Orazio (65 a.C. – 8 a.C.), “Le infedeltà rinfacciate”
“Finché ti piacevo, e nessun giovanotto
mi preferivi per passarti le braccia
intorno al collo bianchissimo,
son stato più beato del re di Persia”. 4
“Finché non ti sei infervorato
di un’altra più di me, e Lidia non veniva
dopo Cloe, ero la rinomata Lidia
più famosa di Ilia Romana”. 8
“Ora la tracia Cloe è mia regina,
conosce dolci ritmi e sa suonare la cetra;
per lei non avrei paura di morire
perché il cielo la conservi, anima mia”. 12
“Brucio d’amore ricambiato
per Calaide, figlio di Ornito di Turi;
per lui sarei disposta due volte a morire
perché il cielo lo conservi, il mio cucciolo”. 16
“Ma se l’antico amore tornasse
riportando al giogo di bronzo i separati,
se la bionda Cloe fosse licenziata
e la porta si aprisse alla già respinta Lidia?” 20
“Anche se lui è più bello di una stella,
e tu più leggero di un sughero,
più fumantino dell’Adriatico in burrasca,
con te vorrei vivere, con te volentieri morirei”. 24
“Donec gratus eram tibi
nec quisquam potior brachia candidae
cervici iuvenis dabat,
Persarum vigui rege beatior”. 4
“Donec non alia magis
arsisti neque erat Lydia post Chloen,
multi Lydia nominis
Romana vigui clarior Ilia”. 8
“Me nunc Thressa Chloe regit,
dulcis docta modos et citharae sciens,
pro qua non metuam mori,
si parcent animae fata superstiti”. 12
“Me torret face mutua
Thurini Calais filius Ornyti,
pro quo bis patiar mori,
si parcent puero fata superstiti”. 16
“Quid si prisca redit Venus
diductosque iugo cogit aeneo,
si flava excutitur Chloe
reiectaeque patet ianua Lydiae?” 20
“Quamquam sidere pulchrior
ille est, tu levior cortice et inprobo
iracundior Hadria,
tecum vivere amem, tecum obeam libens”. 24
dalle “Odi” (III, 9), 25-23 a.C.
E’ una poesia a botta e risposta: un canto amebeo, o un “contrasto”, o una tenzone a dispetto. Due ex amanti si rimproverano le rispettive infedeltà, fanno finta di essere presi da altri amori per ingelosirsi a vicenda, salvo riconciliarsi alla fine. Un motivo che sembra tagliato apposta per la poesia popolare, ma qui è evidente che a trattarlo è un letterato di gran classe. Sono sei strofe di quattro versi ciascuna accoppiate due a due, la prima pronunciata dall’uomo la seconda dalla donna; le prime quattro si rispondono puntualmente negli inizi (donec… donec; me… me) e al quarto verso (vigui… vigui; si parcent… si parcent). Ma le ripetizioni sono ben più estese e frequenti, dettate dalla psicologia e dalla tecnica del rinfaccio. Se l’uomo dichiara di esser pronto a morire per consentire che la fiamma del momento gli sopravviva, la donna rincara la dose, lei per il suo bambino saprebbe morire due volte (vv. 15-16); quel “puero”è una stoccata all’uomo che evidentemente non è più di primo pelo, tant’è che già all’inizio si lamentava che lei si facesse abbracciare da un “iuvenis” (v. 3) –non solo giovane, rilancia lei, ma proprio ragazzino. Lei però è più coraggiosa: lui alludeva a un giovane non meglio identificato, mentre lei fa il nome della rivale, Cloe; a quel punto lui ammette ebbene sì, è proprio Cloe, e tu sentissi come canta. Dice da dove viene e allora la donna del suo “puer” declina intere le generalità, non solo la patria ma la famiglia. E’ l’uomo il primo a cedere, ma col sorriso trattenuto di chi presume già una risposta positiva: la “bionda” Cloe (v. 19) è subito relegata al ruolo di passatempo –l’antico amore è certificato nientemeno che da una dea: è lei, la “prisca Venus” che torna e ormai si può anche scherzare sulla pesantezza del giogo. La donna non cede subito, la sua ultima quartina comincia con una concessiva (quamquam v. 21, benché) e con un’estrema frecciata: quel toy boy è bello come il sole, tu invece… Con delicatezza femminile non continua secondo logica, “tu invece sei brutto e vecchio”, ma si sposta sul carattere: sei inaffidabile e irascibile. Nell’ultimo verso gli dichiara finalmente quel che lui cercava fin dall’inizio; con una solennità iterativa che non sembra nemmeno più scherzosa: vorrei vivere e morire con te.
“Più irascibile dell’Adriatico agitato” (v. 23): per Orazio, nato a Venosa al confine tra Basilicata e Puglia, più che un paragone esornativo è una firma. E’ l’Adriatico della sua infanzia modesta, è lì che sente di aver maturato la grinta che gli ha fatto scrivere gli epodi. Un “contrasto” non dovrebbe essere autobiografico, la sua essenza teatrale lo vorrebbe oggettivo; ma qui non c’è dubbio che l’uomo del testo sia Orazio stesso. Quando Lydia si vanta, sotto le apparenze del rammarico, di essere stata “più famosa di Ilia” nel periodo che stavano insieme (Ilia era la mitica madre di Romolo e Remo), allude alle altre poesie in cui Orazio l’aveva nominata. Questa Lydia è una donna libera com’erano in Grecia le etere o come saranno a Venezia le “cortigiane oneste”: mantenute dagli uomini ma con diritto di scegliere, abbastanza colte per apprezzare la cultura e magari disposte a una convivenza anche lunga, sia pure non sancita per legge, se ne vale la pena. Su una donna di simile condizione Properzio ci è diventato matto di gelosia. Orazio non è il tipo, arrivato intorno ai quarant’anni sa che l’amore è un gioco tenero da giocare con ironia. Più che nelle celebri odi sul vino e sulla tranquillità della campagna, o sul “carpe diem”, l’equilibrio oraziano si rivela in questa squisita galanteria cittadina. Nei regimi fortemente centralizzati e non democratici si sviluppano la cura e le finezze del privato; così è nella Roma di Augusto, così era stato nei regni alessandrini. Proprio alla poesia alessandrina si rifà Orazio: i vv. 6-8 riprendono un distico di Asclepiade, e la preziosa strofa asclepiadea quarta (due versi brevi, detti gliconei, alternati a due versi lunghi, detti asclepiadei minori) è il modello metrico del nostro testo. “Basso e obeso” lo descrive Svetonio; “ti manca la statura ma non la pancia” lo coglionava Augusto. Ma le donne non si catturano solo col fisico. Lui è per la passione moderata e più che Epicuro conta la saggezza personale. La sua vera passione sono le parole: la capacità di disporre le parole garantisce l’unico vero possesso. Non stupisce che tra le molte imitazioni moderne le più riuscite siano quelle settecentesche di Fantoni e Rousseau, e di un romantico innamorato del ‘700 come De Musset; la si potrebbe immaginare tradotta da Metastasio e musicata da Scarlatti, con aggiunto duetto finale in cui le voci si sovrappongono. Leggerezza che non esclude il sentimento: quel “morirò con te” è commovente proprio perché nessuno dei due amanti ci crede.
Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 8 giugno 2014, p. 54