Social Prop. La propaganda nel tempo di Facebook e dei Big Data.

Social Prop. La propaganda ai tempi di Facebook e dei Big Data.

E’ una scienza tutta da riscrivere. Sono cambiati i paradigmi, i filtri, i metodi con cui avviene la persuasione. Tra post-verità e terremoti politici.

 

Questo articolo, di Fabio Chiusi, è stato pubblicato nel settimanale “L’Espresso”, anno LXII, n. 48, del 27 novembre 2016, alle pagine 74-78. Interessante, alla luce degli ultimi avvenimenti. Mi viene in mente quello che nel 1968 diceva McLuhan: “Le menti di un’intera generazione sono state alterate dalla tv, rendendo il pubblico una tribù che crede soltanto in ciò che gli viene sussurrato all’orecchio”. Questo è infinitamente più vero adesso: ogni giorno constatiamo che chiunque può scrivere qualsiasi cosa, senza alcun controllo di verità e qualità. Non trasparenza e intelligenza collettiva ma rimbambimento generalizzato delle masse.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

Fa una certa impressione interpellare i massimi esperti di una disciplina e sentirli vacillare perché un evento ne ha appena riscritto i confini. Accade mentre “l’Espresso” è in conversazione con Russ Castronovo e Jonathan Auerbach, curatori dell’”Oxford Handbook of Propaganda”, la Bibbia del settore. Perché l’evento è l’elezione di Donald Trump a presidente degli USA; e la disciplina, lo studio della propaganda. L’obiettivo è vederci più chiaro, capire se la storia e la teoria di quella nozione, nata con Bolla papale nel Seicento (Propaganda Fide) per “propagare” la fede cattolica nel “nuovo mondo”, ci possa aiutare a comprendere l’era di Brexit, Trump e dei populismi.

“Gli eventi delle ultime due settimane negli Usa”, risponde invece Castronovo stroncando le speranze sul nascere, “hanno messo a dura prova ciò che molti di noi pensavano di sapere su propaganda e comunicazione. Credo che dovremo riesaminare a lungo diverse nostre premesse e conclusioni”. Il docente dell’Università di Wisconsin-Madison aggiunge poi che “l’elezione di Trump ha cambiato il modo in cui pensavamo circolasse l’informazione, su come le persone comunicano, ma anche su come processano e diffondono la propaganda”. Mentre ragiona su quello che definisce un “drammaticio campanello d’allarme per molti studiosi di comunicazione politica e retorica”, l’intero mondo dei media è invece impegnato a chiedersi se Trump è alla Casa Bianca per colpa di Facebook. Delle notizie false che vi circolano, che diventando “virali” fanno di video, memi e post potenti mezzi di propaganda politica. Potenti al punto di portarci nella “post-verità”. In un’era del rapporto tra potere e informazione, cioè, “in cui i fatti oggettivi contribuiscono meno alla formazione dell’opinione pubblica degli appelli emotivi e delle credenze personali”. Lo credono diversi analisti e commentatori politici; per l’”Oxford Dictionary” post-verità è addirittura la parola dell’anno.

Ma per gli studiosi di propaganda questo sa tutto di già visto. Harold Lasswell scriveva qualcosa di simile già nel 1941, parlando di un mondo in cui “un sospetto generale è diretto contro ogni fonte di informazione”, e in cui i cittadini finiscono per “convincersi che non ha senso cercare il vero negli affari pubblici”. Due decenni prima di lui era stato, nel 1921, Walter Lippmann, giornalista e poi padre degli studi moderni sulla propaganda, a coniare la definizione che avrebbe ripreso con così tanta fortuna Noam Chomsky: “fabbricare il consenso”. L’idea è perfettamente attuale oggi, nell’era del sovraccarico informativo e dell’economia dell’attenzione: nel mondo ci sono troppe informazioni, dice Lippmann in “Public Opinion”, e l’uomo vi fa fronte, per natura, coi pregiudizi. Finché non giungono i media a dare loro forma, secondo i loro interessi. Sono i media, insomma, a colmare la distanza necessaria tra evento e pubblico che rende possibile la propaganda. Sono loro, diremmo anche oggi, il “filtro”.

Cosa è dunque successo con Trump? Secondo il filosofo sloveno Slavoj Zizek, la “fabbrica del consenso” si è, molto semplicemente, spezzata. In un ecosistema informativo in cui i media perdono autorevolezza, e chiunque diventa il proprio media grazie a Facebook, Twitter o You Tube, la distanza tra evento e pubblico si azzera. Il “filtro” non serve più: ciascuno ha il proprio, sotto forma di un algoritmo di selezione delle notizie di un social network o presentazione dei risultati di ricerca. Ma c’è molto altro, suggerisce Zizek: “La democrazia”, dice in “How political elites failed”, “Come le élite politiche falliscono”, “non è fatta solo dalle formali regole elettorali. E’ un’intera, spessa rete che detta come viene costruito il consenso politico, con diverse regole non scritte. E ora gli Stati Uniti si trovano a un momento importante, in cui la macchi anche costruisce il consenso si è rotta”. Rotti i partiti tradizionali, di cui Trump rappresenta la negazione. Rotti i media, che lui e i suoi detestano. Rotte le rappresentanze sociali. Rotto il futuro. Rotta la democrazia, che non interessa a oltre 2/3 dei millennial americani. Rotto anche l’algoritmo di Facebook, certo: ma c’è una realtà, fuori dalla “bolla” mediatica, e a volte riaffiora. Quando lo fa a questo modo ne seguono momenti “catastrofici”, dice Zizek, che possono condurre dritti al fascismo. O a Trump. Non è un caso che Mike Cernovich, il maestro dei memi pro-Trump oggetto di un recente ritratto del “New Yorker”, dica: “Se tutto è narrazione, allora c’è bisogno di alternative alla narrazione dominante”.

Molto, infatti, è cambiato. La propaganda, fino a oggi, non era materia di scienziati, ma di artigiani. Anche malvagi, come Joseph Goebbels, ma artigiani. “La propaganda è un’arte che richiede un talento speciale”, scriveva Leo Bogart ancora nel 1995, “non è un lavoro meccanico, scientifico. Nessun manuale può guidare un propagandista”. Eppure nell’era dei Big Data e della profilazione totale quando si legge di propaganda sempre più si leggono numeri, correlazioni, dati. Si contano i profili Twitter arruolati da Isis, o i “bot” che automatizzano la diffusione di contenuti propagandistici sui social media. Si mappano le relazioni sociali online dei propagandisti, e se ne mutano i nodi più grandi in celebrità internazionali. Si contano “like”, condivisioni e pagine viste e le si confrontano per testate tradizionali e siti di disinformazione. Ma si perdono di vista contraddizioni fondamentali. Nel 2011, per esempio, i social media venivano generalmente considerati come promotori di democrazia, non di nuovi autoritarismi. La “Primavera araba” era stata definita “Twitter revolution”. Possibile che sia Trump il passo successivo? Forse entrambe le retoriche sono fallaci: era falso cinque anni fa che fosse Twitter a provocare rivolte democratiche; è falso oggi che la strada del magnate alla presidenza sia lastricata di tweet. Eppure, nota Castronovo, “entrambi i movimenti hanno usato con successo i social media come piattaforma per diffondere le loro idee”.

La questione, in tutti questi dibattiti, resta confinata al dominio del tecnologico. Così si parla sempre più di propaganda, ma come disciplina a sé resta marginale, negli studi filosofici, in quelli storici e di comunicazione. E’ una lamentela che accomuna tutti i classici del settore, negli ultimi quarant’anni. “Per non temere la propaganda dobbiamo capirla”, scrivono gli studiosi. Ma pochi li ascoltano. Per Jason Stanley, di Yale, la spiegazione sta nel fatto che la teoria politica si è a lungo occupata di democrazie liberali “ideali”, in cui –essendo tali- non c’è propaganda. Castronovo ne offre un’altra, più umana e sottile: “Jacques Ellul ha scritto che le persone più influenzabili dalla propaganda sono quelle che credono di esserne immuni”. Per esempio, “la classe intellettuale, che presume di avere la razionalità, l’intelligenza e le abilità analitiche” necessarie a sfuggirvi. Ellul ha tuttavia sottolineato anche che la propaganda ci è necessaria, perché ci procura piacere. Un passaggio cruciale, che oggi lascia Auerbach senza parole: “Avevo sottostimato la maniera in cui Trump è stato in grado di mescolare paura e piacere, facendo in modo che si nutrissero l’una dell’altro quando io li consideravo opposti”. E’ un modo per solleticare gli istinti, per esempio quelli razzisti o islamofobi, e insieme lenire la colpa di desiderare razzismo e islamofobia. Perché quella che molti chiamano “post-verità” condivide alcuni dei tratti del “neo-fascismo”, ricorda Castronovo.

E attenzione ai numeri: Stanley, in “How Propaganda Works”, aggiunge che “perfino se accurate, le statistiche possono avere una funzione propagandistica verso il dominio e l’oppressione, oscurando le narrazioni che le metterebbero in luce”. Tornare al significato delle parole, alla loro storia, è dunque imperativo. I demagoghi che aizzano le folle a mezzo propaganda per accelerare la fine della democrazia ci sono già in Platone e Aristotele. La sostituzione della realtà con una sua versione di comodo a scopi elettorali non viene da Trump ma dalle analisi del totalitarismo di Hannah Arendt. Perfino l’idea che la propaganda debba essere ovunque, per funzionare, che vi si debba essere “immersi” come in una realtà virtuale, non deriva dall’essere sempre connessi: Ellul, altrimenti, non avrebbe potuto scriverne già negli anni Sessanta.

Resta da capire, tuttavia, se questo apparato concettuale sia ancora utilizzabile, in tutto o in parte, o sia invece scaduto. Nell’era in cui si teme che le elezioni finiscano vittima di hacker, come un telefonino; in cui squadre di troll assaltano gli avversari politici fino a intasarne gli spazi di discussione e la pazienza; in cui non solo, come sosteneva Edward Bernays nel 1928, “siamo governati, le nostre menti plasmate, i nostri gusti formati, le nostre idee suggerite in gran parte da uomini di cui non abbiamo mai sentito parlare prima”, ma forse quei manipolatori non sono più nemmeno uomini, ma “bot” (programmi automatici che vengono usati come sostituti degli attori politici; già oggi i bot costituiscono il 50% del traffico online): ha ancora senso, in un’epoca simile, studiare il passato? Rispondere sembra più complesso di quanto vorremmo.

 

                                                                       Fabio Chiusi