Quando l’Africa era il continente d’oro

Quando l’Africa era il continente d’oro

Altro che secoli bui: dall’Atlantico al mar Rosso, dal Ghana all’Etiopia il Medioevo fu per l’Africa un periodo di civiltà e di splendore. Uno storico sfida i luoghi comuni e l’oblio.

 

Nel “Venerdì di Repubblica” del 7 luglio 2017, alle pp. 98-99, è pubblicato un articolo-intervista di Lara Crinò all’archeologo e storico dell’Africa Francois-Xavier Fauvelle, autore del saggio “Il rinoceronte d’oro. Storie dal Medioevo africano”, Einaudi.

Lo storico inglese Basil Davidson, uno dei grandi studiosi novecenteschi delle civiltà africane, cita nel corso di una sola pagina quattro storici arabi, a riprova del fatto che lo studioso moderno, se vuole rischiarare la nostra ignoranza dell’antica storia africana, è costretto a ricorrere alle notizie fornite dagli arabi, i quali esercitarono in Africa un controllo completo di tutte le vie possibili di comunicazione. Non esisteva alcuna “via della seta” che permettesse agli europei di raggiungere i regni africani passando a est o a ovest dell’universo arabo. Non ci fu in Africa alcuna vicenda storica paragonabile a quella che deriva dalle imprese di Gengis Khan. Il primo cronista arabo, citato da Davidson, è al-Kati: “Il re che governava l’antico Ghana possedeva mille cavalli, ciascuno dei quali aveva il proprio giaciglio, il proprio orinatoio di rame e tre stallieri che si prendevano cura di lui. Il re si chiamava Kanissa’ai ed era uno dei signori dell’oro. Tutte le sere usciva dal proprio palazzo per parlare con i sudditi, ma soltanto dopo che un migliaio di fascine erano state accese in modo da illuminare e riscaldare bene il posto”. Nell’XI secolo un grande geografo ispano-arabo, al-Bakri di Cordova, compilò il suo “Le vie e i regni”, una sorta di gazzettino africano. Scrive: “Quando il re del Ghana dà udienza al popolo per amministrare la giustizia è seduto in un padiglione attorno al quale stanno dieci cavalli dalle bardature d’oro”. Un altro arabo di Spagna, Abu Hamid al-Andalusi, riportava: “I mercanti arabi controllano l’esportazione dell’oro verso il nord e l’importazione del sale verso le calde regioni dell’interno che ne erano del tutto sprovviste. Le sabbie di quel paese contengono oro. I mercanti lo barattano col sale che trasportano a dorso di cammello dalle miniere. Essi partono da una città chiamata Sigilmasa e viaggiano nel deserto come se si trattasse d’un mare, guidati da esperti che si orientano basandosi sulle stelle o sulle rocce che incontrano lungo la strada”.

                                                                  Gennaro  Cucciniello

 

Un affresco dell’anno Mille, staccato dalla cattedrale nubiana di Faras prima che fosse sommersa dalle acque del lago Nasser, con l’immagine di un re nero protetto dalla Vergine. Un resoconto del viaggiatore arabo al-Bakri sul sovrano del Ghana e i suoi cortigiani dai capelli intrecciati con fili d’oro. I tesori sepolti nel monastero etiopico di Debra Damo. L’atlante di al-Idrisi, il geografo di Ruggero II di Sicilia. Un piccolo, meraviglioso rinoceronte in foglia d’oro ritrovato a Mapungubwe, in Sudafrica. Sono fonti storiche e archeologiche eterogenee, “frammenti di un puzzle cui manca la maggior parte dei pezzi”, tessere scintillanti di quel mosaico sconosciuto che è la storia africana tra l’antichità e l’inizio della colonizzazione europea. Un periodo a lungo rimasto oscuro per la storiografia, ma che va rivelandosi come un’epoca di splendore; conoscerlo meglio può arricchire lo sguardo sull’Africa contemporanea, spesso appiattito sulla triade migrazioni-povertà-guerre. A farci da guida è “Il rinoceronte d’oro. Storie dal Medioevo africano” (tradotto da Anna Delfina Arcostanzo per Einaudi), opera affascinante di Francois-Xavier Fauvelle, archeologo e storico dell’Africa, per anni direttore del centro francese di studi etiopici ad Addis Abeba. In una trentina di capitoli che coprono quasi un millennio, dall’VIII al XV secolo, e un’area che va dalle coste atlantiche del Sahara e del Sahel al bacino dei fiumi Miger e Nilo, Fauvelle distrugge la fotografia stereotipata di un’Africa immutabile, “quella delle tribù, lo specchio delle origini”, per dipingere un mondo di carovane, mercanti e regni dimenticati, raffinati scambi commerciali, lingue che si mescolano, culti che convivono e negoziano il proprio potere. Un “formidabile periodo di prosperità” la cui indagine è forse, come spiega l’autore dalla Francia prima di intraprendere una campagna di scavi in autunno, la più grande sfida che un archeologo possa affrontare.

Lei sostiene che studiare il passato dell’Africa è entusiasmante e frustrante al tempo stesso…

Dopo l’indipendenza dei paesi africani, negli anni ’60, il continente è diventato a pieno titolo oggetto degli studi delle scienze umane e sociali. Ma le ricerche più finanziate restano quelle sull’Egitto dei faraoni e sugli ominidi. Pochi si specializzano sull’Africa precoloniale: è un tema molto difficile. Chi si occupa dell’Italia antica, ad esempio, ha a che fare con una documentazione incompleta ma omogenea: sappiamo dai testi dove sorgevano le città, le iscrizioni antiche ampliano le nostre conoscenze, monete e manufatti rafforzano ciò che sappiamo su governanti e dinastie. Con l’Africa non accade nulla del genere, tutto è avvolto nell’oblio.

Perché sono rimaste così poche tracce di questo periodo storico?

In primo luogo, solo poche civiltà africane utilizzarono la scrittura e tennero archivi, privilegiando la trasmissione orale del sapere. Per i secoli che analizzo le fonti scritte europee non contano quasi nulla: abbiamo resoconti in arabo, persino in cinese, e brani del “Milione” di Marco Polo, ma ciò che descrivono deriva solo in parte da esperienza diretta. Spesso gli autori si basano su ciò che hanno sentito dai mercanti, gente solitamente discreta, per ovvi motivi, su itinerari e transazioni, e non troppo interessata ad aspetti come la struttura sociale. Eppure stanno emergendo in modo inequivocabile le tracce della potenza delle civiltà dell’epoca, tanto che possiamo parlare a pieno titolo di “secoli d’oro” dell’Africa.

Quali sono le caratteristiche di questo dorato Medioevo africano, le sue forze propulsive più importanti?

Fuori dall’Europa è un periodo di intense interazioni economiche e commerciali. Anzi direi, provocatoriamente, che il Medioevo europeo è solo una variante regionale di un Medioevo più vasto. In Africa tutto ruota intorno all’oro, agli schiavi e all’Islam. Per cercare oro e schiavi i mercanti arabi, berberi, iracheni, egiziani, persiani attraversano il Sahara, l’Oceano Indiano o il Mar Rosso per raggiungere il Sahel, l’Africa occidentale o le coste orientali, tra Somalia e Mozambico. Queste relazioni commerciali a lunga distanza a loro volta modellano le élite africane, che si trasformano in partner commerciali dei mercanti. Con l’eccezione dell’Etiopia cristiana, in molte regioni l’adesione delle aristocrazie locali all’Islam è un fattore determinante del successo: l’Islam offre un sistema di norme giuridiche e di valori che crea un clima di fiducia negli scambi. Tuttavia per molto tempo non penetra in profondità: la maggior parte della popolazione resta adepta di culti locali e i re presiedono ugualmente alle cerimonie tradizionali e alla preghiera in moschea. Alcuni re sono ottimi musulmani: Mansa Mussa, sovrano del Mali nel XIV secolo, fece tappa al Cairo durante il pellegrinaggio alla Mecca stupendo tutti per la sua munificenza.

La geografia dell’Africa medievale e quella di oggi non si sovrappongono: città importanti sono sparite, alcuni luoghi hanno nomi diversi…

Le città dell’epoca sono quasi tutte scomparse perché erano strettamente legate alle rotte carovaniere e marittime. Quando il commercio iniziò a declinare, a partire dal XVI secolo, furono inghiottite dalla vegetazione o dalle sabbie del deserto, come Sigilmasa, la città marocchina che era il punto di partenza delle carovane che attraversavano il Sahara verso il Mali o il Ghana. E a proposito di geografie non sovrapponibili: il regno del Ghana era nel sud della Mauritania, non nel Ghana attuale. Alla loro nascita, gli Stati africani hanno preso in prestito il passato glorioso e i nomi che lo evocavano per costruirsi nuove identità nazionali.

Conoscere il passato dell’Africa ci aiuta ad avere una visione più chiara del presente?

Credo sia utile ricordare, in un momento di stravolgimenti politici e minacce islamiste, che il malessere dell’Africa non è una fatalità radicata nei geni o in una cosiddetta “mentalità africana”. Ci sono fattori storici che spiegano lo stallo dell’Africa attuale: lo sfruttamento coloniale, le politiche del Fondo monetario internazionale che hanno reso fragili gli Stati, la corruzione delle oligarchie al potere. Allo stesso modo ci sono fattori che spiegano il Medioevo africano. Più in generale, studiare quei secoli è utile per comprendere le aggregazioni sociali. Le società africane sono state molto creative: si sono adattate ad ambienti naturali fortemente condizionanti, molto più di quelli europei; hanno inventato forme originali di coabitazione religiosa e di interazione economica. Questo è l’apporto della loro storia al nostro patrimonio comune.

 

         Francois-Xavier Fauvelle                               Lara Crinò