Antonio abate, miracoloso santo antivirus

Antonio abate, miracoloso santo antivirus

La parabola dell’eremita, fondatore del monachesimo cristiano e protettore degli animali. Novello Prometeo e padrone di ogni focolaio, è invocato contro le infezioni.

 

Questo articolo di Marino Niola è stato pubblicato nel quotidiano “La Repubblica” di venerdì 14 agosto 2020, a p. 31.

 

E’ l’antivirus fatto santo. L’asceta che brucia tutte le infezioni perché comanda al fuoco come un signore degli elementi. E’ Sant’Antonio Abate, il Prometeo cristiano. Che ruba il fuoco ai diavoli e lo dona agli uomini, intirizziti dal freddo e divorati dalla fame. Ad aiutarlo nell’impresa c’è un maialino, che lo accompagna sempre come se fosse un cane fedele. La bestiola corre all’impazzata fra un girone e una bolgia seminando lo scompiglio nell’Inferno e tirandosi dietro un nugolo di satanassi. Col risultato di smarcare Antonio che fa centro a botta sicura. Infilando il suo bastone di ferula in uno degli infiniti falò che ardono in quel tristo luogo. La ferula, che è lo stesso legno del mitico bastone di Prometeo, ha il midollo spugnoso e conserva le scintille senza farle divampare. Così i demoni non si accorgono dell’inganno e restano cornuti e mazziati. Una volta tornato al mondo, il benefattore dell’umanità fa piovere le faville dappertutto. Da allora diventa, nell’immaginario occidentale, il padrone di tutti i focolai. Di quelli domestici cui ha dato inizio. E di quelli epidemici cui mette fine.

In verità, il santo le ustioni infernali le ha patite sulla sua pelle, proprio come le bruciature delle malattie ulceranti, di quelle infiammazioni che lasciano il segno. Perché Antonio, vissuto in Egitto fra il secondo e il terzo secolo dopo Cristo e fondatore del monachesimo, è un eremita che ama meditare nella solitudine del deserto, ma viene continuamente tentato dal Maligno, che ne inventa una più del diavolo per indurlo ad abbandonarsi al fuoco delle passioni carnali. Ma l’uomo di Dio spegne ad uno ad uno gli ardori malsani, anche se esce bruciacchiato e malconcio dalla lotta contro il male.

Così lo raffigura il visionario Hieronymus Bosch nelle Tentazioni di Sant’Antonio del Prado. Un capolavoro allucinato dove il vecchio dalla barba bianca è ripiegato su se stesso come per ripararsi dalla gragnuola di colpi sferrata dal demonio. Ed è proprio l’esperienza vissuta del male, che Antonio ha sofferto e sconfitto, ad immunizzarlo. Trasformando la sua figura in una metafora terapeutica incarnata, nella personificazione di un vaccino celeste, nel primo mistero doloroso e luminoso di una teologia medica. Come sentenzia nel ‘400 il Concilio di Costanza, l’anacoreta che “ha consumato la sua vita per spegnere il fuoco della concupiscenza, dopo la morte ha il potere di estinguere il fuoco terribile della malattia”. Come dire che dove c’è Antonio c’è promessa di guarigione. Non è un caso che proprio dalla traslazione delle sue reliquie da Costantinopoli a Motte St. Didier in Francia, oggi St. Antoine-L’abbaye, nasca nel 1095 l’Ordine ospedaliero dei Canonici di Sant’Antonio, conosciuti anche come Cavalieri del fuoco sacro. Che hanno come mission la cura del fuoco di sant’Antonio, oggi identificato come l’Herpes zoster. Ma conosciuto in precedenza anche con altri nomi incandescenti. Ignis gehennalis, cioè fuoco infernale, forse con riferimento alla saison en enfer, come avrebbe detto Rimbaud, di Antonio e del suo maialino.

Una drammatica testimonianza del quadro clinico della malattia è quella dell’abate Uspergo, che nel 1099, dopo aver osservato molti ammalati di quello che egli definisce ignis invisibilis, scrive che gli sventurati: “come toccati in ogni parte del corpo da un fuoco invisibile, soffrono atrocemente e irrimediabilmente di un bruciore penetrante e insopportabile”. Secondo un grande storico della clinica come Ernest Wickersheimer, il termine stesso ignis fa capire che si tratta di patologie che provocano bruciature e le cui lesioni, rosse o nere, evocano rispettivamente i residui di una fiamma che arde e che consuma. In effetti, il fuoco di Sant’Antonio è stato adoperato in diverse epoche per definire un ampio spettro di patologie ignee. Prima fra tutte l’ergotismo, una forma di intossicazione micotica provocata dall’ergotina contenuta nella segala cornuta usata nella panificazione. La sostanza, oltre a bruciore e vesciche, provoca freddo e visioni allucinatorie di fiamme e creature mostruose. Con lo stesso termine però ci si riferiva anche all’erisipela –dal greco erysipelas, pelle rossa- un’infezione acuta con interessamento linfatico del derma. E in tempi più recenti, all’Herpes zoster, malattia cutanea di origine virale, legata, come le altre due, ad un abbassamento delle difese immunitarie. In ogni caso si tratta di patologie che hanno in comune il bruciore, la sensazione di essere divorati dal fuoco. Di cui Antonio è signore e guaritore. Con il supporto simbolico e farmacologico del maiale. Nelle chiese-ospedale dell’ordine antoniano, infatti, venivano allevati numerosissimi suini, dal cui lardo si ricavava l’unguento usato per curare il male. Così si chiude il cerchio tra il santo, il fuoco e il maiale. Ecco perché l’iconografia sacra rappresenta l’asceta barbuto con in mano un fuoco ardente e con l’immancabile maialino. Spesso attorniato anche da altre bestie da lavoro e da cortile. Perché, per una proprietà transitiva della taumaturgia, da amico del porcello il santo diventa patrono dell’intero mondo animale. E la sua immagine si trova in tutti gli allevamenti d’Europa.

E’ addirittura un animalista ante litteram che, secondo la credenza popolare, la notte del 16 gennaio, vigilia della sua festa, passa per le stalle per chiedere a bipedi e quadrupedi come siano stati trattati dagli uomini. In base al loro resoconto, il patrono benedice quelli che si sono mostrati magnanimi e maledice quelli che hanno maltrattati le bestie. Insomma, oltre che medico, Antonio è anche un veterinario soprannaturale. In questo senso un lungo filo rosso va dall’eremita del deserto alla virologa-veterinaria Ilaria Capua e a tutti i suoi colleghi scesi in campo contro il Covid. In ogni caso, la morale della storia è che il giusto equilibrio tra la salute dell’uomo, degli animali e dell’ambiente è il primo fattore di immunità. Lo scudo contro le pandemie di ieri e di oggi.

                                                        Marino Niola