Majakovskij. Una storia d’amore con la poesia.

Majakovskij. Una storia d’amore con la poesia.

Il saggio di Serena Vitale, “Il defunto odiava i pettegolezzi”, svela il mistero del suicidio del poeta e lo spirito del suo tempo.

Spero, spero tanto che tutti capiscano quanto era grande Majakovskij”. L’intervista non è ancora cominciata, ma Serena Vitale, la più importante slavista italiana, già mi svela il vero obiettivo che l’ha spinta a scrivere un libro sul più famoso poeta della rivoluzione bolscevica. “Il defunto odiava i pettegolezzi” esce proprio in questi giorni per Adelphi, ma sono almeno cinque anni che lei vive con Majakovskij. Ormai di lui sa tutto. Le case in cui viveva, le donne, l’amore per gli animali, i vezzi, i difetti, la genialità. Il racconto fluisce come un fiume in piena, recupera gli odori e i rumori delle strade su cui passeggiava, l’ondeggiare dell’andatura, le scarpe di buona fattura, gli abiti eleganti e gli stracci. E poi la voce “potente e vellutata”. Mentre parla veloce come il fulmine, i pensieri si intrecciano in una catena, tra una sigaretta e l’altra sciorina i versi magnifici in russo e in italiano, storce il naso, ride, poi ricorda Lili Brik, l’amore della vita di Majakovskij, l’ammirazione per lui di Marina Cvetaeva, un episodio con Pasternak, l’incontro tra il poeta e Mandel’stam. E sembra che siano tutti qui riuniti, in questa casa di Milano inondata dal sole. C’è molta vita in questa stanza. Molta intelligenza e molta anima, russa.

Ci sono state numerose ricostruzioni del suicidio di Majakovskij, il 14 aprile 1930. A più riprese si è parlato di omicidio. Questo libro metterà fine alle illazioni?

Lo spero proprio. Io volevo arrivare alla soluzione del caso. Non mi piacevano gli attacchi antisemiti contro Lili Brik, ma come si fa a non vedere quanto lo amasse? Quando studiavo a Mosca, lei lì era un personaggio, ma io preferivo andare da Nadezda Mandel’stam. Lili Brik aveva un salotto più internazionale, potevo trovarlo uguale a Parigi. Epperò, non mi andava il modo in cui è stata denigrata. Ho perso un anno e mezzo solo tra verbale e memorie e ho visto che nelle dichiarazioni di Veronika Polonskaja (Nora), che era nella stanza di Majakovskij quando morì, nulla tornava. Tra l’altro ho conosciuto anche lei. Aveva quasi settant’anni ed era ancora di una bellezza spaventosa.

Il libro è costruito come un giallo, ma ci restituisce lo spirito e l’essenza del tempo.

Sul fatto in sé, sul suicidio, in fondo si sapeva quasi tutto sin dal giorno dopo. A me interessava l’epoca, altrimenti non si può capire il perché del gesto di Majakovskij. Si era fatto il vuoto intorno. C’era tanta gente che lo perseguitava. Per esempio, Marina Cvetaeva lo adorava. Ma lui un giorno ebbe a dire: “Vi piace il lirismo gitano? Allora comprate la Cvetaeva”. La maltrattò moltissimo. Eppure lei, che pagò per questo con l’ostracismo, quando lo vide arrivare a Parigi commentò: “Che dire di Majakovskij? La forza è lì”.

Era inviso perché cantava la Rivoluzione?

A Stalin di Majakovskij non gliene importava proprio niente. Il potere lo ignorava. Poi, dopo morto, allora sì che lo hanno sfruttato: i morti allo scopo funzionano meglio dei vivi. Ma poi c’è il fatto che i russi (soprattutto oggi) non riescono a capire come lui potesse essere amico di un membro dell’Ogpu (la polizia segreta). E invece succede, a volte nasce l’amicizia. Lo ha spiegato benissimo Lili Brik: “Per noi allora erano uomini santi quelli dell’Ogpu, erano eroi”.

Majakovskij non sentiva arrivare la bufera?

Lui capiva di politica quanto io di arabistica del Trecento.

Nessun presentimento?

Avrebbe potuto capire, c’erano mille segni. Per esempio, Nadezda Mandel’stam capiva. Ma lui era cieco politicamente. E soprattutto si era identificato con la Rivoluzione. Era la Rivoluzione. Spesso si pensa che si suicidò quando si rese conto di quello che stava accadendo, per la delusione. Invece no. In lui c’era una rabbia furiosa, la rabbia di uno che è impotente, a cui viene sottratta la ragione di vita. La poesia.

Nel libro lei racconta al dettaglio lo strano triangolo in cui si dimenava Majakovskij, che viveva con Lili Brik e il marito di lei, Osip. Intanto lei lo tradiva, lui la tradiva, una girandola di altri amori e altre donne…

Tutte belle, e tutte legate a un altro, come se ci fosse in lui un celibato interiore. Non sessuale. Anzi, come disse la Polonskaja, da quel punto di vista era tutto a postissimo.

Altre dicono che da quel punto di vista non era niente di speciale.

Questo lo diceva Lili Brik, che comunque lo adorava, anche con un rapporto di maternage. E poi quella era l’epoca dei matrimoni a quattro, a cinque, perfino a otto. Dal 1928 c’è poi stato un ritorno puritano.

I russi sembrano ancora più liberi di noi.

Ma all’inizio era proprio una cosa incredibile. Trockij, che era il leader sottaciuto del Komsomol, fu accusato anche di avere incitato l’organizzazione giovanile del partito a questa eccessiva libertà sessuale. Ma la realtà è che Majakovskij è stato innamorato di Lili tutta la vita. Anche lei a suo modo ha continuato ad amarlo, immagino con un forte senso di colpa. Tutte le cose che dice, sulle manie suicide, sono anche un’autodifesa perché lei non c’era quando morì. Quell’ultima notte di Majakovskij trascorsa senza che nessuno telefonasse… sarebbe bastato parlargli.

Quanti figli ha avuto, Majakovskij?

Boh! Due o tre si conoscono, ma saranno la metà di mille. Era una specie di banca del seme.

Lili Brik non ha mai avuto dubbi sul suicidio, né sulla lettera di addio. “A Tutti”.

Ma certo. Però la mia convinzione è che quella sera Majakovskij fosse braccato dalla solitudine. Ci si era messo da solo, perché era spumantino, aveva mandato in quel posto tutti quelli che lo potevano aiutare. Se Nora avesse avuto un po’ di pietà!

Lili parlò di “roulette russa”.

Impossibile. Dopo tutte le ricerche fatte per capire come sono andate le cose, dopo aver spulciato aziende, libri, esperti e tutti i siti immaginabili –roba da aver paura della polizia postale- sono certa che con la Mauser la “roulette russa” non era possibile.

La spia che seguiva Majakovskij era proprio Nora, che diceva di amarlo?

Non lo so. E’ molto probabile, ma non ho le prove e mi muovo solo su prove provate. C’è la ragionevole certezza.

Lei era bellissima, ma anche lui.

Io vado in giro con le sue foto in tasca. Le ho raccolte qua e là in mille pellegrinaggi.

Nel libro emerge come un gigante.

Alto uno e 93, enorme, bello come un fiore. E questa poesia prorompente. Una raffica di fuoco. Era arrabbiato contro i burocrati e contro i filistei. Che versi, che invenzioni linguistiche! Ed è stata la forza della poesia a ucciderlo. Esiste una poesia così forte che se tu la reprimi, per lealtà, e mai per tornaconto, a un certo punto esplode. Diventa lei la pistola. Quanti poeti sono morti così?

Lei ha detto: “Speriamo che si capisca che era un grande”.

Ma sì, perché lui è stato massacrato dalle traduzioni. Quelle degli anni ’60, Editori Riuniti, non si possono leggere. Eppure, riuscire a fare poesia della politica… Era un lirico, però un lirico che mette a disposizione la sua anima, la sua straordinaria poesia alla Rivoluzione. Beh, chapeau. Solo Tolstoj aveva fatto un rifiuto così forte di se stesso. I contemporanei non lo capirono. Scriveva “Pro èto”, una delle cose più belle della storia dell’umanità, e gli dicevano “Ah, romanzo sentimentale! Lo leggeranno solo le educande”. Ma lui voleva essere leale, perché era leale. E lo dicono tutti. Leale e generoso, mai detto bugie, mai! Preservatemi dalla menzogna, dice il 9 aprile 1930. Il 14 si uccide. Aveva scoperto la menzogna del potere? No! C’era una dimensione privata che non si riesce a comprendere.

E in traduzione, ancora peggio.

Faceva entrare tutto nella sua poesia, gli echi della strada, le urla, soprattutto il cuore.

Lo accusavano anche di essere borghese.

Se andava a Parigi, si comprava cose belle. E se poi uno ha l’eleganza dentro…

E la voce.

Un basso vellutato, metallico. Con quella voce incantava. La sensualità… ecco un’altra cosa di cui non si parla. Era un uomo sensuale, la poesia fa queste cose. I miracoli della poesia sono tanti. Perfino i versi di propaganda sono deliziosi. Ci sarà stata qualche caduta, ma alla fine scriveva per vivere. Dal 12 febbraio, dopo “Banja”, non lo pubblicavano più.

La fine, per un poeta.

Veri assassini, quelli della Rapp, che avevano il potere letterario. Quante umiliazioni. Ha cercato di combattere dall’interno, dimostrando che certi sistemi non si possono combattere da dentro.

E il popolo?

Neanche il popolo lo capiva. La gente andava soprattutto perché faceva scandalo. E lui se la cavava sempre alla grande. La sua è poesia condensata, una lava, che si raggela appena esce fuori, subito si cristallizza. Era capace di spiegare ai ragazzi verso per verso. E scriveva: “Voglio essere capito dal mio paese,/ E se è impossibile pretesa –poco importa./ Per il paese passerò di sbieco quasi obliqua pioggia”.

Anche da morto non gli è stato risparmiato nulla.

Visto? E poi, per contrappunto, Majakovskij sui francobolli, osannato, e per questo odiato.

Per lei è stato subito amore?

Macché! La mia generazione lo ha detestato perché lo imponevano per il poema “Lenin”, mai per le strofe più belle, mai il primo Majakovskij. C’era un manifesto, molto in auge. Diceva: Vorrei parlare russo solo perché è la lingua di Lenin. E noi: “Vorrei parlare inglese solo perché è la lingua di Lennon”. Majakovskij fu trasformato in poeta di regime post mortem. Stalin è stato terribile in questo. La seconda morte di Majakovskij. Ma io sospetto che, alla fine, voleva una famiglia, proprio come Puskin.

Lei ha scritto due libri rivelatori sui due più grandi poeti del XIX e XX secolo, questo e “Il bottone di Puskin”?

Certo che le coincidenze che sono emerse via via sono terrificanti. Anche se lui è più bambino, meno uomo di Puskin. Non l’ho fatto apposta, l’ho scoperto andando avanti. Ero mossa dalla curiosità. E vado a scoprire che anche lui, come Puskin, vuole affrontare un’altra vita, e chiede a Nora di sposarlo e accetta quello che sta per succedere, perché è una persona leale. Aiuto il mio Paese, i miei capi. Mi rifiutano? Bene, mi metto a fare il borghese. Verranno altri tempi… era convinto che sarebbero venuti, l’idea della resurrezione.

Non proprio comunista.

Lo chiamava il “motore raffreddato dell’amore”. Sull’amore ha scritto versi bellissimi.

E torniamo alla traduzione.

La poesia del XX secolo tiene in sé una ricchezza e una stratificazione lessicale molto difficili da restituire. C’è l’irruzione della strada che cambia tutto rispetto al passato. Poi Majakovskij spezzetta i versi, e noi abbiamo congiunzioni e articoli.

Progetti?

Vado in pensione, lascio l’università. E poi, vorrei tradurre qualcosa, di Majakovskij.

Questo articolo-intervista di Fiammetta Cucurnia a Serena Vitale è stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 22 maggio 2015, alle pp. 128-131.