Referendum costituzionale del 4 dicembre 2016: tutti i motivi per cambiare

Referendum del 4 dicembre 2016: tutti i motivi per cambiare

 

Questo articolo, a firma di Stefano Allievi, sociologo dell’Università di Padova, è apparso domenica 6 novembre 2016 sul “Corriere del Veneto”, supplemento del “Corriere della Sera”. Mi è parso un riassunto efficace e chiaro del confuso dibattito in atto in questi giorni sulla riforma costituzionale.

Aggiungo due notazioni personali: 1- Colpisce una constatazione. A leggere i sondaggi –oggi, prima settimana di novembre- la maggioranza dei giovani e la maggioranza degli elettori meridionali, almeno quelli che andranno ai seggi- sembrerebbero orientati a votare No. Il futuro della nazione e le regioni più povere e meno sviluppate propenderebbero, perciò, a rifiutare il cambiamento e a conservare l’esistente, pur esprimendo –nello stesso tempo- una radicale critica al modello istituzionale vigente. Così, dalla contestazione del sistema si passerebbe -senza alcuna mediazione comprensibile- alla conservazione dello status quo. Sappiamo che l’innovazione, soprattutto se intesa come risposta alla crisi, può generare angoscia, smarrimento, destabilizzazione, (il presente corre troppo veloce), ma sappiamo anche che essa allarga gli orizzonti, apre alle nuove esperienze, si presta a realizzare frammenti di utopia, tutti elementi che dovrebbero affascinare le giovani generazioni e i meno fortunati. Possibile che i giovani preferiscano la tutela museale della Costituzione, la persistenza di istituzioni bloccate e tante volte aspramente criticate rispetto a modifiche razionali e funzionali, frutto –peraltro- di infinite mediazioni e tortuosi compromessi parlamentari, gli unici possibili nell’attuale assetto costituzionale? Possibile che non si accorgano del rischio di essere sequestrati dai professionisti di un falso populismo che ha un chiaro carattere avventurista e reazionario? E’ vero però che questi sono tempi elettorali di emozioni, di rabbia, di “vaffa” e non di razionalità e di convenienza. I cittadini che più disperano della capacità della politica di risolvere davvero i loro problemi tendono ormai a usare il voto per sfogare il proprio risentimento contro chi governa, contro l’establishment.

Sembrerebbe che si sia realizzata una strana e perversa unione di conservatorismo massimalista e di fascinazione masochista, una sorta di godimento della distruzione, un legame stretto tra un processo permanente di agitazione politica e un coriaceo immobilismo di fondo. E’ evidente che qualcosa non quadra. I sostenitori del Sì non riescono a parlare a questi settori cruciali del paese, non riescono a interpretare correttamente le loro ansie- paure- richieste, non riescono a spiegare all’opinione pubblica la necessità inderogabile di stabilità e riforme, lottando contro l’esistente e riformandolo, per evitare il caos e il salto nel buio. Sembra che non riescano, insomma, a saper comunicare che in un tempo veloce come il nostro o la democrazia decide o la democrazia decade. E’ davvero solo questo? Qualche nostro amico più volte ci ha detto che chi governa deve riuscire a non assumere il volto grigio, oscuro, arrogante dell’establishment, a non usare il linguaggio della burocrazia. Ma evidentemente il compito non è semplice: come legare la necessità di avere istituzioni più snelle ed efficaci con la verticalità, la vertigine, i sogni della poesia (come ci suggerisce Massimo Recalcati) e le frustrazioni degli individui? Come unire in uno schema mentale stimolante e positivo il quotidiano e lo straordinario? Ardua questione. Sicuramente questo è il momento di rimettersi in gioco e di capire.

2- Ripeto un’ennesima riflessione sul Pd, il più grande partito della necessitata maggioranza di governo (già nell’aprile 2015 avevo scritto e postato nel mio Sito un articolo, intitolato “Due o tre cose da dire sulla “cosiddetta minoranza” del Pd). Dopo aver verificato nelle elezioni politiche del febbraio 2013 che l’insistere ossessivo sul “modello dell’usato sicuro” –dopo l’esperienza del governo Monti- aveva portato alla non sconfitta e alla non vittoria e all’impetuosa avanzata dei Cinque Stelle, il Pd ha visto il successo della candidatura Renzi alla segreteria del partito. I candidati della Sinistra (Cuperlo, Civati) sono stati nettamente sconfitti nelle primarie del dicembre 2013. Renzi è al governo dal febbraio 2014, su proposta della Sinistra del partito. Dopo il successo alle elezioni europee del maggio 2014 (il Pd al 41%) si è sviluppata una guerriglia continua, soprattutto nelle aule parlamentari, per impedire al Segretario di realizzare il programma con il quale aveva vinto le primarie (in particolare, una legge elettorale che garantisse la governabilità e una legge costituzionale che superasse il bicameralismo perfetto). L’impressione che è stata data, all’esterno soprattutto, è non solo di un partito diviso e lacerato ma di un Segretario con manie dittatoriali, di un usurpatore, di un politico pericoloso per la democrazia. Non a caso sono queste, ora, le parole d’ordine e di propaganda non solo di Bersani ma anche dei Cinque Stelle e di tutto il fronte del Centro-Destra. Così, per ragioni di lotta politica interna, si è dato lo spunto per snaturare e ridicolizzare il profilo riformatore del Pd, un partito riformista, a vocazione maggioritaria, che deve governare e –per farlo bene- deve saper progettare e costruire, in condizioni difficilissime di crisi economica non superata, di malcontento sociale, di grovigli internazionali (l’Europa, le elezioni Usa, l’immigrazione incontrollata, il terrorismo islamista, la polveriera medio-orientale e nord-africana, le conseguenze della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica sul lavoro in Occidente).

L’insistere in una pratica politica che disconosce ogni volta le decisioni della Direzione nazionale, lo sbertucciare le prese di posizione della maggioranza, mai valutando realisticamente l’attuabilità delle proprie e la proponibilità di un’alternativa politica, il rifiutare sempre –avanzando ogni volta nuove richieste- qualsiasi mediazione, la disinvoltura con la quale si rinnegano impegni pubblicamente assunti, è –in pratica- una tattica di lucido logoramento della leadership del partito, una specie di anti-Congresso permanente. Ci sono personaggi farseschi: hanno votato più volte la Riforma in Parlamento e ora gridano alla democrazia in pericolo. Non si può essere difensori di  una pratica di comando indiscussa (come Bersani pretendeva quando era segretario) e teorizzatore di un dissenso anarchicheggiante (che Bersani applica da contestatore). Gianni Cuperlo, con la sua sofferta decisione di firmare il documento della Commissione del Pd sulle correzioni dell’Italicum, ha smascherato l’ipocrisia di chi prima l’ha designato come portavoce della minoranza nella Commissione e poi lo ha disconosciuto, pur avendo egli ottenuto che tutte le richieste fossero accolte (superando il ballottaggio, introducendo i collegi e rivedendo il premio di governabilità).

Gli scienziati della politica e gli storici ci spiegheranno tra qualche decennio quali conseguenze questo referendum avrà determinato nella nostra vita.

                                                                       Gennaro  Cucciniello

Referendum del 4 dicembre: Tutti i motivi per cambiare

Finora il dibattito sul referendum istituzionale è stato in gran parte su interpretazioni ideologiche o su temi strumentali e secondari: colpire o sostenere Matteo Renzi e il governo, dibattere su possibili rinvii e cavilli (come il contenuto del quesito a cui dovremo rispondere: che è lo stesso su cui sia il Sì che il No avevano raccolto le firme).

Molto poco, in proporzione, si dibatte sui contenuti reali della riforma: ma è su questi che saremo chiamati a votare. Il 4 dicembre 2016 si vota per abolire (con il Sì) o mantenere (con il No) un bicameralismo perfetto che esiste solo in Italia, che fa fare a due Camere diverse le stesse cose e che tutti sono d’accordo di abolire. Con il Sì inoltre solo la Camera dei deputati darà la fiducia al governo evitando, come successo varie volte in anni recenti, che due Camere con due maggioranze diverse paralizzassero l’attività di governo.

Si vota sulla diminuzione del numero dei senatori a cento e sulla loro trasformazione in rappresentanti, eletti, dei territori. Essi, non dovendo dare la fiducia, potranno essere più liberi di discutere le leggi di loro competenza.

Si vota sulla possibilità per il governo di avere una corsia preferenziale per i suoi progetti di legge, per poterli discutere ed emendare con tempi certi prima che entrino in vigore, anziché andare avanti a colpi di fiducia come ora.

Si vota sulla possibilità che le leggi di iniziativa popolare, se sostenute da  centocinquantamila firme, debbano obbligatoriamente essere prese in considerazione dal Parlamento, anziché raccolte con cinquantamila ma bellamente ignorate come accade oggi.

Si vota sul fatto che i referendum d’ora in poi, se saranno sostenuti da ottocentomila firme, anziché cinquecentomila come previsto dalla Costituzione (nel frattempo la popolazione è aumentata di venti milioni rispetto al dopoguerra), potranno essere validi anche senza alcun quorum (mentre ci vorrà il quorum, come ora, se le firme saranno ancora cinquecentomila); aumentando quindi, con questi due punti, gli spazi di democrazia dal basso.

Si vota sul ritorno di alcune competenze (oggi concorrenti tra Stato e regioni: ciò che ha portato la Corte Costituzionale a dedicare la metà del suo tempo ai conflitti di competenze tra essi) in capo allo Stato, ma con la possibilità per le regioni virtuose (come quelle del Nord-Est) di concordare bilateralmente un aumento delle proprie competenze in numerosi settori.

Si vota per abolire un organismo inutile come il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL), che la più parte delle persone non sa nemmeno che esiste, dato che non fa nulla, e definitivamente delle provincie, già svuotate di contenuto con la legislazione passata.

E si vota su altre norme minori. Non si vota invece sulla legge elettorale, il cosiddetto Italicum: che non fa parte della riforme costituzionale. Emendata più volte su richiesta e in base alle proposte tanto della sinistra del Partito Democratico che del Centro-Destra, e che potrebbe essere emendata ancora con un’altra legge ordinaria: se solo ci fosse un consenso che non c’è. I fautori del No, d’accordo tra loro sul rifiuto dell’Italicum e sull’idea che ci sia un pericoloso “combinato disposto” tra legge elettorale e riforma costituzionale, sono in totale disaccordo su quale legge elettorale vorrebbero, non sarebbero in grado quindi di formare una maggioranza intorno ad essa, e in ogni caso non hanno intenzione di occuparsene prima del referendum (con il paradossale risultato che chi vota No alla riforma perché contrario alla legge elettorale, se vincesse il No si troverebbe senza riforma ma con la stessa legge elettorale…).

La scelta non è tra diversi progetti ideali di riforma (ognuno di noi ne ha in testa uno che reputa migliore), ma tra non riforma e una riforma frutto del compromesso possibile oggi in Parlamento, votata più volte anche da molti esponenti oggi nel fronte del No: del centrodestra (a cominciare da Forza Italia, sostenitrice della riforma fino allo sgarbo sull’elezione del presidente Mattarella, votato senza consultarla), come della sinistra del PD, che l’ha votata quattro volte per poi decidere che non era d’accordo.

I comitati per il Sì hanno chiesto che il giudizio venisse messo nelle mani dell’elettorato, del popolo (i comitati per il No non erano riusciti nemmeno a raccogliere le firme: il referendum lo votiamo perché l’ha voluto chi è promotore di questa riforma, non chi la avversa). Oggi tocca a quell’elettorato decidere se cambiare le cose o lasciarle come prima).

                                                                       Stefano Allievi