Amelia Rosselli (1930-1996), “Nel nome dei padri”

Amelia Rosselli (1930-1996), “Nel nome dei padri”, 1967

 

La severa vita dei giustiziati rinnoverava

la scoperta di un abisso che era e non

era il loro disinteresse ma una cosa

ben più sicura: la loro costanza, la

loro incostanza, il loro regime feudale                                             5

e le cagnotte tenute al laccio. La costanza

di questa loro interessata fedeltà che

era fedeltà tout court, quella loro

fedeltà a speranze perché venissero

deluse, quel loro sperare! così tragici                                                           10

nell’immedesimarsi nella tragica farsa.

 

Un gioco o un altro, una carestia o

un’altra, un gioco di circostanze o

un altro, una fama mondiale o un dovere

obbedito – il resto è da cancellarsi                                                     15

sì che il resto non appaia più fra le

liste degli annegati, i perseguitati

i rimpianti e le loro doleanze.

 

Cara vita che mi sei andata perduta

con te avrei fatto faville se solo tu                                                      20

non fosti andata perduta.

 

da  “Documento”, 1967

 

Partiamo dai tre versi finali, forse aggiunti in un secondo tempo ma in realtà conclusione necessaria e straziante vertice del testo. “Cara vita che mi sei andata perduta”: l’aggettivo epistolare-leopardiano e il dativo etico contribuiscono al tono di familiarità affettuosa; che segna però anche una violenta disappartenenza, come se la vita non fosse consustanziale all’io ma apparisse una presenza scissa con cui fare i conti. Non mediante la vita, ma accompagnandosi ad essa, la protagonista avrebbe “fatto faville”: nell’espressione più che colloquiale è impossibile non intravedere un barlume di autoironia. La vita è andata perduta e non c’è più rimedio: non si sa nemmeno quando e come sia successo, eppure mancava poco, “se solo…”; mancava poco e mancava tutto –non resta che il mesto sorriso di chi ripensa alle smodate ambizioni giovanili, di danzare e bruciare nel mondo. “Se tu non fosti”, palese sgrammaticatura al posto di “fossi”; volontaria o no? La lingua scivola per eccesso di passione, sostituisce al modo dell’ipotesi quello della certezza.

Concepita nel confino di Lipari, nata a Parigi, emigrata con la madre inglese a Londra, a otto anni poi trasferita a New York, la Rosselli vedrà l’Italia solo dopo l’adolescenza; il suo trilinguismo infantile (italiano/francese/inglese) diventerà il bilinguismo (italiano/inglese) di tutta una vita. Pasolini, che la lanciò come poetessa, insisteva sulla sua formazione cosmopolita (lei precisava “ero una profuga”); lui chiamava “lapsus” le sue devianze verbali ma lei ne rivendicava la piena consapevolezza. Al primo verso della nostra poesia l’inesistente “rinnoverava” è un composto ottenuto da “rinnovare” (o, dantescamente, “rinnovellare”, con allusione a un dolore) mischiato ad “annoverare”: come se il verbo significasse “rinnovare passando in rassegna”.

Arriviamo così alla parte più oscura del testo, quella che giustifica la desolata constatazione finale: perché la vita è andata perduta? A causa del peso, si potrebbe anticipare riassumendo, che i morti familiari hanno esercitato su di lei. I “giustiziati” sono il padre Carlo e lo zio Nello, assassinati a Parigi in un agguato fascista; ma più che la morte conta qui la loro “severa vita”, che è stata tutta un inno alla “giustizia” (Giustizia e Libertà, si chiamava il movimento fondato dal padre). La nonna paterna, Amelia come lei, era stata per la nipote il simbolo della “giustizia assoluta”; l’abisso che quel ricordo rinnova è la mancanza affettiva che l’altissima moralità parentale ha scavato nel cuore della bambina sballottata dagli eventi: “di mio padre”, dirà la Rosselli in un’intervista, “resta in me un senso di non corporeità”. “Disinteresse” (v. 3) è parola ambigua: allude all’impegno politico disinteressato, senza tornaconto personale, ma anche alla mancanza di interesse per i figli da parte di un padre troppo impegnato. “Era e non era”, “costanza / incostanza”, “disinteresse /interessato”: nella mente dell’adulta tornata bambina il contegno dei grandi ha la vaghezza di un sogno –ma è anche lacerata coscienza che quegli eroi vivevano di illusioni romantiche: fedeli a speranze che masochisticamente volevano perdenti, attori tragici sprecati nella tragica farsa del fascismo. La passione è lucida e ingiusta, esagera e teatralizza: immagina prigionia e confino come un medioevo con carcerieri che hanno cani al guinzaglio (le “cagnotte” sono un’altra parola inventata, forse per attrazione dell’antico “cagnotto”, cioè sbirro).

La seconda strofa è una carrellata sulla propria vita all’ombra dei padri: il gioco (che è recita del destino, sia “jouer” che “play” significano anche “recitare”), le difficoltà economiche, la fama e l’obbedienza coatta –elenco fatto con approssimazione e fastidio ma col deciso rifiuto a star chiusa nel ruolo di vittima. Le “doleanze” dei “perseguitati” sono un francesismo per “lamentele”, ma è ovvia l’allusione ai “cahiers de doléance” che nel 1789 scatenarono la Rivoluzione francese. Gli ultimi tre versi, come abbiamo visto, segnano la frattura insanabile tra quello che avrebbe potuto essere e ciò che è stato; ma l’intera produzione della Rosselli è dominata dal desiderio incoercibile di una storia “altra”, irrealizzabile e impossibile –storia, non solo biografica ma pubblica, la reale (sempre delusa) possibilità di una rivoluzione.

Quel che la rende struggente è la sincerità indifesa ma sempre battagliera; la capacità di afferrare il linguaggio sul discrimine mobile tra conscio e inconscio, là dove le verità più maleducate vengono a galla scuotendo l’io e mettendolo ogni volta in pericolo. “Documento” nasce come canzoniere amoroso (con un temerario riferimento a Petrarca); come si inserisce nel canzoniere questo corpo-a-corpo coi padri? L’amore non corrisposto è per Renato Guttuso: uno dei tanti uomini più anziani di lei (insieme a Carlo Levi e Mario Tobino) di cui la Rosselli via via si infatuava. Questo incesto non / si ha da fare”, scrive in un’altra poesia della raccolta. E in una dell’anno precedente, poi non inclusa in Documento, si era così rivolta ai padri: “vi amo vi venero e vi riverisco / vi ricerco in tutte le pinete / vi ritrovo in ogni cantuccio / ed è vostra la vita che ho perso”.

     Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 23 novembre 2014, p. 56