Viaggio nei monasteri benedettini europei

Cercando l’Europa in un orto Benedetto

“Mi chiedo perché, da nomade, ho deciso di varcare la soglia di un luogo chiuso”. Può un convento racchiudere il senso di un continente?

Questa è la domanda con la quale Paolo Rumiz inizia il suo viaggio di ricognizione e di meditazione visitando alcuni grandi storici conventi benedettini europei. La prima tappa è pubblicata nel “Robinson di Repubblica” del 5 agosto 2018, p. 15.

Lo si studia a scuola: alla caduta della civiltà romana i monaci benedettini riuscirono a integrare con la sola forza della fede e dell’esempio centinaia di migliaia di barbari, Unni, Goti, Vandali, Longobardi, Ungari in arrivo dalle terre germaniche e dalle steppe asiatiche. E noi siamo in allarme, oggi, per i 177 profughi della nave Diciotti. Il diverso allora faceva paura, eccome, ma si sapeva come accoglierlo. I monasteri erano presidi di stanzialità disarmata di fronte a popoli nomadi e aggressivi: li conquistarono con la fede, certo, ma anche con il profumo del pane, la magia del canto, le luci delle candele. Rifondarono l’Europa seducendo lo straniero, non potendolo respingere. L’Europa hanno cominciato a inventarla loro, i monaci di Benedetto 1500 anni fa, e ancora la tengono legata con un filo invisibile ma infinito. Tutto cominciò in quell’Appennino abituato da millenni a risorgere dopo i terremoti (proprio come oggi): tra Norcia, dove nacque, Subiaco e Montecassino, Benedetto creò la sua Regola e fondò le prime comunità di monaci dediti all'”ora et labora”. Nell’Italia inselvatichita dopo la caduta dell’impero romano, furono loro a riprendere a coltivare un territorio devastato, preservare la cultura latina e cristiana e trasmetterla i nuovi arrivati, per barbari che fossero.

Ci si è commossi per l’incendio di Notre Dame ma quel cuore-simbolo dell’Europa è sorto sugli incontri e sulle contaminazioni culturali tra le popolazioni -celtiche, latine e germaniche- che ne furono protagoniste nei secoli passati. Oggi il disprezzo verso lo straniero è usato per incanalare la rabbia sociale verso gli ultimi e tenerla lontana dai demagoghi. 

Gennaro Cucciniello

 

 

Praglia. Padova.

Il vecchio monastero dorme nelle brume d’inverno, ancorato come un bastimento all’ultimo promontorio dei Colli Euganei sulla pianura. Il primo gallo chiama l’alba oltre i bastioni perimetrali; è come se scavasse nel buio. Il canto penetra nel labirinto dei chiostri, nelle cripte, i magazzini, la biblioteca. Mi incammino dalla foresteria per un lungo, freddo corridoio, finché il silenzio si rompe e da lontano arriva il ciabattare dei monaci diretti al Mattutino. Saranno quindici al massimo. Pochi per un edificio così grande. Ma nello stesso istante in Francia, Germania, Spagna, Austria, Polonia, Grecia, Ungheria e altrove, in cento e cento abbazie, mille altri uomini vestiti di nero escono dalle celle per salutare il giorno. Un esercito.

“I cieli narrano la gloria di Dio / e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento”. Abbazia di Praglia, ore cinque e un quarto di un giorno di gennaio. E’ ancora notte, ma è facile svegliarsi prima dell’alba in un posto così fuori dal mondo. Chi non è abituato al silenzio si scopre insonne, in balia a tempeste di pensieri, sospeso nel tempo e nello spazio. Dove sono? Padova è a due passi, ma qui non è Veneto e nemmeno Italia. Praglia è Europa. Lo dicono la vigna sotto il monte, la campana, il profumo del pane, il frutteto, la fattoria degli animali, la radura ben curata che fronteggia la foresta, la curva perfetta dei terrazzamenti. Lo dice la Regola che scandisce le ore e le divide meticolosamente tra preghiera e opera compiuta. L’Ora et labora, il segno di Benedetto, patrono d’Europa.

Praglia, già il nome sa di buono. Una caserma della fede con anima contadina. Mi chiedo perché, da nomade, mi sono deciso a varcare la soglia di un luogo chiuso. Negli appunti rileggo una frase che non avrei mai scritto un anno fa: “La felicità sta nel perimetro”. Il templum dei Romani, il témenos dei Greci. Il confine all’interno del quale il mondo può entrare solo in punta dei piedi. Forse il patto di permanenza (stabilitas in congregatione), che da quindici secoli i benedettini stringono per vivere e morire nello stesso posto, mi indica un’alternativa al frastuono di un mondo globalizzato, che emargina, sradica e mette in moto fiumane di spaesati. Gommoni e nomadismo low cost. Turisti e fuggiaschi, che si incontrano sulla stessa, tragica battigia.

Per tutta la Terra si diffonde la loro voce / e ai confini del mondo la loro parola”. L’accento lombardo di padre Anselmo risuona nella cappella votiva a sigillo del salmo 18 sulla bellezza del Creato. L’abate Norberto gli risponde, i monaci si inchinano, attaccano una nenia su due sole note mentre fuori la foresta si sveglia. Passeri e usignoli, è un crescendo continuo. I luoghi si capiscono di giorno, ma si sentono di notte. E’ l’acustica a svelarli. Che sia tuono o sussurro, acustico è l’atto della creazione. Spirito è soffio, voce, verbo. Sentire (nel senso di avvertire l’essenza) non è una parola qualsiasi, perché si aggancia ai suoni distillati dal silenzio. Ma io non sono qui solo a far provvista di silenzio. Dietro c’è dell’altro. La pena per la mia Europa.

Tutto è cominciato la primavera del 2017, durante un viaggio a piedi sulla linea di faglia dell’ultimo terremoto appenninico. Era una giornata magnifica, noi scendevamo dai Sibillini striati di neve e sotto c’era Norcia, viola nel tramonto. Oltre le mura sbrecciate dal sisma, la città medievale era semidistrutta. Camminavamo tra le transenne, intimiditi e taciturni. Poi si aprì la piazza, con gli edifici seduti su se stessi. La Luna trafiggeva il rosone della chiesa di san Benedetto, di cui era rimasta in piedi solo la facciata. Ma al centro della piazza c’era la statua del santo, intatta, con la scritta “patrono d’Europa”. Fu un tuffo al cuore. Fino a quel momento non avevo minimamente pensato a Benedetto e al suo rapporto con Norcia, il terremoto, l’Europa.

Cosa diceva quel santo benedicente, illuminato dalle fotoelettriche, in mezzo ai detriti di un mondo? Che l’Europa andava alla malora? Ero davanti alle macerie di una grandiosa idea politica? Il messaggio delle rovine sembrava trasparente. Il ritorno degli egoismi nazionali diceva di una balcanizzazione in atto su scala continentale. Ma l’incolumità del santo diceva altro. L’opposto. Ricordava che alla caduta dell’impero romano era stato il monachesimo benedettino a salvare l’Europa, piantando i semi della ricostruzione nel peggior momento possibile, in un mondo segnato da violenza, immigrazioni di massa, guerre, anarchia, bancarotta economica. Qualcosa di simile all’oggi.

La statua diceva soprattutto che il germe della rinascita di un mondo era partito dal cuore appenninico del mio Paese. Da quella dorsale sismica che è il centro non solo dell’Italia ma dell’intero Mediterraneo. Da quel mondo inquieto di Sibille, transumanze e lunghi inverni, che per millenni, dopo ogni distruzione venuta dal profondo, era stato capace di rinascere e che ora, per la prima volta nella storia, viveva un esodo senza ritorno. Abbandonati dalla politica –la montagna non porta voti- i pronipoti di Benedetto diventavano rifugiati, scendevano a valle per morire sulle stesse spiagge dei migranti. Da qui altre domande. Perché quel fulcro di rinascita europea era stato dimenticato dall’Italia? Come si era potuto ignorare un simile messaggio di rinascita?

Oggi cammino per i corridoi di Praglia che si sveglia, nel dedalo dei quattro chiostri, cantine, scalinate e ballatoi dopo aver ruminato questi interrogativi per mesi. Leggo su alcune tombe incastrate nel pavimento la scritta Monacorum cineres e mi chiedo cosa doveva essere questo luogo prima della crisi delle vocazioni, quando formicolava di uomini in nero chini sui loro campi, attenti ai loro alveari, genuflessi nelle laudi, quando l’Europa non aveva ancora confini nazionali e il paesaggio era segnato da un pellegrinare continuo di genti in una rete di cammini, di campanile in campanile, di abbazia in abbazia, in un mondo misurabile, dove umano e natura ancora oggi si danno la mano. Perché questo è Europa. Un mondo coltivato e misurabile, a fronte di steppe e deserti senza fine.

Ma è tempo di dire perché sono qui. Un cortocircuito tipico del viaggio. Una cosa che i cristiani chiamano Provvidenza. Sono stati i benedettini a cercarmi, proprio mentre germinavano le mie ansie e domande sull’Europa. L’abate Norberto mi chiamava nella sua abbazia per un incontro sui “Paesaggi feriti”. Esattamente quanto cercavo dopo le macerie di Norcia. Nessuno più dei benedettini aveva influito sul paesaggio continentale, sul consolidamento dei terreni franosi, l’irrigazione, la diffusione della vite e dell’ulivo, la cura delle foreste, la disciplina della pastorizia. E allora si apriva l’occasione giusta per capire quanto mi stava a cuore. La Regola di Benedetto, con i suoi 73 capitoli, era ancora utile per rilanciare l’Europa e impedire la barbarie? Il monastero poteva essere uno spunto per costruire modelli alternativi alla globalizzazione perversa?

Sembrava impossibile che quel manualetto tascabile in latino e italiano, che i monaci avevano deposto in silenzio sul mio comodino, potesse aver cambiato l’Europa. Eppure era lì, in quella Regola, il segreto di un’avventura prodigiosa che aveva ricolonizzato i territori perduti, fermando l’anarchia e la violenza scatenate dalla dissoluzione dell’impero. Più la leggevo e più vi scoprivo insegnamenti mirabili. La leadership che si esercita attraverso l’ascolto. L’elezione democratica dell’abate. Il prestigio che in nessun modo dipende dall’età. L’apertura ai più giovani. Il rispetto della natura. Il comandamento dell’accoglienza. La gestione assembleare delle vertenze interne, che avrebbe poi generato, nella riforma cistercense, il primo parlamento del continente. La disciplina, ma anche la dolcezza nei rapporti umani. Una modernità sconvolgente.

“Nox et tenebrae et nubila / confusa mundi et turbida / lux intrat, albescit polus…”. Ore 7.30, il canto delle Laudes in chiesa. L’abside non è che la conchiglia delle orchestre, il sacro è il luogo della risonanza che si sposa con la luce del primo mattino dalle vetrate. Mi chiedo perché si è buttato via il gregoriano per importare le chitarre in chiesa. Il canto abbaziale in latino è magnifico, ma qui i monaci sono troppo pochi per fare un coro, e il cattolicesimo, senza canto, è finito. Gli ortodossi sono più avanti, sanno sedurre con i loro bordoni maschili e il celeste controcanto delle donne. I cristiani d’Oriente non hanno preti stonati. I canti cristiani più potenti non li ho sentiti a Roma, ma ad Aleppo più di dieci anni fa. Un mondo finito anche quello. Aleppo e la Siria non esistono più.

L’abbazia sembra navigare nella pioggia. Un’arca nel diluvio, uno spazio di salvezza certificato da secoli, il cuore di un’identità comunitaria regolata nei minimi dettagli. Alle otto la macchina dell’Ora et laboraè già a pieno regime. C’è chi zappa, chi restaura manoscritti, chi sorveglia il vino nelle botti, chi seleziona erbe officinali, chi studia liturgia, chi riceve gli ospiti. L’abate –un uomo massiccio e mite- indossa un passamontagna nero e mi porta fuori per cantine, ex scuderie, ballatoi, cisterne monumentali, loggiati, farmacie, erboristerie, cunicoli dove nell’ultima guerra vennero nascosti ebrei, partigiani e fascisti. Non mi descrive un’architettura ma una struttura funzionale, dettata da una precisa spiritualità. Il pozzo è anche simbolo. L’acqua dono del cielo che diventa vita passando per il sottosuolo.

Stare qui dentro può essere pericoloso. Se ti abitui a una simile armonia, quando torni nel mondo ti senti soffocare. Mi chiedo come faccia questo luogo dello spirito a non farsi contaminare dal nulla, dalla liquidazione dell’invisibile, dalla volgarità e dalle urla che lo circondano. Come resistere al desiderio di blindarsi? Ma se questo fosse davvero uno spazio chiuso, come ha potuto sedurre un laico mangiapreti come me? Non è forse attraverso l’ospitalità che nascono le vocazioni? Devo capire se questo antico perimetro, così come i suoi fratelli in cinque continenti, può essere nuovamente necessario a un mondo che esclude i deboli, brucia risorse e consuma la biosfera. Di certo, a chi è assordato dal superfluo, offre una zattera di silenzio.

Uno va a cercare in Oriente, tra Sufi e Buddisti, solo per tornare all’Europa e capire che qui c’è già la risposta”. In biblioteca padre Norberto si toglie il passamontagna e racconta: “Io riscopro continuamente la Regola. Anno dopo anno, mi certifica la sua utilità. Se accettata col cuore prima che con la mente, essa insegna a edificare e integrare nell’accoglienza, aiuta a vedere la vita come storia di salvezza. La convivialità del refettorio è lo specchio della Chiesa… Benedetto deve aver capito molto degli uomini. Egli umanizza il lavoro e i rapporti sociali come celebrazione della grandezza di Dio”. E qui gli si incrina la voce per la commozione. “La ricerca di Dio è un progressivo entrare nell’amore e nella comunione che Egli ci offre attraverso i suoi segni”.

Dico dei migranti e dell’insofferenza che cresce nei loro confronti. Qualcosa di estraneo alla nostra anima mediterranea. Una mutazione che non è storica, ma biblica. Ritrovo nei miei appunti: “e arrivò il tempo che il cuore degli uomini si fece duro e venne meno in essi anche la pietà verso i bimbi. Essi depredarono la natura senza lasciare nulla ai loro figli, poi lasciarono morire i più deboli. La carità e l’accoglienza divennero reato e la pace una parola senza più senso”. Norberto ha di nuovo gli occhi lucidi: “Qui, se non teniamo di nuovo le braccia alzate per il mondo, rischiamo di sprofondare. Quello che accade intorno a noi ha una dimensione apocalittica”. Sì, devo rimettermi in viaggio, rompere la promessa di chiudere con l’errare narrabondo. Troppe cose si sono messe in sequenza per portarmi qui. Troppe per essere casuali. Devo farmi pellegrino in cerca di Europa.

Cerco un itinerario, ma è cosa ardua. Per via del voto di stabilitas questi monaci conoscono bene solo il loro orto concluso. Giammario Guidarelli, esperto di monasteri con insegnamento all’università di Padova, mi offre una chiave di lettura: “Ogni abbazia è la sublimazione del “genius loci” cui appartiene, quindi è diversa da qualsiasi altra. Il monachesimo è arte di vivere assieme in rapporto a un territorio. Benedetto non fa che regolare tutto questo. Il suo è un manuale di convivenza dentro un ambiente preciso. Per questo Carlo Magno ha appoggiato i benedettini e sul facsimile della loro Regola è costruito il feudalesimo”. Ma precisa: “Attento, i monaci hanno il vincolo di stanzialità, ma sono nati viaggiatori. Il cenobio è sempre il punto di arrivo di un viaggio individuale e collettivo”.

Sì, ma da dove partire in questo immenso arcipelago? Scrivo alla sede centrale romana della confederazione, ma avere indicazioni precise è cosa ardua. Qualcuno definisce i benedettini non un Ordine ma un “disordine democratico”, dove ogni monastero è padrone di sé. Niente a che fare con il Vaticano e il suo assetto piramidale. Per i benedettini il centralismo è demoniaco. Comincio a riportare sulla mappa d’Europa nomi di abbazie mai sentite prima. Reichenau in Germania. Glenstal in Irlanda. La Pierre-qui-Vire in Francia. Pannonhalma in Ungheria. Ma anche nomi notissimi: Montecassino, Mont Saint Michel, Westminster. Si riparte. Benedetto, aiutami a narrare i tuoi luoghi.

 

                                                                       Paolo Rumiz

 

Le dodici tappe. Praglia (Veneto): Incontro con la Regola. Ottilien (Germania): La santificazione del lavoro. Viboldone (Lombardia): L’accoglienza. Muri Gries (Alto Adige): Il vino evangelizzatore. Marienberg (Alto Adige): Il tempo e la luce. San Gallo (Svizzera): La scrittura e la memoria. Citeaux (Francia): Il silenzio. St. Wandrille (Francia): La leadership attraverso l’ascolto. Orval (Belgio): La convivialità rituale. Niederalteich (Germania): Il canto. Altotting (Germania): Pellegrinaggio. Pannonhalma (Ungheria): La terra. Norcia (Umbria): La “stabilitas”, cioè l’adozione di un luogo per la vita.