Nezami, poeta medievale persiano. Gioielliere della parola, secondo Citati.

Nezami, poeta medievale persiano. Gioielliere della parola.

Il suo poema, “Le sette principesse”, è un capolavoro d’immaginazione nobile e grottesca, sensuale, barocca e sublime: narra le vicende del re Bahram e anticipa Shakespeare.

 

In un articolo, apparso sul “Corriere della sera” di domenica 9 aprile 2017, Pietro Citati presenta al pubblico la storia di Nezami di Ganjé, poeta medievale persiano vissuto dal 1141 al 1204 nell’attuale Azerbaigian. Dotato di grande talento lirico, è considerato uno tra i maggiori poeti epico-romanzeschi della letteratura persiana. Le sue opere, in particolare il celebre “Quintetto”, furono d’ispirazione per molti altri autori. Il capolavoro di Nezami, “Le sette principesse”, fu pubblicato dalla Bur nel 1982, con una introduzione dell’islamista Alessandro Bausani (1921-1988), studioso di lingua e letteratura persiana, che fu anche traduttore del testo. Un’altra edizione delle “Sette principesse” era stata pubblicata nel 1967, sempre a cura di Bausani, dall’editore Leonardo da Vinci di Bari.

                                                        Gennaro  Cucciniello

 

Come scrive Alessandro Bausani nella sua bella edizione de “Le sette principesse” (curata per la Bur insieme a Giovanna Calasso), Nezami di Ganjé fu il più grande scrittore della letteratura persiana medievale. Nacque a Ganjé, in Azerbaigian, nell’anno 1141 e vi morì nel 1204. Aveva una vasta conoscenza delle scienze allora studiate nelle scuole superiori: astronomia, medicina, musica. Era un musulmano sunnita con tendenze mistiche, forse discepolo del sufi Faraj Ziniani. Scrisse il “Quintetto”: Khamsè in arabo, in persiano Panj Ganj, cinque poemi a rime baciate, Cinque tesori, tra cui il “Khosrov-o-Shirin”, il “Leila-o-Majnun”, un doppio poema su Alessandro Magno, e “Le sette principesse”, il suo capolavoro; un libro meraviglioso, che appartiene ai massimi testi della letteratura universale.

Il compito di Nezami –egli diceva- era quello di fondere, nella zecca della poesia, oro purissimo. Egli doveva essere il “gioielliere della parola”: il “gioielliere del tesoro del Mistero”; “l’orafo in filatore di questo vezzo di perle, che ha riempito di gemme l’orecchio del mondo”. Le sette principesse era “la Kaaba dei musulmani, la Gerusalemme dei viandanti spirituali, il Chiodo d’oro e il centro della terra”: il vino di Dio si introduceva attraverso l’astrologia celeste. La sostanza del libro era la Perla, che metteva l’uomo in contatto col divino, specialmente nelle ore della notte. “La Parola è come la perla, e il poeta ne è il palombaro”. Ogni suono della perla doveva avere lo splendore e la durezza della pietra: scintillando e conquistando gli sguardi.

Nezami amava i castelli e gli edifici altissimi, che sfidano il cielo, come il palazzo d’argento di Khavarnaq, costruito in cinque anni da un famoso architetto bizantino, maestro di ogni pittura e conoscitore dei cieli, che lo aveva riempito di migliaia di immagini. Quando nacque Bahram, l’eroe delle Sette principesse, nome di un re sasanide, gli astrologi trovarono nelle bilance dei cieli oro purissimo: dal mare era uscita una perla, dal sasso un gioiello. Trovarono un oroscopo vittorioso per grandezza e potenza: l’ascendente era il Pesce, Giove si trovava nel Pesce e Venere era con lui come il rubino con il giacinto; la Luna era nel Toro e Mercurio nei Gemelli e Marte al suo culmine nel Leone. Quando il padre morì, Bahram disse che avrebbe agito dolcemente con i Persiani, “poiché la dolcezza era la chiave di tutto”. “D’ora in poi –aggiunse- mi dedicherò al bene e svuoterò di ogni vanità il cuore, e non commetterò più atti incoscienti ed egoistici. Tutto il regno di Persia è mio tesoro ereditario. Il re sono io, e tutti gli altri miei servi: io sono pieno, gli altri sono vuoti”. Moltiplicò la gioia, la letizia, la fecondità, la ricchezza: la mucca sterile produsse figli, l’acqua ribollì abbondante nei ruscelli. Spalancò le porte dei suoi magazzini, donò i suoi tesori e diede le proprie ricchezze ai poveri e agli uccelli. Dal fondo degli oceani fino al cielo della Luna il suo nome fu simbolo di potenza imperiale.

Bahram diventò il re sacro della tradizione iranica: il re che rinnovava la fecondità della terra, e l’adolescente dionisiaco che godeva la vita nel suo palazzo e cacciava gli onagri nei deserti. Amava i piaceri. Beveva vino: “Se io bevo vino –diceva- perché non dovrei farlo? Così evito di soffrire le pene del cuore”. Amava le fanciulle: godeva con loro i piaceri e le gioie amorose. Quando il vino acerbo ti avrà riscaldato i sensi –gli disse una di loro- ti donerò una coppiera come la luna piena”. Dio era il signore della creazione: Bahram si perdeva in tutte le forme della creazione e così venerava Dio che, per lui come per tutti i musulmani, restava sempre remotissimo e irraggiungibile.

Un giorno, mentre si aggirava nel Khavarnaq, Bahram scorse una stanza chiusa, dove non aveva mai messo piede. Quando l’aprì, vide le effigi di sette principesse, splendidamente dipinte, che discendevano dai sette continenti del mondo: l’India, la Cina, il Kharezm, il paese degli Slavi, l’Occidente, Bisanzio e la Persia. Le sette effigi erano state dipinte da un solo pittore, e ognuna era simile a una cupola celeste. Bahram si innamorò di loro e, da quel momento, andò nei sette padiglioni: la cupola nera di Saturno, dove c’era una principessa nera come il muschio; la cupola di Giove, color di sandalo, cioè rossa, dove c’era una principessa vestita di rosso; la cupola del Sole, dove c’era una principessa vestita di giallo oro; in ogni cupola ogni cosa, dal soffitto ai vestiti, era dello stesso colore, mentre ogni sera Bahram indossava una veste di colore diverso. Le sette principesse gli raccontarono sette storie “colorate”: una tutta nera, una gialla, una verde, una rossa, una azzurra, una color sandalo, una bianca –prodigi di un’immaginazione sensuale, araldica e barocca, sublime e grottesca, nobile e confidenziale, colorata e cremosa, come potrebbe avere un poeta nato dalla congiunzione di Shakespeare, Basile e Dylan Thomas.

La sera di sabato Bahram, vestito di nero, mise le tende nel padiglione nero di Saturno, dove viveva la principessa cinese, che portava una veste nera, e ascoltò una storia nera come il muschio. La domenica si coprì d’oro, prese un calice d’oro, e spargendo oro si recò nel padiglione giallo del Sole, dove intese una storia gialla dalla principessa bizantina vestita di giallo. “Dal giallo proviene la gioia, dal giallo viene il dolce sapore del dolce allo zafferano”. Il lunedì Bahram innalzò il parasole verde: brillava come una lampada verde, indossò un abito verde, il colore del profeta, il colore della prosperità e della devozione, ascoltando una storia verde dalla verde principessa del Kharezm. Il martedì, cuore della settimana, giorno sacro al pianeta Marte, andò nel rosso padiglione di Marte, dove intese una storia rossa dalla principessa slava dai capelli rossi. Il mercoledì, quando il nero firmamento diventò colore turchese, indossò una veste turchese, si recò alla cupola turchese di Mercurio, dove chiese alla principessa di Occidente, vestita di turchese, di raccontargli una storia turchese. Il giovedì indossò una veste color sandalo, entrò nella cupola color sandalo di Giove, dove un’altra principessa vstita di sandalo gli raccontò una storia color sandalo. “Il sandalo giova allo spirito, guarisce l’emicrania, allontana le febbri dal cuore, il calore dal fegato”. Il venerdì Bahram si fece una veste bianca e azzurra: come il firmamento prese il colore del destino; ed entrò nella cupola chiarissima di Venere, dove l’attendeva la principessa bianca e azzurra dell’Iran.

Così i giorni e i colori di Bahram erano compiuti. Non gli restava che abbandonare i sette padiglioni. Andò a caccia. Si diresse verso Dio e si perse in una caverna, dove forse poteva rintracciare il segno di Dio.

 

                                                                  Pietro Citati