Belli. Sonetti. “Er tosto”, 24 ottobre 1831

Belli. Sonetti. “Er tosto”, 24 ottobre 1831

Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizii, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene una impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza (…) Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento”.

Quando Belli scrisse queste pagine introduttive aveva composto già 300 sonetti circa, sugli oltre duemila dell’intera sua produzione, custoditi segretamente, e aveva chiarito a se stesso il disegno, unitario ed organico, che era sotteso alla sua “Commedia romana”. Egli aveva individuato con grande precisione alcuni tra gli elementi più tipici della situazione storica e ideologica della Roma papalina: l’assenza quasi totale di ogni forma di coesione sociale, anche di un punto di vista linguistico (di qui l’inesistenza di un dialetto cittadino e di una tradizione vernacola scritta) che potesse essere per lui un punto di riferimento, come invece era accaduto per il Porta a Milano.

A Roma il governo dei papi aveva costretto gli intellettuali a tornare all’Arcadia e alle Accademie e faceva della città una sorta di culla delle dottrine morte: non a caso Leopardi, in una lettera da Roma al fratello Carlo del 16 dicembre 1822, aveva scritto: “qui l’Antiquaria è messa da tutti in cima al sapere umano, e considerata costantemente e universalmente come l’unico vero studio dell’uomo”.

Belli , nell’Introduzione, aveva annotato: “Voglio dare un’immagine fedele di cosa abbandonata senza miglioramento”. Roma era in una situazione senza alcuna prospettiva di sviluppo né politico né economico. Belli, scrive Asor Rosa, “porta così il popolo romano alla ribalta vera della storia: proprio perché non lo mitizza, non lo esalta, proprio perché non ne fa il figlio prediletto né della rivoluzione democratica (Mazzini) né della Provvidenza divina (Manzoni), riesce a darci –insieme al Porta- una visione della realtà in cui il popolo non è subalterno ma vive la sua vita in autonomia, è protagonista della storia. Ma quale storia poteva vivere il popolo? Se la storia è romanticamente progresso, incivilimento, perfettibilità, cultura, la storia del popolo non è storia: essa esprime infatti una immobilità senza speranza, una sofferenza diventata abitudine, una passività indifferente, un’oppressione accettata, una protesta destinata a restare sfogo, bestemmia, parolaccia. Questo popolo ci dice che la storia non si muove, è ferma. Nessuna speranza sopravvive”. Da quel suo fondo di istinto plebeo che tante volte esplode nell’insulto, nel sarcasmo, nella volgarità, sberleffo e volontà velleitaria di rottura delle norme di una società organizzata, nasce anche lo svuotamento delle funzioni delle sfere ufficiali e anche dei riti religiosi, ridotti tante volte a un ritmo di balletto, a una sorta di opera buffa, a un tragico presentimento di morte. Annota acutamente il Salinari: “Il suo è un qualunquismo della volontà che accompagna sempre il ribellismo dell’immaginazione”.

In una lettera del Belli a Francesco Spada dell’8 settembre 1838 il poeta definisce la sua città “una Romaccia, una galera”, la negazione vivente della possibilità stessa di esistere, o perlomeno la proiezione di una realtà talmente desolata in cui la vita si costruisce solo nei limiti di una elementare dimensione biologica. E in un’altra sua lettera al principe Placido Gabrielli del 15 gennaio 1861 egli scriveva che “nella mia commedia è il popolo ad essere introdotto a parlare di sé nella sua nuda, gretta ed anche sconcia favella, dipingendo così egli stesso i suoi proprii usi, i suoi costumi, le sue storte opinioni, e insieme con tutto ciò i suoi originali pensieri intorno ai più elevati ordini di questo social corpo di cui esso occupa il fondo”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Belli, “I Sonetti”, a cura di Gibellini, Felici, Ripari, Einaudi, 2018.

Er tosto 24 ottobre 1831

Chi? Lui? Gèsus maria! Quello è un cojone

Scappato da le man der crapettaro,

E tte pòi figurà quant’è cacone

Che ttiè inzino a mesata er braghieraro. 4

Ce recita da marro e da spaccone;

Fa lo spazzacampagna e ‘r pallonaro:

Eppoi curre a ssarvasse in d’un portone

Come sente fa un ròggito a un zomaro. 8

Senti questa ch’è ffresca d’oggi a otto.

Giucamio a mora all’osteria de Marta:

Quanno derèto a lui se sente un botto! 11

E sto bravaccio che mazzola e squarta,

Curze ar bancone e ce se messe sotto.

Sai ch’era stato? Un schioppettin de carta. 14

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD).

Il bravaccio

Chi? Lui? Gesù Maria! Quello è un coglione (un testicolo) sfuggito dalle mani del caprettaro (che uccide i capretti), e puoi figurarti quanto è pauroso per il fatto che paga perfino un tanto al mese il fabbricante di cinti che trattengono l’ernia. Fa la parte del prepotente e dello spaccone, fa lo sparafucile e il pallone gonfiato: e poi corre a salvarsi dentro un portone appena sente fare un ruggito a un asino. Senti questo fatto che è di otto giorni fa. Giocavamo a morra all’osteria di Marta: quando dietro a lui si sente uno scoppio! E questo prepotentone, che a parole mazzola e squarta (come il boia), corre al bancone e ci si mette sotto per nascondersi. Sai che cosa era stato? Un giochetto fanciullesco di carta.

Le quartine. Annotiamo subito che Belli si firma fin da subito “Peppe er tosto” volendosi identificare, non sai con quanta ironia, nel popolano romano millantatore e sbruffone. A volte il nostro poeta dà l’idea di volersi esercitare con un vocabolario lessicale adeguato, con canzonature idiomatiche e linguaggi allusivi. Qui il narratore è un osservatore smaliziato e curioso, frequentatore di osterie e spesso compagno di avventure di questi buffoncelli. Nelle due strofe c’è un’insistenza maliziosa su note di animali: i testicoli dei capretti, i somari, una certa rima (cojjone, ccacone, spaccone; crapettaro, braghieraro, pallonaro, zomaro).

Le terzine. Il racconto finalmente si squaderna: siamo in un’osteria, i nostri giocano a morra, tutti sono intenti alle giocate; all’improvviso c’è un botto. Cosa è, cosa non è? Il nostro Capitan Matamoros inopinatamente corre verso il bancone e ci si tuffa sotto. Altro che sparo! Qualcuno s’era divertito con un giochetto di carta ripiegata.

Cosa possiamo dire? Belli esplora nuove forme di scrittura, cerca di dialogare ironicamente con il lettore, passa al setaccio le orme minute della quotidianità? Mi dà l’impressione di un disincanto che sfiora il cinismo.

Sul tema dello sbruffone deriso Belli aveva già scritto un sonetto un mese prima, a Morrovalle, il 23 settembre 1831:

Le spacconerie

Gni sordo-nato dice che ssei l’asso!

E vvorti l’ammazzati co la pala,

Prz, te fischieno, Marco: tiette bbasso:

C’ereno certi frati de la Scala. 4

Te vedo, Marco mia, tropo smargiasso,

E cquarchiduna de le tue se sala.

Lassa de spacconà, nun fa er gradasso,

E aricordete er fin de la scecala. 8

A ssentì a tte fai sempre Roma e ttoma:

E poi ch’edè? Viè spesso e volentieri

Chi tt’arizzolla e tte ne dà ‘na soma. 11

Ognomo hanno d’avè li su’ mestieri:

Chi ffa er boia, chi er re, chi scopa Roma:

Sei bbraghieraro tu? , ffà li bbraghieri. 14

Le millanterie

Ogni uomo sordo dalla nascita dice che “sei l’asso” (uno importante: l’asso è la carta principale in vari giochi)! E ti vanti di fare stragi a bizzeffe, una pernacchia, una scoreggia, Marco: tieniti basso, cala (come dicevano certi frati della Scala, un proverbio). Ti vedo, Marco mio, troppo spaccone, e qualcuna delle tue spacconate di mette sotto sale (per fermarne l’imputridimento). Finisci di vantarti, non fare il gradasso, e ricordati della fine della cicala (che canta canta e poi crepa). A sentirti dici sempre mari e monti: e poi che c’è? Arriva chi spesso e volentieri ti dà un fracco di legnate. Ogni uomo deve avere il suo mestiere: chi fa il boia, chi fa il re, chi fa lo spazzino. Sei un braghieraro (chi costruisce cinti per le ernie) tu? Fai i braghieri.

Sul bullo a parole, sul miles gloriosus, Belli scrive ancora:

Lo sfrappone (Lo spavaldo) 1 febbraio 1838

Si ssèguiti accusì, Cchecco, la sbajji.

Fijjo, co st’impropèri vacce piano.

Chi è llesto de lingua e nnò de mano

O la tienghi a stecchetta o sse la tajji. 4

Uno c’annassi a rregola de rajji

Crederìa c’un zomaro marchisciano

Se maggnassi un leone sano sano

E un’armata co ttutti li bbagajji. 8

Certuni a cciarle so spazza-campaggne,

Eppoi a ffatti se la fanno sotto,

E arrivi ar punto de vedelli piaggne. 11

Er mannatàro ch’era un omo dotto,

Sai che ddisceva a sti spacca-montaggne?

Ce vo mmeno a inzurtà cc’a ddà un cazzotto. 14

Gernnaro Cucciniello