Belli. Sonetti. Figure di donne romane. “La madre poverella”, 18 febbraio 1833

Belli. Sonetti. “Figure di donne romane”. “La madre poverella”, 18 febbraio 1833

Le donne occupano quasi metà della vastissima opera di Belli: tipi, personaggi, caratteri pieni di una vivacità, di una umanità straordinarie. Si nota infatti che, mentre nei protagonisti maschili è più intensa la carica di amarezza e di ribellione, nei confronti delle donne tratteggiate nei Sonetti si evidenzia la fondamentale “pietà” del poeta, la sua partecipazione profonda e più struggente e la sua meditazione sull’uguale destino di oppressione, di prevaricazione, di ingiustizia che le  accomuna, quale che sia la loro classe di appartenenza. Esse, le donne, condividono con tutti i poveri fragilità e mali ma, in più, sono prevalentemente brutalizzate dalla loro rozza riduzione a “sesso”.

Ma qualcuno ha fatto notare che la figura della donna, anche della madre, è spesso villana, feroce, carica di violenza; il loro linguaggio è crudo, diretto. E’ vero. Ma da questo si può dedurre non solo lo sforzo della rappresentazione veritiera e priva di qualsiasi velo ipocrita da parte del poeta, ma anche e soprattutto l’intuito che lo spinge a cogliere nella sfrenatezza e nell’eccesso della parola la fondamentale debolezza della condizione femminile, l’impossibilità delle donne di adoperare una vera forza e, dunque, lo stravolgimento violento di chi si sa vinto e conosce, nell’inutilità brutale del proprio linguaggio, una ribellione senza speranza. Questo spiega anche, secondo me, l’ossessiva presenza del sesso che caratterizza questi personaggi femminili. Gli attributi sessuali, in un linguaggio duro concreto senza eufemismi, testimoniano di questa unica identità della donna, identità consapevole fino alla brutalizzazione di sé. Dai sonetti (“La puttana abbruciata, Li fiori de Nina”) in cui inutilmente le donne lamentano che la colpa del “contagio, del mal francese” ricada sempre su di loro a tutta una serie di prostitute che testimoniano, con la loro affollata presenza in città “er primo gusto der monno”, la rozzezza del desiderio maschile (favorito a Roma da un governo che sa di dover compiacere a frotte di pellegrini e a migliaia di prelati sfaccendati e danarosi), fino al commovente ingenuo tentativo delle prostitute di salvarsi, di ritrovare una loro dignità, nella capacità di rispettare una regola, interrompendo il mestiere per “annà a le quarantora”, o tenendo fede al voto fatto “a la Madonna de l’Archetto”, o perfino concedendosi gratis in suffragio di quell’anime sante e benedette. Una pietas, quella di Belli, nei confronti delle donne, che si intravede infine, attraverso la condizione degradata delle loro persone a solo oggetto del desiderio sessuale maschile, nell’orrore con cui viene descritta la loro vecchiaia: “Viè a vedé le bellezze de mi’ nonna./ Ha du’ parmi de pelle sott’ar gozzo:/ è sbrozzolosa come un maritozzo;/ e trìttica più peggio d’una fronna…/ Bracc’ e gamme so’ stecche de ventajo;/ la voce pare un son de raganella;/ le zinne, borse da colacce er quajo./ Be’, mi’ nonna da giovane era bella…”.  Qualcuno ha suggerito che la poesia scritta dalle donne nel tempo nostro “parla veloce”. Io preferisco ricordare un verso di Sandro Penna: “Non c’è più quella grazia fulminante / ma il soffio di qualcosa che verrà”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

                                                                      

 

La madre poverella                18 febbraio 1833

 

Fija, nun ce sperà: fatte capace

Che qua li ricchi so ttutti un riduno;

E un goccio d’acqua nun lo dà gnisuno,

Si tte vedessi immezzo a una fornace.                             4

 

Tu bussa a li palazzi a uno a uno;

Ma ppòi bussà quanto te pare e ppiace:

Tutti: “Iddio ve provedi: annate in pace”.

Eh! panza piena nun crede ar diggiuno.                         8

 

Fidete, fija: io parlo pe sperienza.

Ricchezza e carità ssò du’ perzone

Che nun potranno mai fa conoscenza.                   11

 

Se chiede er pane, e sse trova er bastone!

Offerìmolo a Dio: ché la pacenza

E’ un conforto che dà la riliggione.

 

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, DCD).

 

                                               La madre poverella

 

Figlia, non ci sperare: capacitati che qui i ricchi sono tutti una massa, sono tutti uguali; e un goccio d’acqua non lo dà nessuno, anche se ti vedesse in mezzo a una fornace. Tu vai a bussare ai palazzi a uno a uno; ma puoi bussare quanto ti pare e piace: tutti ti dicono: “Dio provveda a voi: andate in pace”. Eh! Pancia piena non crede al digiuno (è un proverbio). Fidati, figlia: io parlo per esperienza. Ricchezza e carità sono due persone che non potranno mai far conoscenza. Si chiede il pane e si trova il bastone! Offriamo a Dio questo sacrificio: perché la pazienza (il dialetto romanesco la fa derivare da “pace”) è un conforto che dà la religione.

 

Le quartine.

Il poeta costruisce un colloquio tra madre e figlia, no, non un dialogo ma una lezione che la mamma, forte della sua esperienza, fa alla figliola adolescente. Il ritmo dell’argomentazione è serrato: solo tra il primo e il secondo verso c’è un enjambement, (fatte capace che qua) oltretutto dopo una spezzatura sconsolata (Fija, nun ce sperà:)); tutti gli altri sette versi sono bloccati dalla punteggiatura, virgola, punto, punto e virgola, due punti. Una ragione c’è: ogni verso racconta un fatto, annota una convinzione, riporta una frase, commenta con amarezza un rifiuto. La voce è pacata, sfibrata, parla con parsimonia, nessuna parola inutile.

Le terzine.

Ora lo stile si diversifica. Ai due capo-strofe bloccati seguono due enjambement (perzone che nun potranno; ché la pacenza è un conforto) che rendono più scorrevole l’argomentazione. Che, per di più, è accompagnata da un gioco delle rime molto interessante: la rima in C (sperienza, conoscenza, pacenza) spiega –come meglio non si potrebbe- il pessimismo esistenziale della povera mamma. Le popolane romane dall’esperienza di vita erano indotte non alla ribellione ma alla sopportazione rassegnata. La rima in D (perzone, bastone, riliggione) chiude il cerchio: a Roma la ricchezza è nemica della carità, chiedi pane e trovi il bastone, che rimedio hai? Il conforto della religione! Sullo sfondo della città eterna tu lettore intravedi una folla dispersa in mille rivoli di solitudine e di disperazione.

 

Il giorno dopo, il 19 febbraio 1833, Belli scrive quest’altro sonetto:

 

                                               La padrona bisbetica (1)

 

Nun ce pòzzo stà ppiù: nun trovo loco:

In sta casa ce sò ttroppi scompiji.

Quanno aritorna Lei c’ha pperzo ar gioco,

Pare proprio una furia co l’artiji.                                    4

 

Vò cenà e nun cenà: strapazza er coco:

Mena a le donne: fa svejà li fiji:

Mo nun arde er chenchè: mo ppuzza er foco…

Nun c’è inzomma con chi nun ze la piji.                          8

 

Butta via li bonè, straccia li guanti;

E l’abbiti qua e là ne fa una spasa,

Bestemmianno er Ziggnore co li Santi.                           11

 

Poi, per urtima botta de catubba,

Pija quadrini dar mastro de casa,

Che dieci je ne dà, dieci n’arrubba.                                  14

 

                                               La padrona bisbetica

E’ la principessa Chigi. Amalia Carlotta Barberini, moglie del principe Chigi, la quale –scrive il Silvagni, un commentatore dell’epoca- “s’era giuocata un patrimonio”.

Non ci posso stare più: non trovo riparo: in questa casa ci sono troppi scompigli. Quando torna Lei, la padrona, che ha perso al gioco, sembra proprio una furia con gli artigli. Vuole cenare e non cenare: strapazza il cuoco: picchia le domestiche: fa svegliare i figli: ora non arde il lume ad olio (francese: quinquet): ora puzza il fuoco… Non c’è insomma persona con la quale non attacca briga. Butta via le cuffie (francese: bonnets), straccia i guanti; sparge gli abiti nella stanza, bestemmiando il Signore con tutti i Santi. Poi, come ultima botta della grancassa, piglia i soldi dal maestro di casa, che dieci gliene dà e dieci ne ruba.

 

Gennaro  Cucciniello