Belli. Sonetti, “Le risate del Papa”, 17 novembre 1834

Belli. Sonetti. “Le risate del Papa”, 17 novembre 1834

 

Roma è la città del Papa, del Vice-Dio. Scrivono i critici, sulla scia del nostro poeta, “che Dio stesso non si può concepire che come un tiranno allegramente feroce, che crea gli uomini per dopo prendersi gioco di loro, e che ride a crepapelle se vogliono dare la scalata al Cielo, e che si diverte a tormentare inutilmente gli uomini, così come fece inutilmente morire sulla croce il Figlio”. La crocifissione di Gesù non ha redento il genere umano, spaccato in due dall’abisso delle differenti e incolmabili condizioni sociali. La Città del Papa, col caravanserraglio delle confessioni, delle indulgenze e dei giubilei e con la moltiplicazione dei santi, ha solo reso inutile il Diavolo. La Città del Papa è nata sulla città di Romolo e Remo, dell’odio fratricida. Resta la capitale di un “mondaccio” su cui grava il peccato di Caino, che ha protestato invano contro i privilegi di Abele, il preferito da Dio e l’ultra-raccomandato. Nella Città del Papa la disuguaglianza non è solo nelle ricchezze o nella possibilità di alimentarsi; si è disuguali anche di fronte alla religione, il peccato dei poveri vale poco nel mercato delle indulgenze. E se mai si può pensare di uscire da questa città e da questo mondo, si troverebbe moltiplicata all’infinito la nostra storia sacra e profana. E se gli altri mondi fossero mai abitati, il Papa penserebbe ad estendervi il suo dominio, ad allargare i confini del suo potere.

Belli ha voluto rappresentare il Papa vedendolo da tutti i lati. E quando lo colloca più su della cronaca spicciola, quando lo vede nella situazione fantastica fondamentale del suo dramma, allora il personaggio assurge all’altezza non solo della commedia ma della tragedia romana. La teocrazia come tirannide senile.

E’ chiaro alla coscienza del nostro poeta che l’inattuabilità del progresso a Roma è dovuta all’onnipotenza del papa, il proconsole di Dio. E in tanti modi sono spiegati i simboli e le forme di questo immenso potere vòlto all’oppressione dell’uomo. Il sostantivo “papa” è in assoluto la parola più citata nei sonetti belliani, a rimarcare l’ossessiva presenza del Vicario di Cristo. Nella sua doppia natura di capo spirituale e politico, o –se si vuole- di capo politico in quanto spirituale, egli dovrebbe essere l’uomo più impegnato e sollecito a risolvere il problema della divisione in classi e dell’ingiustizia: invece è sempre uguale a se stesso, eterno e immutabile, chiuso nel suo sovrano disinteresse per l’umanità dolente, teso solo a realizzare il suo sogno di potenza. In margine al sonetto, “Cosa fa er papa?”, Belli scrive una nota che dovrebbe far accettare la scoperta eterodossia dei suoi versi all’eventuale opinione pubblica: “Se fosse vero quello che qui asserisce il nostro romano, potrebbe San Pietro ripetere quanto già disse di Bonifacio: “Quegli che usurpa in terra il luogo mio,/ Il luogo mio, il luogo mio che vaca / Nella presenza del Figliuol di Dio”, stendendo una cortina fumogena e nascondendosi dietro il severo giudizio di Dante.

A un sovrano di questo tipo quali sudditi possono corrispondere? Se lo scandalo irrimediabile è nella testa del corpo sociale, come meravigliarsi se poi nel popolo trionfano l’indolenza e l’apatia? Il papa proiettandosi nell’aldilà dà al Belli l’idea di Dio, il popolano romano proiettandosi nella storia diventa Caino, l’infelicità umana proiettandosi nell’eternità diventa l’ossessione dell’inferno. Non sarà una casualità inspiegabile ma lo Stato del Papa vedrà nascere nei suoi confini, nello stesso decennio, Belli e Leopardi, rappresentanti importantissimi, anche se diversi tra loro, del pessimismo di estrazione post-illuministica del XIX° secolo.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

        

“Le risate der Papa”                           17 novembre 1834

 

Er Papa ride? Male, amico! E’ segno

ch’a momenti er zu’ popolo ha da piagne.

Le risatine de sto bon padreregno

pe noi fijastri sò sempre compagne.                                         4

 

Ste facciacce che porteno er triregno

s’assomijeno tutte a le castagne:

belle de fora, eppoi, peddìo de legno,

muffe de drento e piene de magagne.                             8

 

Er Papa ghigna? Ce sò guai per aria:

tanto più ch’er zu’ ride de sti tempi

nun me pare una cosa necessaria.                                            11

 

Fiji mii cari, state bene attenti.

Sovrani in alegria sò brutti esempi.

Chi ride cosa fa? Mostra li denti.                                               14

 

Il Papa ride? Amico mio, è un brutto segno. Significa che presto il suo popolo dovrà piangere. Le risatine di questo buon patrigno per noi figliastri seno sempre uguali, hanno sempre gli stessi risultati. Queste facciacce che portano il triregno (il copricapo con le tre corone sovrapposte, simbolo del potere papale) somigliano tutte alle castagne: belle fuori, e poi, perdio di legno, ammuffite dentro e piene di magagne. Il Papa ghigna? Per l’aria volano guai: tanto più che il suo ridere di questi tempi non mi sembra una cosa necessaria. Figli miei cari, state bene attenti. Sovrani allegri sono brutti esempi. Chi ride cosa fa? Mostra i denti.

 

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, EDE).

 

Le quartine.

Il papa detiene il massimo potere perché è il Vicario di Cristo. Sulla diade patrigno-figliastri Belli annotava: “Il nostro romanesco ha ragione. Noi difatti siam figli di Gesù Cristo e della Chiesa sua sposa, la quale, morto il primo marito, è tornata a tante altre nozze, e non cessa malgrado della sua decrepitezza”.

In questo sonetto il Belli, più che assumere le vesti del popolano, si atteggia a pedagogo che vuole ammaestrare il suo uditorio e insiste sul contrasto tra l’allegria del potere e la sofferenza dell’umanità dominata. Se anche qualche papa può assumere atteggiamenti formali diversi, sostiene il nostro autore, la natura della teocrazia (e più in generale del potere) è quella per cui i sudditi sono sempre “fijastri”.

Le terzine.

La terza strofa riprende l’inizio della prima, solo che il ridere si è trasformato in un ghignare. E quel mostrare i denti alla fine rivela quasi un atteggiamento ferino. Basterebbe questo testo nel quale il nostro poeta si mostra di un’eccezionale violenza (ma ce ne sono di ancor più aspri) a smentire quanti vorrebbero vedere nell’anticlericalesimo del Belli un gusto superficiale per la satira di costume. Qui c’è ben altro, c’è la rivolta morale contro un sistema ormai bacato, proprio come la castagna cui il papa è paragonato (“belle de fora, muffe de drento”).

 

A contrasto radicale con questa rappresentazione vi presento la cronaca di un fatto del tutto inusuale avvenuto tredici anni dopo, il 28 gennaio 1847, e che dimostra –a mio parere- la grande capacità della Chiesa cattolica (istituzione bimillenaria) di recuperare un ruolo caritatevole e misericordioso. Da poco più di sei mesi era stato fatto papa il cardinale Mastai Ferretti, che aveva assunto il nome di Pio IX. E il nuovo pontificato era stato accolto da un grande favore popolare, con manifestazioni di giubilo, luminarie e fiaccolate, cortei e dimostrazioni. Una sera di quel gennaio:

 

Una visita de nov’idea

 

Ar terzo momoriale ecco una sera

Sente sonà a la porta er campanello,

Opre, e vede du’ abbati, uno arto e bello

L’antro ppiù basso e de grazziosa cera.                          4

 

Allora er primo, co bona maggnera,

La salutò cacciannose er  cappello:

“E’ lei”, dice, “la vedova di quello

Che legava le gioglie? E’ lei che spera…”                        8

 

Ma qui, mentre l’abbate, bono bono,

Seguitava a pparlà co ttant’amore,

‘Na fijetta strillò: “Mamma, è Ppio nono!”                     11

 

Cosa vòi! Quela povera pezzente,

Stette guasi lì lì ppe avé l’onore

De morije davanti d’accidente.                                        14

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

 

                            Una visita del tutto inedita

 

Il nuovo papa Pio IX inaugura un’usanza del tutto inusitata nell’ambiente papalino del tempo: va a trovare, senza avviso ed in incognito, una povera vedova malata.

Dopo che la famiglia dell’inferma aveva inviato la terza supplica che invocava un soccorso, ecco che una sera la famiglia sente suonare il campanello della porta, apre e vede due sacerdoti, uno alto e bello, l’altro più basso e con un viso sorridente. Il primo prete, con buone maniere, salutò la signora togliendosi il cappello e disse: “E’ lei la vedova di quello che incastonava le pietre preziose? E’ lei che spera… (in un soccorso)”. Ma qui, mentre l’abate, buono buono, continuava a parlare con tanto amore, una piccola figlia strillò: “Mamma, è Pio Nono!”. Cosa vuoi? Quella poveretta fu sul punto di avere l’onore di morirgli davanti d’infarto.

Questa chiusura sciupa il fascino della prima parte della poesia.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello