Belli. Sonetti. I servitori sono peggiori dei padroni.

Belli. Sonetti. “Er decane der cardinale”

 

Belli, bacchettone impiegato del catasto pontificio, conosceva bene la situazione europea contemporanea e, pur parlandone sempre dall’ottica deformata e stravolta del suo popolano ribelle e biecamente reazionario, prende posizione e giudica (ma col Comico che sta sempre lì, presente e in agguato, a ribaltare ogni giudizio e ogni prospettiva). Il suo nome, inedito e clandestino a Roma e in Italia, una maschera di carnevale e di penombra, è per primo riconosciuto da Sainte-Beuve il quale, a sua volta, lo aveva conosciuto grazie a Gogol: “Straordinario! Un grande poeta a Roma, un poeta originale: scrive dei Sonetti in dialetto trasteverino, ma dei sonetti che si legano e formano un poema: sembra che sia un poeta raro nel senso più serio del termine (…) Non pubblica, e le sue opere restano manoscritte. Sui quaranta: piuttosto malinconico nel fondo, poco estroverso”. Quindi, un poeta malinconico e comico, introverso e osceno, che usa il più nobile dei generi poetici, il sonetto, per una materia greve e con una lingua “abietta e buffona”. Nell’Introduzione alla sua Commedia romana Belli aveva scritto che sbaglierebbe chi pensasse che “nascondendomi perfidamente dietro la maschera del popolano abbia io voluto prestare a lui le mie massime e i principi miei. Invece io ho ritratto la verità”.

Muscetta sostiene, riprendendo Bachtin e a ragione, che il nostro poeta sia stato un grande autore di “letteratura carnevalizzata”. Nella sua biblioteca trovavano posto quattro autori: Boccaccio, Rabelais, Voltaire, Hoffmann. A Roma il carnevale era un evento vissuto con intensità e languore nello stesso tempo: in quello Stato pontificio, compagine politica e umana al tramonto, l’allegria e la morte convivevano. Così, nei sonetti, le troviamo l’una accanto all’altra, la buffoneria si sposava al tragico. Ne voglio dare due esempi. Il primo è un crescendo rossiniano. Si legga questa terzina del sonetto “Er zucchetto der decan de Rota”, che dice: “Poi tutti: “Evviva er nostro Minentissimo”./ E cquello arisponneva: “Indeggno, indeggno” / e cquell’antri: “Dignissimo, degnissimo”. Nel secondo il poeta mette in scena un cardinalaccio in una casa di tolleranza; scoperto, questi proclama: “Io so io e voi nun sète un cazzo”; non è escluso che l’energumeno l’affascinasse più che non suscitasse la sua indignazione.

“Uno dei centri del suo interesse è la presenza ossessiva nella società romana del clero. I preti vivono a diretto contatto con le masse popolari, a volte ne condividono anche le misere condizioni di vita, eppure appartengono comunque ad una specie diversa, a quella società nella società che gestisce il potere, che può aprire o chiudere le porta del Paradiso e che, quindi, ha in mano la sorte degli individui e delle famiglie. Al di sopra di tutti ci sono i vescovi e i cardinali; più in alto ancora il papa”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi loriportano a casa”. La parola “verso” –aggiungeva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

 

            Er decane der cardinale              8 marzo 1834

 

A infirzà quattro ciarle pe ffà un lagno

Contr’a chi è ppiù de noi nun ce vò gnente.

Se dice presto: “lui maggna, io nun maggno”:

So canzoncine che sse sanno a mente.                             4

 

Nun dubbità, farebbe un ber guadaggno

Su’ Eminenza a ssentì ttutta la gente,

Che, chi batte pe ssé chi pp’er compaggno,

Tutti ciànno da dì quarc’accidente.                                 8

 

Leva l’ora der pranzo e de la cena,

L’ora de la trottata e de la messa,

La predica, l’uffizzio, la novena,                                       11

 

Concistori, cappelle, pinitenze,

E quarche visituccia a la badessa;

Che ttempo ha da restà ppe dà l’udienze?                      14

 

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, EDE).

 

                   Il più anziano dei servitori del cardinale

A infilzare quattro chiacchiere per costruire una lamentela contro un personaggio che è più potente di noi non ci vuole niente. Si fa presto a dire: “lui mangia, io non mangio”: queste sono canzoncine che si sanno a memoria. Tu non dubitare, farebbe un bel guadagno Sua Eminenza a stare ad ascoltare tutta la gente, che, chi chiede per sé, chi per il compagno, tutti hanno da lamentarsi per qualche accidente. Tu togli l’ora del pranzo e della cena, l’ora della cavalcata e della messa, la predica, la recita dell’uffizio, la novena, concistori, cappelle, penitenze, e qualche visituccia alla badessa; che tempo resta per dare udienza?

 

Le quartine.

Non è la prima volta che Belli usa la voce dei servitori per giustificare le malefatte dei loro signori: spessissimo i servi si immedesimavano persino nell’albagia delle classi dominanti che servivano e dimostravano verso i poveracci con cui venivano in contatto un disprezzo a volte superiore a quello dei loro padroni. In questo caso chi parla nel sonetto è il più anziano dei servitori, quello dotato di maggiore autorità, che si investe pienamente delle ragioni del cardinale suo padrone. Probabilmente sta parlando con qualche sua collega, ce lo dimostra quel “Non dubbità” del verso 5. Le parole rivelatrici del suo punto di vista cominciano già nel primo verso: infirzà, quattro ciarle, un laggno, e poi nun ce vò gnente, so canzoncine, per culminare in quella strepitosa nota del verso tre: “se dice presto: “lui maggna, io nun maggno”.

Le terzine.

Nei sei versi finali il poeta inventa un meraviglioso climax ascendente, giocato sulle ripetizioni (l’ora der…) e sul ritmo incalzante, prima binario (der pranzo e de la cena, de la trottata e de la messa), poi trinitario (predica, uffizio, novena / concistori, cappelle, pinitenze), per culminare nella battuta fulminante della visituccia a la badessa. Emerge con tutta evidenza il ritratto di una città plumbea, senza misericordia né perdono; una città ostile, dura, drammatica per la povera gente, ma nella quale i ceti dirigenti clericali vivevano nell’agio e nell’ozio. Si veda con quale perizia Belli unisca la pratica della messa con il piacere della cavalcata nella campagna romana, il rito al singolare del mestiere sacerdotale con gli impegni al plurale negli uffici curiali. In una città caotica, senza grazia, spicca un narrare martellante, tagliente, inesorabile, impastato di fisicità greve.

 

Tre giorni dopo, l’11 marzo 1834, Belli si diverte a scrivere:

 

                            Una dimanna lecit’ e onesta

 

Tra la mandra de tanti alletterati

Io nun ho ancora trovo chi me dichi

Si a li tempi che c’ereno l’antichi

L’ommini se vistiveno d’abbati.                                        4

 

Io so c’Adamo, pe li su’ peccati,

Se vistì co le fronne de li fichi;

E Cristo, Erode, e l’antri su’ nimmichi

Nun vistirno da preti né da frati.                                     8

 

Poi venne a Roma Romolo e Maometto,

Ma gnisun de li dua cor collarino,

Co la chirica e cor farajoletto.                                         11

 

Dunque chi l’ha inventato sto lumino?

A voi, sori dottori de l’ajetto,

Fateve avanti a stroligà un tantino.                                14

 

                            Una domanda lecita e onesta

Nella mandria di tanti letterati che ci sono qui a Roma io non ho ancora trovato chi mi dica se nei tempi antichi gli uomini si vestivano da abati. Io so che Adamo, a causa dei suoi peccati, si vestì con le foglie del fico; e Cristo, Erode e gli altri nemici del Signore non vestirono né da preti né da frati. Poi vennero a Roma Romolo e Maometto, ma nessuno dei due usava il colletto da prete, la chierica e il ferraiolo (il mantello dei preti). Dunque chi l’ha inventato il cappello triangolare (dei preti) –chiamato lumino perché molto simile a certe lucernette di terracotta-? A voi, signori dottori dei miei stivali, fatevi avanti ad almanaccare qualche risposta.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello