Belli, Sonetti. “Er confortatore”, 13 settembre 1830

Belli. Sonetti. “Er confortatore”, 13 settembre 1830

 

Belli, bacchettone impiegato del catasto pontificio, conosceva bene la situazione europea contemporanea e, pur parlandone sempre dall’ottica deformata e stravolta del suo popolano ribelle e biecamente reazionario, prende posizione e giudica (ma col Comico che sta sempre lì, presente e in agguato, a ribaltare ogni giudizio e ogni prospettiva). Il suo nome, inedito e clandestino a Roma e in Italia, una maschera di carnevale e di penombra, è per primo riconosciuto da Sainte-Beuve il quale, a sua volta, lo aveva conosciuto grazie a Gogol: “Straordinario! Un grande poeta a Roma, un poeta originale: scrive dei Sonetti in dialetto trasteverino, ma dei sonetti che si legano e formano un poema: sembra che sia un poeta raro nel senso più serio del termine (…) Non pubblica, e le sue opere restano manoscritte. Sui quaranta: piuttosto malinconico nel fondo, poco estroverso”. Quindi, un poeta malinconico e comico, introverso e osceno, che usa il più nobile dei generi poetici, il sonetto, per una materia greve e con una lingua “abietta e buffona”. Nell’Introduzione alla sua Commedia romana Belli aveva scritto che sbaglierebbe chi pensasse che “nascondendomi perfidamente dietro la maschera del popolano abbia io voluto prestare a lui le mie massime e i principi miei. Invece io ho ritratto la verità”.

Muscetta sostiene, riprendendo Bachtin e a ragione, che il nostro poeta sia stato un grande autore di “letteratura carnevalizzata”. Nella sua biblioteca trovavano posto quattro autori: Boccaccio, Rabelais, Voltaire, Hoffmann. A Roma il carnevale era un evento vissuto con intensità e languore nello stesso tempo: in quello Stato pontificio, compagine politica e umana al tramonto, l’allegria e la morte convivevano. Così, nei sonetti, le troviamo l’una accanto all’altra, la buffoneria si sposava al tragico. Ne voglio dare due esempi. Il primo è un crescendo rossiniano. Si legga questa terzina del sonetto “Er zucchetto der decan de Rota”, che dice: “Poi tutti: “Evviva er nostro Minentissimo”./ E cquello arisponneva: “Indeggno, indeggno” / e cquell’antri: “Dignissimo, degnissimo”. Nel secondo il poeta mette in scena un cardinalaccio in una casa di tolleranza; scoperto, questi proclama: “Io so io e voi nun sète un cazzo”; non è escluso che l’energumeno l’affascinasse più che non suscitasse la sua indignazione.

“Uno dei centri del suo interesse è la presenza ossessiva nella società romana del clero. I preti vivono a diretto contatto con le masse popolari, a volte ne condividono anche le misere condizioni di vita, eppure appartengono comunque ad una specie diversa, a quella società nella società che gestisce il potere, che può aprire o chiudere le porta del Paradiso e che, quindi, ha in mano la sorte degli individui e delle famiglie. Al di sopra di tutti ci sono i vescovi e i cardinali; più in alto ancora il papa”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –aggiungeva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Belli, “Sonetti”, edizione critica a cura di Gibellini, Felici, Ripari, Einaudi, Torino, 2018.

 

 

                   “il confortatore”            13 settembre 1830

 

Sta notte a mezza notte er carcerato

Sente uprì er chiavistello de le porte,

E ffasse avanti un zervo de Pilato

A dije: “ er fischio te condanna a morte”.                        4

 

Poi tra du’ torce de sego incerato,

Co du’ guardiani e du’ bracchi de corte,

Entra un confortatore ammascherato,

Coll’occhi lustri e co le guance storte.                               8

 

Te l’abbraccica ar collo a l’improviso,

Strillanno: “Alegri, fijo mio: riduna

Le forze pe volà ssu in paradiso”.                                      11

 

“Che alegri, cazzo! alegri la luna!”.

Quello arisponne: “Pozziate èsse acciso;

Pijatela pe voi tanta furtuna”.                                            14

 

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD).

Il Confortatore è l’addetto ad accompagnare i condannati sul patibolo e, se necessario, a convertirli. Questo, citato nel testo, appartiene a una Arciconfraternita, quella della Misericordia.

 

Questa notte, a mezzanotte, il carcerato sente aprire il chiavistello della porta della cella,  e venire avanti un ufficiale giudiziario del tribunale che gli dice: “Il tribunale ti condanna a morte”. Poi tra due torce di candeloni di cera, con due guardie e due poliziotti, entra un frate addetto al conforto dei condannati, incappucciato, con gli occhi e le guance in espressione di studiata compassione. D’improvviso abbraccia il collo del condannato strillando: “Allegria, orsù figlio mio: raccogli le forze per volare su in paradiso”. Quello risponde: “Che allegria, cazzo; possiate essere ucciso (a Roma: “annate a morì ammazzato”); pigliatela per voi tanta fortuna”.

 

Analisi

Noi sappiamo che l’11 settembre 1830, antivigilia della creazione del nostro sonetto, venne decapitato a Roma Felice Teatini, colpevole di “omicidio irragionevole”, così registra il boia. Belli rende anonimo il disgraziato pluriomicida e trasferisce noi lettori d’improvviso nella sua cella buia. E’ mezzanotte. Si sente solo il cigolio del chiavistello, e poi la voce forte che annuncia la sentenza. Tutto è affidato al registro sonoro (“sente uprì, dije”). Nella seconda strofa irrompe la luce: due grosse torce fanno ala allo strano corteo: quattro guardie (due indicate con i nomi dei cani da caccia) e uno vestito da fratacchione, già pronto a interpretare la sua missione, “coll’occhi lustri e cco le guance storte” (v. 8). Avete presente il frate interpretato da Alberto Sordi nel film di Luigi Magni, “Nell’anno del Signore” ? Ecco, quello è la perfetta figurazione del nostro confortatore, facce attonite e sfigurate di un’umanità sotterranea.

 

Tre giorni prima, il 10 settembre 1830, Belli scrive questo sonetto, centrato sulla schermaglia verbale e il fraseggio erotico, fitti di interiezioni popolaresche e un’elaborata catena di doppi sensi, tra un frate lascivo e la disponibile Agnese.

 

A Checco”

 

Jeri, all’orloggio de la Chiesa Nova,

Fra Luca incontrò Aggnesa co la brocca.

Dice: “Beato lui”, dice, “a chi tocca”,

Dice, “e nun za ch’edè chi nu lo prova”.                           4

 

Risponne lei, dice: “Chi cerca, trova:

Ma a me”, dice, “puliteve la bocca”.

“Aùh” dice… “e pperché nun te fai biocca?”.

“Eh”, dice, “e chi me mette sotto l’ova?”                           8

 

“Ce n’ho io”, dice, “un paro fresche vive”,

Dice, “e ttamante, e tutt’e dua ‘ngallate:

Le vòi sperà si ssò bone o cattive?”                                    11

 

Checco, te pensi che nun l’ha pijate?

Ah lei, pe nun sapé legge né scrive,

Ha vorzuto assaggià l’ova der frate.                                14

 

         A Francesco  (sarebbe l’amico Checco Spada)

 

Ieri, davanti all’orologio della Chiesa Nuova (è l’orologio del Convento dei Filippini, opera del Borromini, adiacente alla Chiesa di S. Maria in Vallicella), frate Luca incontrò Agnese con la brocca. Il frate dice (questo dice è l’intercalare del popolano che racconta): “Beato a chi tocca, e non sa cosa è chi non la prova”. Risponde Agnese: “Chi cerca trova, ma quando parlate con me, parlate con convenienza”. Il frate: “Ahò, e perché non ti fai chioccia?”. La donna: “Eh, e chi mi mette sotto le uova?”. Il frate: “Io ne ho un paio fresche e vive, e tutte e due grosse così, e fecondate: le vuoi provare se sono buone o cattive?”. Francesco, tu pensi che non l’ha pigliate? Ah, lei, per non sapere né leggere né scrivere (con la falsa scusa dell’ignoranza), ha voluto assaggiare le uova del frate.

 

                                                        Gennaro Cucciniello