Belli. Sonetti. “La figlia dormigliona”

Belli. Sonetti. “La fija dormijona”

 

Le donne occupano quasi metà della vastissima opera di Belli: tipi, personaggi, caratteri pieni di una vivacità, di una umanità straordinarie. Si nota infatti che, mentre nei protagonisti maschili è più intensa la carica di amarezza e di ribellione, nei confronti delle donne tratteggiate nei Sonetti si evidenzia la fondamentale “pietà” del poeta, la sua partecipazione profonda e più struggente e la sua meditazione sull’uguale destino di oppressione, di prevaricazione, di ingiustizia che le  accomuna, quale che sia la loro classe di appartenenza. Esse, le donne, condividono con tutti i poveri fragilità e mali ma, in più, sono prevalentemente brutalizzate dalla loro rozza riduzione a “sesso”.

Ma qualcuno ha fatto notare che la figura della donna, anche della madre, è spesso villana, feroce, carica di violenza; il loro linguaggio è crudo, diretto. E’ vero. Ma da questo si può dedurre non solo lo sforzo della rappresentazione veritiera e priva di qualsiasi velo ipocrita da parte del poeta, ma anche e soprattutto l’intuito che lo spinge a cogliere nella sfrenatezza e nell’eccesso della parola la fondamentale debolezza della condizione femminile, l’impossibilità delle donne di adoperare una vera forza e, dunque, lo stravolgimento violento di chi si sa vinto e conosce, nell’inutilità brutale del proprio linguaggio, una ribellione senza speranza. Questo spiega anche, secondo me, l’ossessiva presenza del sesso che caratterizza questi personaggi femminili. Gli attributi sessuali, in un linguaggio duro concreto senza eufemismi, testimoniano di questa unica identità della donna, identità consapevole fino alla brutalizzazione di sé. Dai sonetti (“La puttana abbruciata, Li fiori de Nina”) in cui inutilmente le donne lamentano che la colpa del “contagio, del mal francese” ricada sempre su di loro a tutta una serie di prostitute che testimoniano, con la loro affollata presenza in città “er primo gusto der monno”, la rozzezza del desiderio maschile (favorito a Roma da un governo che sa di dover compiacere a frotte di pellegrini e a migliaia di prelati sfaccendati e danarosi), fino al commovente ingenuo tentativo delle prostitute di salvarsi, di ritrovare una loro dignità, nella capacità di rispettare una regola, interrompendo il mestiere per “annà a le quarantora”, o tenendo fede al voto fatto “a la Madonna de l’Archetto”, o perfino concedendosi gratis in suffragio di quell’anime sante e benedette. Una pietas, quella di Belli, nei confronti delle donne, che si intravede infine, attraverso la condizione degradata delle loro persone a solo oggetto del desiderio sessuale maschile, nell’orrore con cui viene descritta la loro vecchiaia: “Viè a vedé le bellezze de mi’ nonna./ Ha du’ parmi de pelle sott’ar gozzo:/ è sbrozzolosa come un maritozzo;/ e trìttica più peggio d’una fronna…/ Bracc’ e gamme so’ stecche de ventajo;/ la voce pare un son de raganella;/ le zinne, borse da colacce er quajo./ Be’, mi’ nonna da giovane era bella…”.  Qualcuno ha suggerito che la poesia scritta dalle donne nel tempo nostro “parla veloce”. Io preferisco ricordare un verso di Sandro Penna: “Non c’è più quella grazia fulminante / ma il soffio di qualcosa che verrà”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –diceva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Belli, “Sonetti”, Edizione critica a cura di Gibellini, Felici, Ripari, Einaudi, 2018.

 

      La fija dormijona                                      9 aprile 1834

 

Alegrìa, su ch’è ttardi: animo, fora.

T’arincresce d’arzatte, eh? t’arincresce?

Vojo proprio vedé ssi tt’ariesce

De sta a letto inzinent ‘ a ventun’ora.                              4

 

Nun zei tu er gruggno de fà la siggnora:

Chi dorme, bella mia, nun pija pesce.

Portronaccia, esce da quer letto esce:

Di’ l’orazzione, vèstete, e lavora.                                        8

 

Guardate lì! nemmanco la vergoggna!

Stà a covà ttuttaquanta la matina,

Senz’arifrette a quer che ciabbisoggna!                         11

 

Ma attàcchetel’ar deto, Caterina;

Ché ssi ce provi ppiù, brutta caroggna,

Te fotto a ppan’e acqua giù in cantina.                          14

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD).

 

                                      La figlia dormigliona

 

Svelta, su che è tardi: fatti animo, fuori dal letto. Ti rincresce di alzarti, eh, ti rincresce? Voglio proprio vedere se questa volta ti riesce di stare a letto fino alle quattro del pomeriggio (contando dall’avemaria della sera precedente). Tu non hai la faccia (non puoi permetterti) di fare la signora: chi dorme, bella mia, non piglia pesci. Poltronaccia, esci da quel letto, esci: dì le preghiere, vèstiti e mettiti a lavorare. Guardate lì! Neanche la vergogna! Stare a poltrire tutta quanta la mattinata, senza riflettere a quel che bisogna fare in casa. Ma attacchetela al dito, ricordatelo bene (questa sia l’ultima volta), Caterina; che se ci provi ancora, brutta carogna, ti caccio a pane e acqua giù in cantina.

 

Analisi.

A me sembra tanto una scena teatrale: la mamma, con le mani sui fianchi e il petto in fuori, piantata nel mezzo della stanza da letto, che inveisce a brutto muso, anche con parole sconvenienti (“te fotto a ppan’ e acqua ggiù in cantina”, v. 14) contro la figlia che resta lì, zitta zitta, a poltrire fra le lenzuola. E la donna si accalora sempre di più.

Forse il poeta vuole mettere in risalto i metodi con i quali i genitori pensavano di educare i figli. La sua nota: “Quel “ti fotto etcc.” è una delle consuete minacce delle buone madri alle loro cattive figliuole, che vogliono bene educare”.

 

Il giorno precedente, l’8 di aprile, Belli si era divertito così:

 

                                               La giustizia ingiusta

 

Nonziggnora: sta vorta, sora Nina,

Fate quivico voi. Sentite er fatto,

E vederete poi ch’è un cazzo-matto

Che merita d’annà a la Palazzina.                           4

 

La cosa sta accusì: jer’a matina

Monziggnore me fece ammazzà er gatto,

Perch’era ladro, e annava quatto quatto

A rubbaje la carne da cucina.                                    8

 

Nu lo sapeva lui ch’er gatto mio

Pativa de quer debbole, com’hanno

Tutti li gatti c’ha creat’Iddio?                                   11

 

Mentre de ladri qua ce n’è un riduno

Che rubbeno quadrini tutto l’anno,

E nun je dice mai gnente gnisuno.                           14

 

No signora: questa volta, signora Caterina, siete voi in equivoco. Ascoltate il fatto, e vedrete poi che è un episodio che merita di andare al manicomio criminale. La cosa è andata così: ieri mattina Monsignore il giudice fece ammazzare il mio gatto, perché era ladro, e andava silenziosamente a rubargli la carne in cucina. Non lo sapeva il mentecatto che il gatto mio aveva quel debole, quello che hanno tutti i gatti creati da Dio? Mentre di ladri qui a Roma ce n’è una moltitudine che rubano denari tutto l’anno, e non gli dice mai niente nessuno.      

 

                                                        Gennaro   Cucciniello