” (Tito Livio, “Prefazione”).

Le sue “Storie” non sono state soltanto fonte inesauribile di sapere per la cultura occidentale, ma –soprattutto- un’opera letteraria ammirata per la sua potenza narrativa, per la raffinatezza del suo stile, per lo slancio etico e ideologico di alcuni dei suoi episodi più celebri. Il proemio della sua opera si chiude con l’amara osservazione che “di recente le ricchezze hanno insegnato l’avidità, e l’aumentata possibilità di piaceri ha stimolato la brama di andare in rovina e mandare tutto in rovina col fasto e coi vizi (…) Per parte mia io distoglierò il mio spirito dalla contemplazione dei mali, che per tanti anni la nostra generazione ha dovuto vedersi attorno, mi concentrerò a rievocare quelle antiche età, sforzandomi di liberarmi da ogni cruccio, che potrebbe, mentre io scrivo, se non allontanarmi dalla verità, almeno tenermi turbato”.

Nell’Umanesimo e nel Rinascimento il culto di Livio raggiunse forme di vera frenesia, in accordo col culto dell’antichità classica e particolarmente romana e col rinnovato amore per le grandi personalità. Nel primo ‘500 Nicolò Machiavelli scrisse riflessioni acutissime sulle “Deche” di Tito Livio: i “Discorsi”, un trattato di scienza politica per i regimi repubblicani. Nel ‘600, anche per creare un antidoto al culto di Tacito –troppo pericoloso per la sua critica al potere assoluto- nelle scuole confessionali dei paesi cattolici s’incoraggiò di nuovo il culto di Tito Livio, campione di uno Stato nutrito di valori etici tradizionali a sfondo religioso. E del resto già la Repubblica di Venezia aveva incoraggiato, nei suoi ambienti colti, lo studio e l’esaltazione di Livio, perché nella pagine che celebravano la gloria e la saggezza della Repubblica romana trovava come prefigurati i propri meriti.

Riporto per l’efficacia della sintesi un articolo di Massimiliano Melilli, apparso sul “Corriere del Veneto”, domenica 26 febbraio 2017.

                                                        Gennaro Cucciniello

 

E’ fra gli autori più citati nella storia universale della letteratura. Suoi aforismi fanno bella mostra in romanzi immortali, da “Guerra e pace” (“Spetta a chi la dà, non a chi la chiede, dettare le condizioni di pace”) a “Ragione e sentimento” (“La malvagità non procede mai su alcuna base ragionevole”). Ancora. Da sempre i suoi pensieri fanno parte del linguaggio e del sentire comune: “La paura è sempre incline a far vedere le cose più brutte di quel che sono”.

A duemila anni dalla sua morte, una cosa è certa: vita, opere e stile del padovano Tito Livio (ma un luogo di Marziale lo vorrebbe nativo di Abano), nato nel 59 avanti Cristo e morto nell’anno 17 dell’era cristiana, risultano più attuali che mai. La sua, alla resa dei conti, è la vita di un provinciale di successo –alla pari di Virgilio e di Orazio- che ha segnato la storia di Roma “caput mundi”.

Altrettanto vero è che, nel giudizio sulla sua opera, gli storici si sono puntualmente divisi. C’è chi ha riscontrato una perfetta coincidenza con la politica di Augusto e lo ha considerato una sorta di propagandista del principato. E chi, di contro, puntando l’attenzione sulle sue frecciate al curaro contro il nuovo corso imperiale, lo giudica un nostalgico dell’antico regime. Come racconta Tacito, lo stesso Augusto lo definiva pompeiano per le sue idee repubblicane. Tutti comunque riconoscono a Tito Livio, autore di una monumentale storia di Roma, “Ab urbe condita libri”, la palma di principale storico dell’età augustea.

Riletto con gli occhi “politici” di oggi, Tito Livio è politicamente scorretto: un veneto che scrive la storia di Roma, altro che leghismo d’antan e Roma ladrona. Dei 142 libri con cui lo storico patavino ha raccontato l’evoluzione della capitale, dalla fondazione all’età sua contemporanea, dall’aprile del 753 a.C. fino al 9 a.C. (morte di Druso) o 9 d.C. (disastro di Teutoburgo), ne rimangono solo 35, un numero sufficiente per farlo amare da grandi personaggi come Machiavelli.

Anche se i suoi contemporanei lo accusavano di “patavinitas”, di un certo provincialismo nello stile della sua prosa, proprio alla padovanità arcaica Tito Livio deve forse l’attaccamento alla virtù degli avi, il senso dello Stato, l’onestà, l’austerità di vita, l’attaccamento alla religione. Alla sua figura, il grande studioso dell’antichità Luciano Canfora ha dedicato anni di lavoro. Oggi sostiene: “Tito Livio è provinciale, cioè un romano “recente” visto che la guerra dei socii contro Roma era finita meno di trent’anni prima della sua nascita a Padova, il “municipium” che nel 43 a.C. si era schierato col Senato contro Marco Antonio. Tito Livio –riflette Canfora- approda a Roma, centro del potere, quando ormai Augusto è rimasto unico vincitore del ciclo interminabile delle guerre civili, e si avvicina alla corte fino a integrarsi in essa, divenendo per un bel po’ di tempo lo storico ufficiale del nuovo ordine. Nella casa di Augusto godette autorità e avviò Claudio, il futuro imperatore, agli studi storici ed eruditi. E’ una bella contraddizione –conclude lo studioso- con il suo punto di partenza: i sentimenti “repubblicani”, peraltro caratteristici dei municipia e in particolare di Padova. L’equivoco della “restaurazione repubblicana” di Augusto può aver contribuito”.

Se la gloria di Tito Livio è universale, tutto padovano è il “giallo” del ritrovamento del suo corpo in età umanistica. Tra il 1345 e il 1350, scriveva nella sua “Storia di Padova” Attilio Simioni, nell’orto di Santa Giustina dove la tradizione diceva sorgesse il tempio della Concordia nel quale lo storico sarebbe stato sepolto, fu trovata una lapide sepolcrale del primo secolo col nome di Livio ma si trattava di uno schiavo.

La vera lapide funeraria di Tito Livio, incisa su un blocco grezzo di trachite euganea, è probabilmente quella conservata nell’atrio di palazzo Capodilista. Il 31 agosto 1413 l’umanista Sicco Polenton, cancelliere del Comune patavino, fu avvertito da tal frate Rolando che nell’orto del monastero era stata trovata un’antica tomba contenente una cassa di piombo con dentro uno scheletro ben conservato. Era Tito Livio. Duemila anni dopo, la sua figura è più viva che mai.

 

                                               Massimiliano  Melilli