Belli. Sonetti. “Er capitolo”. 7 marzo 1836

Belli. I prelati di Roma. “Er capitolo”, 7 marzo 1836

 

Belli, bacchettone impiegato del catasto pontificio, conosceva bene la situazione europea contemporanea e, pur parlandone sempre dall’ottica deformata e stravolta del suo popolano ribelle e biecamente reazionario, prende posizione e giudica (ma col Comico che sta sempre lì, presente e in agguato, a ribaltare ogni giudizio e ogni prospettiva). Il suo nome, inedito e clandestino a Roma e in Italia, una maschera di carnevale e di penombra, è per primo riconosciuto da Sainte-Beuve il quale, a sua volta, lo aveva conosciuto grazie a Gogol: “Straordinario! Un grande poeta a Roma, un poeta originale: scrive dei Sonetti in dialetto trasteverino, ma dei sonetti che si legano e formano un poema: sembra che sia un poeta raro nel senso più serio del termine (…) Non pubblica, e le sue opere restano manoscritte. Sui quaranta: piuttosto malinconico nel fondo, poco estroverso”. Quindi, un poeta malinconico e comico, introverso e osceno, che usa il più nobile dei generi poetici, il sonetto, per una materia greve e con una lingua “abietta e buffona”. Nell’Introduzione alla sua Commedia romana Belli aveva scritto che sbaglierebbe chi pensasse che “nascondendomi perfidamente dietro la maschera del popolano abbia io voluto prestare a lui le mie massime e i principi miei. Invece io ho ritratto la verità”.

Muscetta sostiene, riprendendo Bachtin e a ragione, che il nostro poeta sia stato un grande autore di “letteratura carnevalizzata”. Nella sua biblioteca trovavano posto quattro autori: Boccaccio, Rabelais, Voltaire, Hoffmann. A Roma il carnevale era un evento vissuto con intensità e languore nello stesso tempo: in quello Stato pontificio, compagine politica e umana al tramonto, l’allegria e la morte convivevano. Così, nei sonetti, le troviamo l’una accanto all’altra, la buffoneria si sposava al tragico. Ne voglio dare due esempi. Il primo è un crescendo rossiniano. Si legga questa terzina del sonetto “Er zucchetto der decan de Rota”, che dice: “Poi tutti: “Evviva er nostro Minentissimo”./ E cquello arisponneva: “Indeggno, indeggno” / e cquell’antri: “Dignissimo, degnissimo”. Nel secondo il poeta mette in scena un cardinalaccio in una casa di tolleranza; scoperto, questi proclama: “Io so io e voi nun sète un cazzo”; non è escluso che l’energumeno l’affascinasse più che non suscitasse la sua indignazione.

“Uno dei centri del suo interesse è la presenza ossessiva nella società romana del clero. I preti vivono a diretto contatto con le masse popolari, a volte ne condividono anche le misere condizioni di vita, eppure appartengono comunque ad una specie diversa, a quella società nella società che gestisce il potere, che può aprire o chiudere le porta del Paradiso e che, quindi, ha in mano la sorte degli individui e delle famiglie. Al di sopra di tutti ci sono i vescovi e i cardinali; più in alto ancora il papa”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –aggiungeva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

                                               Gennaro  Cucciniello

 

 

                                              

“Er capitolo”                       7 marzo 1836

 

Li frati ereno trenta: e ffra costoro

Venuto er giorno de creà er guardiano

Prima pranzorno, eppoi doppo lo spano

Calorno in fila tutt’e ttrenta in coro.                                        4

 

E lì, a uno a uno, ognun de lòro

(Comincianno, s’intenne, dar più anziano)

Co una cartina sigillata in mano

Annò a fficcalla in un bussolo d’oro.                                         8

 

Fatto questo se venne a la lettura:

Fra Matteo, fra Ttaddeo, fra Benedetto,

Fra Elia, fra Beda, fra Bonaventura…                                      11

 

Inzomma un doppo l’antro un terremoto

De nomacci, e ‘r guardiano nun fu eletto,

Perché ttutti li frati ebbeno un voto!                                        14

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

 

                                      La riunione dei frati

I frati del convento erano trenta: arrivato il giorno nel quale avrebbero dovuto eleggere il loro superiore, prima pranzarono, poi –dopo la mangiata- scesero in fila ordinata tutti e trenta nel coro. E lì, a uno a uno, ognuno di loro (cominciando, s’intende, dal più anziano), con una scheda chiusa nella mano andò a infilarla in un bussolotto dorato. Terminata la votazione, si venne allo spoglio: fra Matteo, fra Taddeo, fra Benedetto, frate Elia, fra Beda, fra Bonaventura… Insomma, uno dopo l’altro, un terremoto di nomacci, e il superiore non fu eletto, perché tutti i frati ebbero un voto!

 

Le quartine. L’impostazione è freddamente cronachistica ma si ha l’impressione che a raccontare sia un osservatore ironicamente distaccato. Lo stile è interessante: negli otto versi delle quartine assoluto dominatore è l’enjambement, che deve rendere il tono incalzante del racconto. Nel convento abita piccola gente che non ha mai avuto nulla di rilevante e che ora –d’improvviso- diventa protagonista. E’ storia minore, quasi infima, nobilitata dallo sguardo sarcastico e caustico del narratore.

Le terzine. La scrittura arguta e sottilmente corrosiva di questo evento banale richiede adesso un ritmo sincopato. La punteggiatura rallenta lo sviluppo dei fatti, quasi ad accompagnare il lento sillabare degli esiti della votazione. Il registro stilistico è monotono e uniforme, senza alcun frivolo cicaleccio. La lingua pastosa e flessibile annota il risultato: ogni frate ha badato a se stesso e al suo interesse.

 

Il giorno dopo, l’8 marzo 1836, Belli scrisse un sonetto il cui tema era una condanna a morte.

 

                                               La morte de Fieschi

 

A dodici ora er venardì a matina

Der giorno diciannove de frebbaro

Quer porco frammassone carbonaro

De Fieschi annò a morì a la quajottina.                                   4

 

Dice però che ce sputava amaro

Perché j’era in ner core una gran spina

D’avé d’abbandonà una certa Nina

Che lui l’amava co un affetto raro.                                            8

 

Nun ce fu ttanta Nina o ttanta Nena:

Lui bisognò che sse facessi sotto

E scontassi er dilitto co la pena.                                                11

 

Uh!… c’è gnisuno qua che j’arieschi

De sapé dimme si co quer birbotto

Ciabbi gnente che ffà Monziggnor Fieschi?                             14

 

A dodici ore, all’italiana (dopo l’avemaria, le sei del mattino circa), il venerdì, del giorno 19 di febbraio, quel porco framassone carbonaro di Fieschi fu ghigliottinato (era un patriota corso che aveva attentato alla vita del re di Francia Luigi Filippo, con una macchina composta di 27 fucili uniti insieme. Il re rimase illeso mentre furono numerosi i morti tra la folla del Boulevard du Temple, a Parigi). Si racconta però che era molto amareggiato perché aveva nel cuore una grande spina, l’aver dovuto abbandonare una certa Nina, da lui molto amata. Non ci fu tanta Nina o tanta Nena: il condannato dovette affrontare la lama e scontare il delitto con la pena. Uh!… c’è nessuno tra di voi che sappia dirmi se quel birbantone abbia niente a che spartire con Monsignor Fieschi (era il Maestro di Camera del papa Gregorio XVI)?

 

                                               Gennaro  Cucciniello