Messico, 2014: 43 studenti sono sterminati.

Messico, 2014: 43 studenti sono sterminati.

Spariti nel nulla, inghiottiti in una rete di narcos, agenti corrotti e militari. La verità è ancora lontana.

 

“La Lettura” dell’1 di ottobre 2023, supplemento culturale del Corriere della sera, pubblica, alle pp. 53-55, questo articolo di Alessandra Coppola che intervista Carlos Beristain.

 

Tre promesse, pronunciate otto anni fa al primo incontro e faticosamente mantenute fino all’ultimo dossier. “Non tradite la nostra fiducia, ci chiesero i genitori degli studenti scomparsi; diteci la verità, anche quando farà male; e, per favore, non vendetevi”. Carlos Beristain ce lo racconta con le parole esatte, che ha serbato come un appiglio durante l’impervio percorso alla ricerca dei 43 allievi della scuola rurale di Ayotzinapa, inghiottiti nelle trame oscure del Messico la notte tra il 26 e il 27 settembre 2014.

Allora si raccontò quella che è stata chiamata la veridad històrica, una ricostruzione ufficiale che, senza prove né testimoni attendibili, stabilì che i ragazzi erano caduti in una faida tra narcos, infiltrati da una banda rivale ai Guerreros Unidos dominanti. Ma sin dal principio il tentativo di chiudere la vicenda non convinse don Emiliano, don Mario, dona Hilda, né dona Mari e nessuno dei combattivi disperati padri e madri dei giovani desaparecidos. Ci furono pressioni, proteste, appelli. Finché la Commissione interamericana per i diritti umani (organo dell’Organizzazione degli Stati Americani) formò un gruppo di esperti indipendenti, il Giei, e chiamò a guidarlo il medico spagnolo di lunghissima esperienza nelle tragedie del continente, Carlos Beristain, che ora ci parla al telefono a fine missione.

“Abbiamo toccato la verità con la punta delle dita –ammette- ma non siamo riusciti a raggiungerla per le resistenze e la negazione”. Eppure sarebbe vitale per i parenti e per il Paese intero, aggiunge il dottore, perché tra i tanti orribili casi di violenza e ingiustizia del Messico contemporaneo (oltre 100mila scomparsi dal 2007) la vicenda dei 43 di Ayotzinapa è diventata simbolica. “La sua soluzione onesta e senza finzioni sarebbe una leva per la trasformazione dell’intero sistema”. Sarà mai possibile?

L’ultimo rapporto, il sesto, reso pubblico dal Giei alla fine del secondo mandato, lo scorso 31 luglio, parla apertamente di “meccanismi, forme di azione e interessi che limitano le indagini e la conoscenza della verità, di ostacoli all’accesso a livelli più ampi di informazioni”.

Benché il presidente Andrés Manuel Lòpez Obrador (Amlo), in carica dal 2018, ne avesse fatto una bandiera in campagna elettorale e si fosse speso nel 2020 per il ritorno degli esperti in Messico, avviando l’apertura degli archivi, il suo ministero della Difesa non è stato conseguente. E ancora una volta gli investigatori si sono trovati davanti a un muro di falsità.

Già nel dossier numero uno Beristain e i suoi avevano cominciato a svelarle. La sorte dei ragazzi decisa a mezzanotte? Una donna conserva nel cellulare il messaggio del figlio all’1,16: “Mamma, fammi una ricarica urgente”. L’allievo dunque a quell’ora era vivo, e non poteva trovarsi nella zona della discarica di Cocula, priva di copertura, dove secondo la veridad històrica si sarebbe consumato il massacro. Gli autobus sui quali erano saliti gli studenti erano quattro? Gli esperti ne scoprono un quinto, cruciale, visionando un raro spezzone di registrazione delle telecamere di sorveglianza, sopravvissuto alle manipolazioni e ai furti. Soprattutto: è stato un delitto perpetrato dai narcos assieme a un paio di agenti locali corrotti? Il gruppo di Beristain dimostra, grazie alle tracce lasciate dai cellulari, la presenza, ossessivamente smentita a ogni livello, di forze di polizia, da quella urbana a quella federale, assieme a esponenti dell’intelligence e a militari dell’esercito, nella zona della scomparsa dei ragazzi, esattamente quella notte e il giorno successivo.

“Ora abbiamo una faccia migliore –dice uno dei papà al dottore- non felici certo, ma ci avete tolto un peso di dosso, il peso della bugia”. Per quale ragione, però, i ragazzi sono stati sequestrati e uccisi? Che cosa le indagini del Giei sono arrivate a stabilire?

“Innanzi tutto gli studenti entrarono nella cittadina di Iguala (roccaforte dei narcos) non come provocazione, come si era detto, ma per caso”, precisa Beristain. Bisogna ricostruire il contesto. Eredità della Rivoluzione e di un Messico campesino dimenticato dai governi recenti, la Escuela Normal Rural di Ayotzinapa forma alle professioni tecniche agricole i figli (maschi) dei contadini del Guerrero e mantiene una tradizione combattente bollata come di sinistra. Nelle intercettazioni dei militari, i ragazzi sono insultati come ayotzinapos de mierda, considerati dei facinorosi, trattati con sospetto. La sera del 26 settembre 2014 i normalisti cercano degli autobus per viaggiare verso Città del Messico e partecipare alla commemorazione, il 2 ottobre, del massacro di Tlatelolco (la strage degli studenti del 1968). In città arrivano per un equivoco, perché un primo autista li porta alla principale stazione dei bus e lì li lascia. Nel parcheggio gli allievi si rendono conto che ci sono molti mezzi a disposizione, chiamano i compagni, e decidono di partire tutti assieme da Iguala verso la capitale. Non ci arriveranno mai, fermati appena all’uscita dall’assalto di uomini armati.

Il movente è in quella stazione degli autobus, avvertono gli esperti. Spiega Beristain: “Ora sappiamo che ogni venerdì da lì partiva un carico di eroina diretto a Chicago. Era nascosto a bordo di un autobus modificato, all’interno di un vano sul motore”. (La Dea Usa disarticolerà poi la cellula dei Guerreros nell’Illinois). E’ il quinto dei pullman, quello di cui si è negata l’esistenza finché non è apparso in video. L’unico mezzo risparmiato dalla raffica di proiettili e –una volta liberato dai ragazzi- scortato dalle forze dell’ordine verso l’autostrada.

Nel conflitto a fuoco restano a terra 9 morti, 17 feriti, e da subito 43 normalisti mancano all’appello. Che cosa sappiamo della loro sorte? Continua Beristain: “Possiamo dire con certezza che furono divisi in gruppi, che almeno in 17 restarono per un lasso di tempo al commissariato di Iguala; che alcuni furono presi in consegna dalla polizia di una cittadina vicina”. Un collaboratore di giustizia ha raccontato che un nucleo di allievi fu condotto in una casa isolata, ucciso e fatto a pezzi. “I rilievi hanno segnalato colpi d’ascia sul pavimento”. In parte furono condotti in due crematori compiacenti e ridotti in cenere. Ma i corpi erano troppi, il tempo poco e i forni pieni: alcuni cadaveri vennero bruciati, nascosti in sacche e gettati nel fiume San Juan.

In un borsone arenato sulla riva nel dicembre 2014 furono rinvenuti resti del normalista Alexander Mora, assieme a frammenti calcinati irriconoscibili. Successivamente un nuovo sicario pentito ha permesso il ritrovamento delle spoglie di altri due compagni. E i restanti quaranta?

Per arrivare alla risposta manca l’ultimo miglio. Ma è sbarrato. Il gruppo di Beristain sa per certo che esistono informazioni alle quali non hanno avuto accesso. Trascrizioni di intercettazioni, in particolare, che parlano esplicitamente della sorte dei ragazzi. I militari, benché senza mandato, quella notte ascoltavano le conversazioni inequivocabili tra polizia locale e narcos. Del resto, un report sulle collusioni tra Guerreros e autorità locali (l’allora sindaco e la moglie) era già stato compilato dall’intelligence.

Ancora una volta, la Difesa nega. Ma il Giei ne è convinto: “Abbiamo in mano documenti in cui è evidente che esistono conversazioni più ampie di quelle che ci sono state consegnate, perché si fa riferimento a cose che noi ignoriamo, che non abbiamo potuto leggere”. Ne avete parlato con il presidente Amlo? Replica Beristain: “Più volte gliel’abbiamo fatto presente. Ha risposto che dovevamo continuare a chiedere… Per tornare, però, a farsi dire di no”.

Chiuso il sesto rapporto con questa impossibilità di avanzare, il Giei si è sciolto e sono rimasti i familiari a farsi carico della ricerca. Manifestazioni davanti alla sede dell’esercito a Città del Messico, una delegazione di nuovo al palazzo del presidente. Lòpez Obrador appena lo scorso 21 settembre ha ribadito che entro la fine del suo mandato, nel 2024, “sapremo quello che è successo”. Ma la nuova campagna elettorale si avvicina, e il rischio, temono genitori e attivisti dei diritti umani, è che per garantire il passaggio di testimone alla candidata Claudia Sheinbaum, il leader uscente rinunci a opporsi ai militari. Tenuto conto che negli ultimi tempi, anche in Messico, l’esercito sembra avere un peso crescente.

 

Alessandra Coppola                         Carlos Beristain