Trump, gli intellettuali, il partito dei sindaci delle grandi città americane

Trump, gli intellettuali, il partito dei sindaci delle grandi città americane

 

Nella “Repubblica” di venerdì 13 gennaio è stato pubblicato un articolo di Roger Cohen, tradotto da Assia Rosati, dal “New York Times News Service”: Trump e le élite culturali. Sul fenomeno Trump tanto si è scritto in questi giorni che hanno preceduto e che ora seguono il giuramento del nuovo presidente degli Usa ma credo che il giudizio di Roberto Morassut, nel suo articolo sull’Unità del 24 gennaio 2017, sia il più efficace: “Lo Stato nazionale borghese è stato di fatto abbattuto non dal movimento operaio internazionalista ma dalla globalizzazione. In questi ultimi anni il dominio delle scelte economiche, degli stili di vita, della cultura di massa, del profilo morale, dei conflitti militari è stato ed è nelle mani delle oligarchie finanziarie e non esiste la forza di uno Stato o di un sistema multipolare di Stati capace di fare da contrappeso democratico e di condizionare un diverso corso della Storia (…) Trump e i populisti europei risvegliano il fantasma borghese della Nazione lasciato cadere tra i rifiuti dalla grande borghesia straricca e speculativa e raccolto come un’illusoria coperta dalla media e piccola borghesia impoverita e anche dai ceti operai. Trump ha usato con l’istinto di una bestia da denaro il peggio dell’internazionalismo e il peggio del nazionalismo”. Io sono pieno di dubbi di fronte a questa situazione. So però che, per dirla con Michele Serra, bisogna combattere e sorridere coi denti d’acciaio.

                                                                                  Gennaro Cucciniello

Le tensioni economiche negli USA sono insufficienti a spiegare l’elezione di un petulante egomaniaco alla più alta carica del Paese mentre è in atto un’altra guerra, di tipo culturale, che la spiega. Donald Trump diventerà presidente la settimana prossima perché un numero sufficiente di americani ne ha avuto abbastanza del modo di parlare e dell’interazione limitante, riguardosa e politicamente corretta preferita dalle élite liberal delle coste, che sono convinte di detenere il monopolio della saggezza e l’unica chiave d’accesso al progresso.

Le questioni che affliggono l’economia –la disuguaglianza crescente, i redditi stagnanti della classe media, l’emarginazione- non sono sufficienti a spiegare la decisione degli americani di gettarsi in un burrone e affidare il proprio destino a una collezione di miliardari ed ex generali sotto il diktat di uno showman permaloso, che si distingue per “crudeltà e ignoranza”, citando le parole di Garrison Keillor.

Nel suo discorso alla cerimonia di premiazione dei Golden Globes, Meryl Streep si è inserita in questa guerra culturale: era come se lei fosse Hollywood che biasimava la scelta fatta dalle persone. Senza nominare il presidente eletto, ha messo in evidenza la sua crudeltà, espressa dalla derisoria imitazione fatta da Trump di un reporter disabile durante la campagna elettorale. Lo sapete, questo accadeva nel Medioevo. Se provocato, Trump è come un bambino a cui hanno tolto la caramella: fa i capricci. La sua versione del capriccio è un tweet che definisce la Streep come “una delle attrici più sopravvalutate di Hollywood”, una “lacché di Hillary”, affermando anche, in maniera grottesca, di non aver mai preso in giro il reporter, Serge Kovaleski. Trump ha poi concluso con il solito affondo contro “i media molto disonesti”.

La psiche di Trump non è poi un enigma complicato. Anela all’adulazione e non tollera moniti. Trafficando con menzogne e cospirazioni, definisce la stampa –che venera segretamente- disonesta, visto che evidenzia questo aspetto di lui. Si chiama transfert. Presto avrà a sua disposizione armi ben più potenti di Twitter per placare la sua irascibilità e incanalare la sua crudeltà. Difficile che possa resistergli a lungo. E’ ragionevole essere preoccupati. Se il mondo veniva tenuto agli ormeggi dall’America, si prepari ad essere disancorato.

Meryl Streep ha fatto una cosa importante, evidenziando come il bullismo di Trump dia il via libera al bigottismo interiore di chiunque. Per noi si profila un tempo di violenza. Streep ha fatto un’altra cosa importante, affermando che “abbiamo bisogno di una stampa di solidi principi per richiamare il potere alle proprie responsabilità”. Se Trump vede se stesso come la “voce” dell’America, c’è bisogno di ogni voce contraria e che sia forte e chiara. Ma le parole di Streep avranno un qualche impatto sulle decine di milioni di sostenitori di Trump, o rafforzeranno la rabbia di queste persone verso le élite di Hollywood e gli altri centri del liberalismo dogmatico?

Meghan McCain, una commentatrice repubblicana, nonché figlia del senatore John McCain, ha postato su Twitter: “Il discorso di Meryl Streep è il motivo per cui Trump ha vinto. E se la gente di Hollywood non comincia a riconoscere i come e i perché, farà sì che lui venga rieletto”. E non ha tutti i torti. A novembre Trump ha perso il voto popolare per 2,8 milioni di voti. Però, escluse la California e New York, ha vinto per 3 milioni. In sintesi, questa è la storia dell’America. Tirare fuori l’America da questo pasticcio significa riconoscere che New York e la California non hanno la prerogativa sulla verità più di quanto non l’abbiano il Kansas e il Missouri. Là fuori, nel paese armato timorato di Dio, vi sono tanti americani svegli e onesti che, come afferma Mark Lilla della Columbia University, parafrasando Bernie Sanders, “sono stufi e stanchi di sentir parlare dei dannati bagni dei liberal”. Nello stesso importante articolo, Lilla individua nel “panico morale dell’identità razziale, di genere e sessuale che ha distorto il messaggio del liberalismo” la causa principale della sconfitta dei democratici. Egli ha, inoltre, indicato una “generazione di liberal e progressisti narcisisticamente inconsapevoli delle condizioni di vita al di fuori dei loro gruppi”, e più precisamente delle condizioni della classe bianca lavoratrice che ha votato in massa per Trump.

Naturalmente, per tutto ciò Lilla è stato ampiamente diffamato dalla polizia del pensiero che controlla la politica d’identità. Katherine Franke, collega della Columbia University, suggeriva che egli stesse facendo “l’efferato lavoro dietro le quinte di rendere rispettabile la supremazia bianca. Ancora una volta”. Si tratta certamente di un’affermazione oltraggiosa, ma non così inusuale per i nostri tempi. Non è soltanto la Destra alternativa a voler porre sotto silenzio le opinioni discordanti. Trump è una parodia, ma il solo fatto di denunciarlo senza comprenderlo non porta a nulla. Come evidenziato da Michael Wolff su Newsweek, dove i liberal vedono un attacco alla libertà di parola, i sostenitori di Trump vedono i media soffocare le “parole vere”.

Le settimane trascorse dal’8 novembre 2016 hanno dimostrato come Trump disprezzi i suoi sostenitori. Lui vuole “prosciugare la palude” attraverso il nepotismo, vuole dare potere agli emarginati attraverso le coccole ai super ricchi e gettare l’etica dell’America laboriosa fuori dalla finestra di quell’appartamento rivestito d’oro in cima alla sua torre: è stata un’ostentazione rivoltante. Con il tempo crescerà il numero di americani che andrà ad affiancare Meryl Streep. La gente vedrà che è stata raggirata da un attore meschino e superficiale. Ma, per finirla con Trump, i liberal dovranno fare i conti con il fatto che hanno perso di vista il loro paese.

                                                                                              Roger Cohen

 

 

Sul “Venerdì” di “Repubblica” dello stesso giorno, 13 gennaio 2017 è uscito un’interessante intervista che Vittorio Zucconi ha fatto al politologo Benjamin Barber, alle pagine 28-31.

                        Il partito dei sindaci? Ci salverà da Trump

Da New York a Los Angeles, le città daranno battaglia su clima e immigrati. Solo loro possono fermare il nuovo Presidente.

 

Isole di civiltà in un oceano ribollente di barbarie, roccaforti assediate dalle onde sempre più alte della “ignoranza che si fa governo”. Per Benjamin Barber sono le città l’ultima speranza per fermare il collasso delle democrazie occidentali. A poche ore dall’insediamento di Donald Trump al potere, il professore e politologo americano che –dopo aver dedicato al tema delle città “If Mayors Ruled the World” (2013) sta per far uscire “Cool Cities”, mentre in Italia ha pubblicato “Consumati” (Einaudi, 2010)- è oggi l’ascoltatissimo profeta della nuova resistenza metropolitana nata a New York, Boston, Los Angeles, Miami, Seattle, Washington, Chicago, New Orleans, San Francisco. Città che hanno sbarrato le porte a Trump. Oppure come Londra, che ha respinto massicciamente le sirene della Brexit e ha eletto un sindaco di origine pachistana. “Trump ha conquistato la Casa Bianca grazie a un sistema elettorale anacronistico, costruito per un’America di fine Settecento dove il 90% della popolazione era rurale. Oggi 4 americani su 5 vivono nei grandi agglomerati urbani. Trump non se ne rende conto, crede di essere la grande novità del nostro tempo” mi dice Barber, in passato fra i consiglieri di Clinton, quello che ha vinto due elezioni, “in realtà sta veleggiando contro il vento della Storia”.

Ma se viaggia controvento come ha fatto a vincere le elezioni?

E’ la reazione a un fenomeno che spaventa molte persone e che i politicanti più abili e spregiudicati sfruttano: l’illusione della sovranità.

Attorno a questa parola magica, “sovranità”, tanti ancora si raccolgono.

Ma non ha più senso. Le pandemie non rispettano i confini. Il cambiamento climatico, il terrorismo, le migrazioni, l’economia, la finanza, l’informazione nell’era del web sono indifferenti alle frontiere e al mito della sovranità.

Dunque il cambiamento promesso dai nuovi demagoghi è in realtà resistenza al cambiamento?

Il cambiamento è enorme e fa paura. La multietnicità e il multiculturalismo sono fatti compiuti a cui i demagoghi reagiscono cercando capri espiatori.

Lei usa il verbo “reagire”. In sostanza sono dei classici reazionari?

Esattamente. Nessuno ha il coraggio di dire ai disoccupati del Michigan che i loro posti di lavoro se ne sono andati per sempre e che a portarseli via non sono stati i messicani o i cinesi ma i robot. Questo è il messaggio che i progressisti dovrebbero proporre, ma è troppo sottile, troppo complicato.

Secondo i teorici della nuova resistenza urbana al dilagare del populismo, a questo punto dovrebbero alzarsi le mura merlate dei Comuni, un ritorno alle Città-Stato nel naufragio degli imperi…

La città è per propria natura multiculturale e mobile, è il luogo dove si produce cultura, dove si immagina. La stessa parola “civiltà” ha la propria radice nella “civitas”, nella città.

E dunque i sindaci, che sono stati eletti realmente a suffragio universale e diretto, dovrebbero ribellarsi, addirittura organizzare forme di secessione morbida dal nuovo governo di Washington?

Diventerà una forma di guerra, diciamo di conflitto, sempre più aspro, quello fra le città e la nazione, perché saranno sempre più incompatibili fra di loro. Guardi la mappa elettorale: tutte le grandi città hanno votato per i democratici, non accetteranno le imposizioni del regime di Trump. Legga quello che il sindaco di New York, Bill de Blasio, ha detto pochi giorni fa. Se trump ci chiederà di arrestare gli immigrati, resisteremo. Se vorrà imporci un registro speciale per i musulmani, noi non lo faremo. Quanto alla California, che ormai è come un’unica grande città, ha già detto che continuerà nella battaglia contro l’inquinamento e i cambiamenti climatici, che manterrà la politica delle “Sanctuary Cities” (che danno rifugio agli immigrati senza documenti, ndr).

Ma come potranno ribellarsi i sindaci, che dipendono da aiuti e interventi del governo federale?

Ha ragione, per loro sarà molto difficile. Ma dovranno anche rispondere delle loro azioni ai propri elettori, che non sono quelli di Trump. Qui è il Presidente che deve fare attenzione: ogni città ha il proprio esercito, come disse Michael Bloomberg. Da solo de Blasio ha 40mila agenti di polizia, che non dipendono dal governo come in Europa. Le città producono l’80% del Pil e coprono i tre quarti delle tasse: se il governo negasse loro il proprio sostegno, le città potrebbero negargli gli introiti fiscali. Se lo facessero 600 sindaci americani, Trump dovrebbe cedere. Immagini: 600 sindaci che portano il governo in tribunale fino alla Corte suprema, paralizzando la nazione. E questo potrebbe valere per tutto il mondo. E’ per questo che ho fondato il “Parlamento globale dei sindaci” (global-parliamentofmayors.org) che ormai comprende più di 70 città, tra cui Palermo, L’Aja, Cape Town, Delhi, Amman.

Ma alla fine la chiave resta il sistema elettorale, costruito per aggirare la volontà della maggioranza. Potrà mai essere cambiato?

No, perché quelli che dovrebbero cambiarlo non hanno nessun interesse a farlo. Non saranno le riforme, sarà la demografia –che punisce la maggioranza bianca avviata a diventare minoranza- a cambiare le cose.

Come mai Hillary Clinton e i suoi espertissimi consiglieri non avevano capito che il sistema elettorale l’avrebbe castigata e che rischiava molto?

Hillary ha perso per molte ragioni e l’Fbi, con quell’intervento sulle sue email, ha avuto un ruolo decisivo. Anche Bernie Sanders l’ha danneggiata trascinando troppo a lungo la sua campagna. Come pure la candidata verde Jill Stein, che l’ha messa in cattiva luce. Un voto qui, un voto là, e si perdono le elezioni per poche migliaia di voti come in Michigan o Pennsylvania. Ma la vera questione oggi è un’altra: come sopravviveremo a quattro anni di Trump.

Ma in fondo l’elezione di Trump è stato un evento eccezionale.

Anche gli eventi occasionali possono avere conseguenze disastrose. Vorrei però chiedere ai nostri amici europei di non pensare che l’America sia tornata indietro di 200 anni. La vittoria di Trump, costruita da un elettorato poco istruito, disperato, senza lavoro da anni, rabbioso, è stata un’eccezione prodotta da una minoranza di voti, non la rivelazione di una nuova realtà. Per questo vi chiedo di guardare alle città, dove invece resiste l’America più viva.

Qualche cosa di molto simile sta accadendo in Europa.

Nessuno può credere di essere messo meglio di altri, ed è questo il senso dell’interdipendenza. Guardi cosa è accaduto in Gran Bretagna con la Brexit, in Italia con la sconfitta di Matteo Renzi, oppure nell’Europa dell’Est. I fenomeni politici negativi si riproducono, e un dittatore folle in una sola nazione può infettare altre comunità.

Quali danni potrà fare Trump?

Spero e credo non molti, perché il suo essere antistorico significa che le soluzioni che offrirà non funzioneranno e i suoi elettori se ne accorgeranno molto presto. In un anno o due la gente che ha votato per lui vedrà che i posti di lavoro non torneranno indietro e gli si rivolteranno contro. Non si può votare contro la Storia.

Eppure Trump è un uomo della città, è laureato, non uno zotico rabbioso col forcone.

Ci sono coglioni ignoranti anche nella città, se permette la franchezza, e Trump è il tipico esempio di bullo ignorante e stupido, con una visione provinciale di un mondo che non conosce. Nessuno a New York lo ha mai davvero preso sul serio ed è per questo che odia tanto l’establishment.

Siamo dunque al solito disprezzo dei liberal per i cittadini di serie B, alle paure della democrazia?

La democrazia è il voto espresso da una cittadinanza preparata, istruita, informata. Altrimenti, come nelle Primavere arabe, è solo caos.

Questo porta alla carta che accomuna colti e ignoranti, città e campagna: l’immigrazione incontrollata.

Assolutamente. Se immigrazione significa spalancare le porte e permettere a tutti di entrare in qualunque modo, sarà un disastro. Gli Stati Unitri devono introdurre programmi per integrare, istruire, assimilare secondo procedure chiare come avevamo in passato, quando l’immigrazione funzionava. E’ quello che in Europa i governi e le città non hanno saputo fare. Essere aperti all’immigrazione non vuol dire lasciar entrare tutti, a piedi o in barca, ma preparare il terreno per dopo, per quando saranno entrati. Senza soldi per istruire i nuovi arrivati, senza lavoro, l’immigrazione crea soltanto enormi problemi. Non basta abbattere muri e aprire porte, se oltre i muri e le porte non c’è nulla. Ma farlo è difficile. Più comodo è ingannare gli elettori presentando soluzioni facili a problemi complessi.

Tanto facile da far vincere le elezioni.

Se opporremo ignoranza ai problemi del nostro tempo non sopravviveremo. Per questo ho paura di Trump sul breve periodo, perché presenterà al mondo il peggiore degli esempi: se lòa grande democrazia americana elegge un fascista, perché non lo si dovrebbe fare anche in Europa?

 

                                                           Vittorio Zucconi, Benjamin Barber