Pavese che non volle invecchiare

Pavese che non volle invecchiare

La maturità, la responsabilità, l’impegno. Riscopriamo la sua inquietudine del vivere e il suo straordinario rigore.

 

“Ripeness is all”, “la maturità è tutto”, scrive Pavese in esergo a “La luna e i falò”. La frase, è noto, viene dal “Re Lear” di Shakespeare; ma di rado se ne cita il contesto. Siamo alla fine della tragedia: atto quinto, scena seconda: il conte di Gloucester, disperato dal corso degli eventi, si abbandona a terra per lasciarsi morire. Ma il figlio Edgar, che lo sta assistendo sotto mentite spoglie, lo richiama all’ordine: “Che c’è, ancora cattivi pensieri? Gli uomini devono sopportare / la loro uscita dal mondo come la loro venuta:/ la maturità è tutto. Andiamo”. Si muore soltanto quando si deve morire, come appunto un frutto ben maturo; lasciarsi andare vilmente prima del tempo non è contemplabile. Se tuttavia pensiamo al romanzo – e ancor più alla fine di Pavese- le parole di Edgar usate come epigrafe possono apparire incongrue.

In effetti la questione è più complessa del previsto, e in un magnifico articolo del 1983 (Maturità di Pavese”) Lino Pertile la espone in termini esemplari: “La maturità appare come dea bifronte: meta, traguardo, conquista e d’altro lato termine ultimo, conclusione, fine; da un lato trionfale pienezza, dall’altro vuoto spaventoso, horror vacui (…) Perciò di due cose una: o la maturità non è tutto, o questa maturità ha connotazioni che ci sfuggono”.

Ecco innanzitutto qualche riga giovanile pavesiana dal “Mestiere di vivere”: “La maturità è anche questo: non più cercar fuori ma lasciare che parli, col suo ritmo che solo conta, la vita intima” (6 dicembre 1938); “Maturità è l’isolamento che basta a se stesso” (8 dicembre 1938); “Maturo è chi distingue tra sé e gli altri” (7 febbraio 1939). Qui, come altrove negli scritti pubblici, Pavese promuove il lato positivo del divenire adulti –“il gusto della responsabilità e dell’uso efficiente del cervello e delle mani”, così nel saggio “L’arte di maturare”. Tale gusto era per lui figlio di un’ampia riflessione morale e politica, di indefesso lavoro editoriale, e di un altissimo senso del dovere misto alla fascinazione americana del self-made-man: l’impegno quotidiano come affrancamento dalla minore età. Con il passare degli anni il concetto assume tratti sempre più cupi.

Viene un’epoca in cui ci si rende conto che tutto ciò che facciamo diventerà a suo tempo ricordo. E’ la maturità” (1 ottobre 1944). “La più mite e pacata molle stagione, l’autunno, soppianta la precedente e si stabilisce con sussulti paurosi, temporali enormi, tenebre sul mattino, turbini e stragi di foglie che fan capire quanta violenza costi la maturità” (16 agosto 1947). E ancora: “Maturità (…) Hai anche ottenuto il dono della fecondità. Sei signore di te, del tuo destino. Sei celebre come chi non cerca d’esserlo. Eppure tutto ciò finirà” (20 novembre 1949). L’estate successiva, dopo la vittoria al Premio Strega, Pavese annota esplicitamente di essere “re” del suo mestiere, di aver fatto “tutto”; ma di sentirsi al contempo disperato quanto mai. E’ la penultima voce de “Il mestiere di vivere”, datata 17 agosto 1950. Pochi giorni dopo Pavese si darà la morte: a quarantadue anni.

E’ dunque seguendo l’evoluzione del concetto nei suoi diari che il nodo inizia a sciogliersi. La retorica quasi illuministica e virile dell’auto-formazione incontra con l’incedere del tempo l’aspetto più oscuro del suo pensiero: la tragicità del fato, cui è impossibile opporsi. Nel momento di massima estensione della conoscenza e del potere, nella soglia di massima pienezza –“quel virile tragico istante che è l’equilibrio dell’individuale e del collettivo”- l’essere umano incontra davvero il proprio destino. E per Pavese si trattò di un destino di morte, che presagiva fin dalla giovinezza ed era andato progressivamente accettando. Scrive Natalia Ginzburg nel suo bellissimo ricordo dell’amico: “Si era creato, con gli anni, un sistema di pensieri e di principi così aggrovigliato e inesorabile, da vietargli l’attuazione della realtà più semplice: e quanto più proibita e impossibile si faceva quella semplice realtà, tanto più profondo in lui diventava il desiderio di conquistarla, aggrovigliandosi e ramificando come una vegetazione tortuosa e soffocante”.

Torniamo ora a “La luna e i falò”. Il protagonista Anguilla è certo maturo nel senso comune del termine: quarantenne, grande e grosso, modellato dal viaggio in America, è tornato al paese natio dopo aver fatto fortuna; ma ha pagato il successo con una solitudine che le superbe descrizioni del paesaggio –colline boschi vigne casolari, il microcosmo pavesiano al suo culmine lirico- non mitigano, anzi aggravano. Il ritorno lascia filtrare la luce di un antico paradiso, tuttavia eternamente perduto (giova ricordare di passaggio che è con questo libro –insieme ai tre precedenti- ad avvenire la torsione definitiva del lavoro di Pavese verso la “realtà simbolica”. E l’entrata nel primitivo, divino cosmo dei simboli non può avvenire senza sconvolgimenti).

Il mondo adulto consegna dunque ad Anguilla rispetto, ma non la vera felicità; e così lo strato profondo della biografia pavesiana: un isolamento altero dietro cui si celava un enorme e sempre frustrato bisogno di amore. Ad ogni fallimento corrispondeva una maggiore chiusura, che lo condusse a una crescita artistica rapida e straordinaria, ma che a sua volta lo sprofondava in condizioni ancora peggiori. “Tale conflitto è tragico”, osserva Pertile nel saggio “Pavese, ovvero della solitudine come stile”, “ma non è la tragedia di Lear e Gloucester, i quali riscattano, soffrendo, colpe e difetti, e si trovano in fondo maturi e risarciti del loro dolore, placati dalla morte. La tragedia di Pavese non purifica, non libera, non serve agli effetti del suo problema fondamentale, e lui lo sa”.

Nei “Dialoghi con Leucò” immaginò un Orfeo nichilista voltarsi verso Euridice per frantumare, direi leopardianamente, ogni illusione. “Tu non sai cos’è il nulla”, ammonisce Bacca che lo interroga senza capire. Tu non sai cos’è il nulla: potrebbe essere un sobrio commento agli ultimi giorni dei diari, un’avvertenza al lettore. La maturità è disincanto assoluto: è tutto: fuori di essa non si dà nulla, e di colpo l’epigrafe alla Luna e i falò smette d’essere una citazione innocua, buona per gli esami di fine d’anno, per dischiudere tutto il suo peso autentico.

Il 25 agosto 1950 Pavese spedì un espresso a Davide Lajolo in cui affermava: “Ora non scriverò più. Con la stessa testardaggine, con la stessa stoica volontà delle Langhe, farò il mio viaggio nel regno dei morti”. Lajolo ricevette il messaggio il mattino del 28, quando sui giornali ormai campeggiava la fotografia dell’amico.

 

                                                                  Giorgio Fontana

 

Questo articolo è stato pubblicato ne “L’Espresso” del 26 luglio 2020, alle pp. 68-72