Teatro italiano del primo ‘500. Note sulla “Mandragola” di Machiavelli e sui “Dialoghi” di Ruzante

Questo è il testo della lezione, fatta alle classi quarte dei licei linguistico e scientifico dell’Istituto Sperimentale “Stefanini” di Venezia-Mestre nell’aprile del 1997, nel quadro di un progetto pluri-disciplinare di studio sul Rinascimento in Europa. L’esperienza ha consentito di affrontare l’analisi del tema con indagini comparate tra fenomeni coevi delle lingue e letterature europee e –insieme- di avviare un confronto tra cultura umanistica e scientifica. Altra finalità importante era far comprendere agli studenti che il sapere è soprattutto una rete interdisciplinare, che la divisione per materie scolastiche è solo un’opportuna e necessaria articolazione e che lo sforzarsi di rintracciare “segmenti di unità” tra di esse può essere operazione culturalmente e didatticamente stimolante. Riconoscere le differenze e le contraddizioni, come pure gli incontri e le sovrapposizioni, è dal punto di vista metodologico molto produttivo per chi inizia fra impacci e difficoltà a tracciare e a seguire una o più piste di ricerca (da intendersi come il riuscire a trovare risposte molteplici a problemi unitari). Il piano delle lezioni ha previsto per la letteratura francese,”Dal riso di Rabelais alla malattia di Montaigne; per la letteratura inglese, “Influenze della cultura italiana in Inghilterra: acquisizioni, assimilazioni, rielaborazioni”; per la letteratura tedesca, “Lutero, la Bibbia e l’identità nazionale tedesca”; per la filosofia, “Umanesimo e utopie; per la matematica, “Le influenze della scienza araba sulla fisica e sull’astronomia occidentali del ‘400 e ‘500: l’eliocentrismo”; per le scienze, “-La natura domata-“.

 

 

 “Far ridere e far pensare”: il teatro di Machiavelli e di Ruzante, ovvero Politica, Storia e Commedia nel Rinascimento italiano.

Sintesi della lezione

Il mio assunto centrale.

In modi vari, anche ambigui e mediati dalla forma comica, coperti e contraffatti dalle risate degli attori e degli spettatori, è sempre la storia, anzi la politica (i fatti contemporanei) a investire la commedia, a dilatarne i significati, a trasformare un meccanismo di sicurezza e di stabilità (il ridere, il divertirsi in scena e in platea) in un inedito e inquietante Teatro della Crudeltà. ll pubblico che assiste a Firenze alle rappresentazioni della “Mandragola” ha una qualificazione sociale simile a quella del pubblico che segue la produzione cosiddetta “popolare” del Ruzante a Padova (sede di un importante centro universitario) e a Venezia: uguali perciò saranno state le esigenze politiche e culturali di tali pubblici e le conseguenti spinte motivazionali e condizionanti esercitate sugli autori, in un quadro di matura e compiuta realizzazione dei nuovi ideali anti-trascendenti derivati dall’Umanesimo.

“Mandragoladi N. Machiavelli: atto III°, sc. lll, Dialogo tra frate Timoteo e una Donna. Il dialogo avviene in un momento di massima tensione della “fabula”. La scena non è apparentemente necessaria allo svolgimento della trama. Essa é solo ridicola? No. E’ didattica ed allusiva. E’ didattica (mostra in azione il frate su temi apparentemente marginali e di cronaca quotidiana e prepara le terribili prove delle scene seguenti: l’aborto e l’omicidio). E’ allusiva (fa capire, di scorcio, un aspetto banale dell’Italia “ruinata” dalle invasioni straniere). Infine si invita il pubblico a capire in modo più serio e globale il dramma dell’Italia di quegli anni. Frate Timoteo, isolato sulla scena, è l’ingannatore più colpevole di tutti perché agisce sulla coscienza, morale e religiosa, di Lucrezia e si prende gioco persino dei misteri sacri. La commedia ha un primo registro di carattere piacevole, comico, edonistico. Ma, al fondo, ha un livello molto importante di ordine conoscitivo, di formazione politica, pur in un clima di delusione malinconica e sprezzante.

“Dialoghi”: “Parlamento e Bilora”  di A. Beolco, detto Ruzante. Ruzante è attore, oltre che autore. La sua è una tradizione di teatro buffonesco, scrittura in dialetto, personaggio contadino. Beolco-Ruzante: strana, inquietante figura di intellettuale. Conta il peso drammatico delle vicende politiche: la lega di Cambrai, la battaglia di Agnadello, le promesse di Venezia.  Lo scenario è suscitato dal racconto del protagonista, è cioè lo scenario visto dal personaggio, rievocato dalla sua memoria, suggerito dalle sue illusioni. Contrasto tra Venezia, città-culla, e il campo di battaglia ricostruito dai ricordi allucinati del reduce.  Violata la regola fondamentale della commedia, quella del lieto fine. La risata isterica, alienata e l`assassinio attonito, quasi inconsapevole, concludono l’azione comica.

Conclusione.

Machiavelli e Ruzante (pur con tutte le differenze che le diverse situazioni storiche e geografiche comportano) si pongono in un atteggiamento critico e polemico non solo verso le classi dirigenti italiane ma anche nei confronti della storia in generale e giudicano con ironia e misurata pietà gli uomini—manichini che ne sono spesso involontari e irresponsabili attori. La polemica politico-sociale e religiosa raggiunge in molte commedie rinascimentali italiane punte estremamente acute; ma la veste buffonesca di cui sono rivestite e la collocazione giocosa garantita dalla forma-teatro le rende sopportabili anche agli occhi di una censura per tanti versi intransigente e di un potere quasi sempre rigido e assai sospettoso.

La lezione ha richiesto la lettura, da parte degli studenti, di brani delle commedie.

Nota bibliografica. Mario Baratto, ” Scene e figure del teatro italiano”, lezione-conferenza tenuta nel Teatro Municipale “R. Valli” di Reggio Emilia. 1981, Atti, pp. 35-50 : “L’avventura teatrale di Ruzante”. Paolo Bosisio, “Popolarità e classicità nel teatro comico del ‘500″. Principato, Milano, 1975.  Giorgio Padoan, “‘La commedia rinascimentale veneta”, Neri Pozza Editore, 1982. pp. 63-139. E. Raimondi. “Politica e commedia”, Bologna, il Mulino, 1972, pp. 173 -234.

prof. Gennaro Cucciniello

Aprile 1997

 

 

 

 

 

 

 

 

“Far· ridere e far pensare”: il teatro di Machiavelli e di Ruzante, ovvero Politica, Storia e Commedia nel Rinascimento italiano.

Qual è l’assunto centrale che voglio dimostrare?

Sviluppando un`analisi, pur veloce e in superficie, di alcune scene della “Mandragola  e dei “Dialoghi” ci si accorge che in modi vari -anche ambigui e mediati dalla forma comica, coperti e contraffatti dalle risate degli attori e degli spettatori- è sempre la storia. anzi più precisamente la politica (cioè la realtà contemporanea con i fatti molteplici e controversi che porta con sé) che tende a investire l’organismo comico e a dilatarne i significati, a trasformare un meccanismo di sicurezza e di stabilità (il ridere, il divertirsi in scena e in platea) in un inedito e conturbante Teatro della Crudeltà, se mi è permesso di mutuare da una forma più moderna di teatro una definizione. Il pubblico che assiste a Firenze alle rappresentazioni della “Mandragola” ha una qualificazione sociale simile a quella del pubblico che segue la produzione cosiddetta “popolare” del Ruzante a Padova (sede di un importante centro universitario) e a Venezia: uguali perciò saranno state le esigenze politiche e culturali di tali pubblici (non si dimentichi la battuta nel “Prologo” della ‘Moscheta” di Ruzante che si sentiva “pavan e della Talia”, cioè padovano e italiano) e le conseguenti spinte motivazionali e condizionanti esercitate sugli autori, in un quadro di matura e compiuta realizzazione dei nuovi ideali anti-trascendenti derivati dall`Umanesimo. Sulle tavole del palcoscenico, e con funzione esclusiva —almeno apparente- di comico intrattenimento e di spasso buffonesco per un pubblico composto in prevalenza di signori e ricchi cortigiani, possono agire, con il placet della cultura dominante e con il consenso della censura politico-religiosa che non vi ravvisa alcun pericolo concreto per la stabilità delle istituzioni, personaggi di medio e basso livello sociale, persino dei contadini villani, dando vita a situazioni spesso intrise di una fortissima carica di realismo e di una inquietante denuncia politica e sociale.   

“Mandragola” di N. Machiavelli: atto III, sc. III, Dialogo tra Frate Timoteo e una Donna.

La conversazione avviene in un momento di massima tensione della “fabula” (ricordate?) perché Callimaco e Ligurio scoprono, dopo averci molto pensato, che per piegare Lucrezia è necessario l’intervento di frate Timoteo, il confessore della donna. Si noti, innanzi tutto, un paradosso: la scena non è apparentemente necessaria allo svolgimento della trama, perché Ligurio può a rigore incontrare frate Timoteo anche senza che questi esca prima in scena con una donna che non apparirà più nella commedia. Le battute iniziali sembrano irrilevanti, marginali alla trama.(…)..”voi sapete pure quello che mi faceva quache volta”: e qui la donna svela un’ambigua confidenza, di tipo coniugale, col confessore. (.. ”Uh, Nostro Signore”). Il dialogo bigotto ha come un capovolgimento, in una sorta di improvvisa complicità -volgare e sessuale- che si stabilisce tra la vedova e il frate, che sarà ricompensato con un fiorino per dire le messe. Improvvisamente poi, e su iniziativa della donna, ci si mette a parlare di politica (diremmo oggi); naturalmente c’è un gioco più sottile, di tipo osceno, fra “lo impalare” dei Turchi e ciò che probabilmente la vedova rimproverava (o fingeva di rimproverare) al marito, con un effetto comico oggettivamente provocatorio. Timoteo resta solo e osserva, all’inizio della scena seguente: “Le più caritative (…) mele sanza le mosche…”. Arriva allora Ligurio e si avvia un dialogo di audacia estrema anche nell’ambito comico perché il parassita, prima di rivelare al frate le vere ragioni del colloquio, sembra proporgli un affare piuttosto losco (l’aborto di una fanciulla): entriamo in un’atmosfera pesante, copertamente provocatoria.

Forse ora il paradosso è più chiaro. ln una commedia come questa, che si svolge scena dopo scena con una logica implacabile, con un meccanismo che procede secondo un ritmo sicuro, una volta accertati gli elementi in gioco e i rapporti di forza, la scena che abbiamo letta non appare affatto necessaria, è formalmente una digressione, una specie di parentesi. Del resto questa è l’unica scena che introduca un personaggio (la Donna, anonima) in nessun caso coinvolto nella favola: l’unico davvero estraneo a questo meccanismo. Si potrebbe pensare allora che si tratti di un diversivo, di una pausa comica, di un frammento da gustare in sé, per i giochi di parole e per i doppi sensi che il dialogo, dal ricordo del marito al pericolo turco. comporta. ln realtà, a legger meglio la scena, non è che essa susciti un riso tanto immediato: tutto il linguaggio è più sottile e riflesso. Timoteo si limita a registrare quanto gli viene proposto, ad accettare la fastidiosa interlocutrice perché non si può avere il miele senza le mosche, a dire le cose che deve dire in rapporto alla propria funzione di frate. Ma il senso della scena, quello che la rende appunto necessaria e fa sì che non costituisca soltanto una diversione, è altrove. Essa è una scena didattica (nel senso moderno, brechtiano del termine, per cui due personaggi si dimostrano parlando e gestendo, rivelano cioè il senso sociale della loro funzione nella favola), che introduce il frate per mostrare in azione il mestiere del sacerdote guida e corruttore, per dimostrare teatralmente la logica del comportamento fratesco; e prepara cosi la terribile prova della scena successiva, dove Timoteo dovrà affrontare ben altri che una donna fastidiosa e chiacchierona, ma uomini come Ligurio e, con essi, un tranello gravemente insidioso, che esige ben altra padronanza e controllo di sé. E’ quindi un momento scenico che ne prepara uno, seguente, più teso: una specie di climax teatrale, di linea ascendente, che parte da un punto minimo, quasi insignificante, per salire gradualmente verso un momento di eccezionale rilievo ma sempre all’interno della stessa logica.

Ma essa è anche una scena allusiva, pregnante, vale a dire un modo di cogliere di scorcio, attraverso un frammento quotidiano (una donna che esce dalla chiesa col frate confessore: un dialogo apparentemente irrilevante, colto all`angolo di una piazza), un aspetto pure quotidiano ma tipico di una “provincia”, nel senso cinquecentesco, di una terra. l’Italia, “ruinata dalle guerre”  come afferma Callimaco fin dalla prima scena, “dopo la passata del re Carlo”. Una provincia invasa, devastata, che vive in una situazione di disordine, di precarietà, di pericolo e che desta ansietà e preoccupazioni. Certi richiami, certi nessi nel testo della commedia cominciano allora a rivelarsi nella loro logica funzionale. Sicché, per la scena che ci riguarda, anche attraverso un dialogo volgare e comune e una domanda banale fatta da una bigotta sul Turco, Machiavelli collega una sua riflessione generale sottesa alla commedia (esplicitata anche dal “Prologo“), il senso cioè di una degradazione generale, a un’indicazione contemporanea immediata e provocante, se è vero che la domanda della donna corrisponde, banalizzandole, alle preoccupazioni che può avere il pubblico fiorentino e italiano in quel momento. Inoltre, quando di fronte all’incalzare delle scorrerie turche nel Mediterraneo si fa più diffusa in Italia questa paura, il Machiavelli, esprimendola attraverso questa donna. la deride nella sua vacuità e impotenza, e provoca cosi il pubblico per portarlo a una visione più seria e globale di uno stato grave e drammatico dell’Italia che lo riguarda direttamente. Usando lo strumento comico in una scena- distensiva e di raccordo, l’autore invita in realtà il pubblico a porsi seriamente un problema del quale la commedia è solo un sintomo rivelatore.

C’è ancora da osservare, per questa scena, che grazie ad essa frate Timoteo è per un momento isolato, anche sul piano della favola. Egli è l’unico personaggio colto e fissato per un attimo fuori dell’azione, non ancora coinvolto in essa, presentato a sé e in sé: anche questo può essere un modo per l’autore di dare rilievo all’ingannatore più colpevole di tutti, quello che agisce al livello della coscienza, morale e religiosa, di Lucrezia. E’ il personaggio che prepara Lucrezia a una sorta di “sacra rappresentazione” all’inverso: che non sbocca nell’esaltazione della Vergine Maria, della virtù e dell’onestà immacolate, ma invece nella giustificazione dell’adulterio (vedi le parole “sull’Agnol Raffaello, sc. XI dell ’atto III”).

Al di là insomma delle battute e dei gesti, del ritmo di favola divertente, c’è una dimensione politica nella ‘Mandragola”: ma è appunto una politica degradata, quella che sembra pesare sullo stesso Machiavelli quando non può più esercitare la vera attività politica (un tormento cui allude anche nel “Prologo“). Qui l’intelligenza, la perspicacia, l’astuzia, la volontà d’azione sono destinate a portare un giovane nel letto di una donna maritata, non a far conquistare a un Principe uno Stato. In questo senso il personaggio significativo, quasi l’asse di tutta la commedia, è Ligurio, il parassita che ordisce la trama e lascia trapelare nello stesso tempo la lucida coscienza della vanità di tale agitazione. Ligurio è un personaggio di intellettuale: ma un intellettuale da nulla, oggettivamente frustrato, perché l’intelligenza è inutile e vana in un’Italia corrotta, in una società viziata e impotente che si degrada al punto che la politica trionfa solo nel letto di messer Nicia.

Che significa tutto questo? Significa che questa commedia aspira a un’impostazione sistematica che non si esaurisce nella battuta comica ed esige dunque un più alto livello di complicità tra autore e spettatori. Questi ultimi dovranno, certo, divertirsi; tuttavia, finito il gioco, dovranno trarre dal testo stesso gli elementi per capire il senso del tutto (e non importa se questo o quel pubblico esegua o no tale operazione, questo o quel gruppo di studenti reagisca interpretando la “Mandragola” come una allegra pochade, o addirittura un testo pieno di volgarità; importa che la commedia tenda a questo). ll testo apre dunque, sotto una prima superficie di ordine edonistico, un livello di ordine conoscitivo, fondato sul divertimento delle singole parti ma anche sull’intelligenza dell’insieme. E il Machiavelli punta a colpire, attraverso lo scherzo comico, una situazione difficile della borghesia fiorentina (rappresentata in particolare da messer Nicia), una storia di essa che svela, dietro aspetti di angustia provinciale, di corporativismo ottuso ed egoista, di insipienza politica, la crisi in realtà drammatica che essa sta vivendo in Toscana e in Italia: una crisi che coinvolge lo stesso Machiavelli in un dramma che egli sta scontando sulla sua pelle.

 “Diialoghi.· Parlamento e Bìlora”  di A. Beolco, detto Ruzante.

Diverso e quasi opposto è il caso di Ruzante. A differenza del Machiavelli Ruzante parte dall’esperienza diretta della scena, da una prassi di attore-autore. Anzi Machiavelli ha una posizione distaccata, di autore-spettatore, rispetto ai fatti; Ruzante li vive invece sulla scena, da attore, è coinvolto direttamente nell’evento teatrale.

D’altra parte diversa è la tradizione teatrale cui si rifà Ruzante: una tradizione “mariazesca” di mimi e di buffoni da tempo vivace a Venezia e nel Veneto, e inoltre, sul piano della scrittura, una tradizione in lingua pavana (cioè in dialetto padovano rustico), che prima di Ruzante aveva già elaborato satiricamente i tratti di un personaggio contadino, e proprio nell’ambiente goliardico di Padova, nell’ambito dei giochi e dei divertimenti anche umanistici dei circoli universitari patavini.

Eppure tali rapporti tra l’autore e una tradizione regionale cui egli si ricollega non bastano a spiegare la conturbante ambivalenza di un certo teatro di Ruzante, la sua forza indubbia, che ancora oggi resiste alle prove del palcoscenico. Tale ambivalenza è dovuta innanzi tutto alla strana figura di intellettuale che è il Beolco-Ruzante. Un intellettuale cittadino, abbastanza colto, cliente di un ricco proprietario quale Alvise Cornaro, inserito in un ambiente che ama divertirsi col gioco comico, spesso satirico e schernevole, sul personaggio contadino, sentito come essere pittoresco ma inferiore, e sul suo strano duro linguaggio. In questo senso Beolco inizia la propria attività anche per un gusto della contraffazione, per divertimento mimetico, rivestendo i panni di un personaggio ricco di carica teatrale.

Ma non potremmo spiegarci come Beolco passi da una polemica solo ed essenzialmente culturale ad un teatro più impegnativo e rigorosamente costruito se a un certo punto, nella continua e fitta sperimentazione di nuove forme comiche operata da Ruzante, non fossero intervenuti problemi di natura diversa, politico-sociale: il bilancio terribile della guerra provocata dalla Lega di Cambrai, il pericolo grave corso da Venezia, l’aiuto dato a Venezia dai contadini (che furono in parte arruolati nelle famose “cemite”), le speranze economiche e fiscali che Venezia fece balenare ai contadini durante la guerra, la delusione che ne conseguì a pace avvenuta. Ruzante passa dal gioco mimetico sul contadino pavano, dal gusto di immetterlo vitale sulla scena, ad un approfondimento interno del personaggio, che lo porta ad agire sulla scena e a scrivere con la logica del personaggio stesso, e non più con la logica dell’intellettuale che usa il personaggio per divertirsi e divertire gli spettatori. Ed è una logica che viene dalla vita reale, da un`assunzione delle componenti sociali, mentali, culturali, linguistiche proprie del contadino.

Se diamo uno sguardo anche superficiale ai due “Dialoghi” scopriamo, prima di tutto, che quello che muta in essi è uno scenario; o meglio, che il dialogo non presuppone in alcun modo lo scenario delle commedie tradizionali. Esso viene piuttosto suscitato naturalmente dal racconto del protagonista, è cioè lo scenario visto dal personaggio. Il reduce è a Venezia, vorrebbe trovarvi sicurezza e tranquillità ma la città gli è ostile (il reduce è sradicato dal suo vecchio mondo, l’amico Menato lo insulta, la moglie Gnua lo tradisce).

Quando. all’inizio del “Parlamento“, Ruzante entra in scena e dice di essere finalmente arrivato “a ste Veniesie“, in questa Venezia, e spiega come vi è arrivato, dando indicazioni topografiche ben precise (la barca a Lizafusina, la chiesa di S. Maria del Fantin), egli si colloca in una Venezia contemporanea che il pubblico riconosce. E non sempre questa scoperta è piacevole perché Ruzante, parlando della sua fuga dal campo di battaglia, ripercorre a ritroso le tappe più dure della guerra della Repubblica, i luoghi delle sconfitte subite negli anni della Lega di Cambrai, e demitizza e demistifica le false glorie militari di Venezia, vivendole come disertore fuggiasco. Va anzi oltre nella provocazione introducendo, come esempio di uomo che sa scappare al momento opportuno, lo stesso Bartolomeo d’Alviano, comandante delle truppe veneziane: colui che aveva subito la sconfitta famosa della Ghiaradadda, dove Ruzante passa non a caso, trovando un terreno desolato, coperto ancora di scheletri impaludati: “a’ no vivi se no aqua e afocà, sielo e uossi de muorti” (non vidi se non acqua e affogati, cielo e ossa di morti). E’ il campo di battaglia, osservato da Ruzante con l’occhio del contadino. E la sua stessa derisoria vicenda di poveraccio, partito per la guerra per far bottino e che ritorna più miserabile di prima, si ripercuote indirettamente sulla Venezia del pubblico: perché quel pubblico rappresenta quella città che aveva arruolato i contadini, li aveva lusingati con speranze di riforme contro i proprietari feudali, per lasciarli ora abbandonati a se stessi, sbandati e poveri, alla ricerca di ogni mezzo per sopravvivere (con le loro donne costrette a diventar prostitute nella città ingorda). La sconfitta, la delusione, la miseria dei contadini sono in questo caso oggettivamente correlati alle responsabilità della classe dirigente veneziana: ed essa è rappresentata da quegli spettatori che stanno assistendo in apparenza a un “numero” satirico sui contadini. ll meccanismo è ora rigorosamente logico: quanto più la miseria del contadino è ridicola e grottesca, tanto più essa ricade di fatto sulla platea cittadina. Ruzante, alla fine del “Parlamento“, ride, ride. Vive in una verbalità dilagante (parla, parla) e in una risata isterica, pazza. allucinata, che compensa la sua non-storia, che inventa e affabula per resistere alla crudeltà del reale, e in questo modo crea teatro. L’attore, calato il sipario, prolunga ancora nel tempo dei ringraziamenti il gioco della parte; torna in scena ancora trasognato, ancora personaggio e finge di non rendersi conto del pubblico; solo gli applausi lo ridestano alla sua realtà di vita di attore, in un teatro, su un palcoscenico.

Nel secondo dialogo, il “Bilora”, Beolco giunge addirittura a violare una regola fondamentale della commedia, quella del lieto fine, della conclusione felice con la quale la commedia reintegra l’avventura nella struttura civile e sociale. Quale è invece la fine del “Bilora”? ll contadino uccide il ricco e vecchio veneziano usuraio, sfruttatore “dei poveretti“, il quale, oltre ad aver guadagnato sul sangue dei contadini, gli ha anche portato via la moglie Dina e non vuole restituirgliela. E’ reperibile allora un legame di continuità tra il “Parlamento” e il “Bilora”: il primo rappresenta il momento della guerra e la delusione dopo il miraggio della guerra, per il contadino; il secondo rappresenta il dopoguerra, la realtà brutale che si oppone alle illusioni. E la realtà brutale è che i ricchi proprietari, borghesi e aristocratici veneziani, investono capitali nelle campagne, comprano terreni, prestano denaro ad alti interessi con l’usura, aggravano la miseria già insopportabile dei contadini. E Bilora uccide Sier Andronico, in modo attonito e quasi inconsapevole, stupendosi per primo di aver compiuto l’atto che aveva più volte nel dialogo minacciato di fare: “Te l’he gi dito?”.

E’ chiaro dunque che nella complessa carriera e nell’itinerario sperimentale del teatro di Ruzante questi due Dialoghi rappresentano un momento di acuta tensione e di seria riflessione su se stesso e sul roesso mondo”, il mondo rovesciato, il mondo degli oppressori che si intreccia e si sovrappone al mondo naturale del contadino (ricordate il “ProIogo” della “Moscheta”). E Giorgio Padoan, nel saggio citato in bibliografia -pp. 111-116-, commenta un’acida battuta del diarista veneziano Marin Sanudo (“et la sera del 6 febraro 1530 fo fato un bancheto a caxa de sier Antonio di Prioli(…) Fu fato una comedia che nulla valse“) arguendo che furono probabilmente rappresentati i “Dialoghi` del Ruzante suscitando disagio e irritazione tra una parte dei ricchi e importanti invitati; tanto che tre giorni dopo “per pubblico proclama fu renovata la prohibitione circa el recitar et representar de le commedie e tragedie in questa nostra cità, a li giorni preterìti havendosi presentito de alcune tale representatione del che è stà grandemente murmurato in questa cità per le disonestà”.

Conclusione. Machiavelli e Ruzante, pur con tutte le differenze che le diverse situazioni storiche e geografiche comportano, si pongono in un atteggiamento critico e polemico non solo verso le classi dirigenti italiane ma anche nei confronti della storia in generale e giudicano con ironia e misurata pietà gli uomini-manichini che ne sono spesso involontari e irresponsabili attori. In entrambi i casi la realtà sociale e politica investe e scuote l’organismo della commedia, sia pure con tutte le mediazioni possibili, e arriva quasi a un limite di rottura, rischia di modificarlo e persino di travolgerlo. Concluderei perciò sottolineando che Machiavelli e Ruzante hanno sperimentato un inedito e inquietante Teatro della Crudeltà: -cittadino, giocato sul contrasto tra Italia ed Europa, tra società ricca e Stato inesistente, tra borghesia abile finanziariamente e stupida politicamente;   contadino, fondato sulla contrapposizione tra città e campagna, tra Repubblica veneziana abile-ricca-cosmopolita e il grido di aiuto e di protezione, inascoltato, che a lei veniva dai contadini veneti sfruttati e umiliati e in cerca di identità e di riscatto.

                                                                       prof. Gennaro Cucciniello