Compagnero Giacomo Leopardi

Compagnero Giacomo Leopardi

Cinismo. Indifferenza. Soprusi sulla natura. E un enorme bisogno d’Infinito. Perché nel buio di oggi i versi del poeta possono guidare la resistenza al dolore e al male.

 

L’autore, Antonio Moresco, ha vinto il Premio Leopardi nel 2019, nei 200 anni de “L’infinito”. Questo testo è parte del discorso pronunciato in quell’occasione.

 

Leopardi è uno scrittore insurrezionale, è un poeta e un pensatore insurrezionale. In Italia e nel mondo ci sono stati molti scrittori di valore e anche grandi e grandissimi, ma pochi a mio parere sono quelli che si potrebbero definire insurrezionali. Nella nostra letteratura mi vengono in mente soprattutto Dante e Leopardi. Nell’Ottocento e nel Novecento penso a scrittori come De Roberto, Tozzi e, per il suo scarto e scatto finale, Pasolini. E poi c’è Pinocchio, il nostro piccolo burattino insorto. Nelle altre letterature mi vengono in mente soprattutto Cervantes e Shakespeare, e poi Melville, Balzac, Dostoevskij, Kafka…

Sono scrittori che, ciascuno a suo modo, mettono in atto un fronteggiamento più verticale e più ampio, che non si limita solo ai contenuti culturali, storici, secolari, alle loro proiezioni letterarie e figurazioni psicologiche e sociali e al trascolorare di natura e cultura, ma che osano tormentare e sfidare i confini, i cardini stessi della vita e del mondo. In questi scrittori la ferita non è mai sanata, si vede il doloroso formarsi della perla.

Come in Leopardi, poeta scrittore e pensatore inconciliato, inarreso, che sta sempre su un crinale estremo, sul limite di un crepaccio, che non occulta la lacerazione insanabile che attraversa la vita, il pensiero e il canto, la lacerazione tra uomo e natura e tra uomo e mondo, tra realtà e immaginazione e illusione, tra ragione e passione. Leopardi mi si presenta così: “Io sono il gobbo dei Leopardi, pensatore e poeta solitario e irriso, imprigionato in un corpo vile, vissuto in un deserto freddo, in un mondo orribile e alieno, da me amato fino allo spasimo, un mondo che ho sfidato e cantato con la fiamma del pensiero e del verso”.

Stiamo vivendo anche noi in un Paese e in un mondo che appare sempre più orribile e alieno. E per di più cieco, ottuso, feroce, incorreggibilmente suicida. Abbiamo bisogno di uno sguardo insurrezionale, per tentare di riaprire le possibilità della nostra vita personale e di specie, imprigionati come siamo in un meccanismo biologico e concettuale che sembra incapace di modificazione e che può solo sperare in un salto di piani, in una metamorfosi.

L’Italia è un Paese fratricida: nella politica, nella vita sociale, in ciò che resta del mondo culturale. Certo, non è solo questo, ci sono al suo interno anche persone singole e gruppi umani che si muovono in direzione opposta, che non accettano, che non si fanno complici di un simile stato di cose. Ma quando dà il peggio di sé l’Italia è soprattutto questo. Sembra incapace di attingere a qualcosa di superiore che affratelli in una comune visione e missione. Ancora nei primi decenni dell’Ottocento Leopardi lo aveva capito e lo aveva scritto nel suo “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani”, dove individua nel cinismo che sostanzia e accomuna le sue classi alte e quelle basse il male che corrode la spina dorsale del nostro Paese. Cinismo, indifferenza, disillusione e nichilismo che diventano particolarismo, opportunismo, trasformismo, mancanza di ogni visione del bene comune. E così anche adesso, tanto più adesso che la forbice sociale si sta di nuovo allargando, che siamo di fronte all’erompere di nuovi gruppi umani gettati continuamente a riva dalle risacche genetiche, politiche, economiche, finanziarie, riplasmati e resettati attraverso i sempre nuovi strumenti tecnologici e digitali, di nuove migrazioni di popoli che vanno a formare veri e propri anelli di miseria attorno alle città e metropoli del nostro Paese e del mondo e che ricordano la condizione disperata e ribollente ma anche infinitamente manipolabile dei miserabili dell’Ottocento.

Come Dante in pieno Medioevo (e quando l’Italia come entità politica oltre che geografica non esisteva ancora) aveva visto e divinato il suo cuore infernale, così anche Leopardi, in un altro tempo e in altra condizione epocale e mentale, ne ha portato allo scoperto con la sua disperata lucidità il suo nichilismo terminale autoconsolatorio e autoassolutorio, ormai privo di lacerazione e di urto dinamico e veritativo. Per questo Leopardi è scomodo, era scomodo ieri ed è scomodo anche oggi, se non lo si legge in modo culturalistico e addomesticato.

E’ scomodo per un mondo politico privato di ogni visione e di ogni trascendenza, che può perpetuarsi solo mettendo gruppi umani gli uni contro gli altri invece che moltiplicandone le forze in vista della sfida impossibile che ci attende, ormai ridotto solo a a maschera di un dominio economico e finanziario imploso e senza ritorno. Per quello economico, che crede di potersi perpetuare attraverso una meccanica astratta e orizzontale di crescita esponenziale in un contenitore planetario chiuso; per quello culturale, fatto per lo più di piccole caste residuali che si auto-cooptano attraverso la pratica del riconoscimento tra simili e del dare-avere, di corti, di giri, invece che tendere verso uno sfondamento dei possibili e prefigurarlo, che svolge un lavoro di cimiteriale controllo del territorio, cercando tutt’al più di arraffare qualche briciola stando all’interno delle stesse logiche e dello stesso gioco, qualche istante prima che le luci si spengano nella sala.

In questo senso Leopardi, pur essendo un nobile, era un senza casta, era ed è un poeta e un pensatore insurrezionale perché, anche se è senza speranza o forse proprio per questo, può chiamare a un’insurrezione umana contro il dolore e il male che tengono in pugno il mondo, perché in lui la lucidità non diventa cinismo, perché in lui la mancanza di ogni consolazione non diventa quel nichilismo soft su cui si è attestata quasi tutta la cultura e l’ideologia di questa tarda modernità, perché ci mostra il buio in cui siamo immersi ma tiene anche aperta la strada dell’inconciliazione con il mondo e con il male del mondo, unica possibilità, eroica e fiabesca, di fratellanza umana fondata non sulla speranza ma sull’illusione creatrice e sull’insperanza.

Ma Leopardi ci apre anche uno scenario infinitamente più grande, uno scenario planetario, uno scenario cosmico, che ha a che vedere con la nostra condizione di naufraghi nello spazio, di specie che si crede il centro dell’universo ma che è invece solo un piccolo granello dentro una grande e universale macina di produzione e di distruzione. Anche se allora Leopardi non poteva sapere quello che sappiamo oggi, e che cioè la nostra specie si trova di fronte a un punto di non ritorno, sulla soglia non solo ipotetica ma anche reale e ravvicinata di un’estinzione di specie che gli scienziati hanno già calendarizzato come sesta estinzione, dopo la quinta che è stata quella dei dinosauri. Leopardi poteva immaginarlo, presagirlo, prefigurarlo con la sua mente radicale, ma non poteva sapere quello che sappiamo oggi e che gli scienziati ci stanno dicendo, e cioè che di lì a pochissimo, di lì a due soli secoli da quando scriveva il “Dialogo della natura e di un Islandese”, questa prospettiva sarebbe stata in procinto di diventare realtà, a causa della delirante accelerazione che una specie appena nata avrebbe impresso negli ultimi secoli e che ha devastato il rapporto con il suo habitat planetario, in una corsa cieca che ha l’aspetto di un’allucinazione collettiva terminale. E che per di più lo sarebbe diventata di fronte all’indifferenza terminale della maggioranza degli individui di questa stessa specie, imprigionate nella morsa delle proprie strutture di potere e pensiero e nelle loro metastasi, incapace di modificare di un millimetro la propria rotta. Preda di un incantesimo collettivo che mi pare non si riesca a spiegare se non con quella che Freud, un secolo dopo Leopardi, ha chiamato pulsione di morte.

E allora, allargando l’orizzonte, viene da domandarsi: come è stato possibile che questa specie, che si è autoproclamata la più intelligente, in sole poche centinaia di migliaia di anni sia arrivata a questa implosione, mentre la vita media delle altre specie è di circa cinque milioni di anni? Perché la nostra presunta intelligenza è stata volta quasi esclusivamente al male, al proprio stesso male? Perché il male è nell’ordine?, come dice Leopardi.

Non è vero (come ci illudiamo abbandonandoci a un’estrema consolazione antropocentrica) che siamo noi a dover salvare il nostro pianeta minacciato dalla nostra aggressiva presenza. Perché è certo che, anche quando gli uomini non ci saranno più, il nostro pianeta continuerà a vivere per qualche miliardo di anni, fino a quando il sole si spegnerà, diventerà una gigante rossa e poi una nana bianca. La terra sanerà in fretta le ferite che le abbiamo inferto, il mondo vegetale si riprenderà inarrestabilmente i suoi spazi, nuove specie viventi e nuove metamorfosi avverranno ininterrottamente dentro di esso, una volta liberato dall’effimera e devastante presenza di una specie rapace.

Per salvarci noi dovremmo diventare il punto di partenza di qualcosa di inaudito: di una metamorfosi di specie. Il pensiero di Leopardi, il suo pensiero e il suo canto, sono tra quelli che ci possono attrezzare in vista di una simile sfida, non solo in senso concettuale ma anche sentimentale, con il suo unire intelligenza e passione, con il suo fare appello non solo alle forze razionali e mentali ma anche ad altre forze dormienti e latenti dentro di noi e che a questo punto abbiamo un disperato bisogno di svegliare e dissotterrare, perché se l’inizio è sempre una fine anche la fine è sempre un inizio, la vita e la morte non sono i due poli e i due opposti che la nostra cultura ha artificialmente separato, sono una cosa sola.

                                                                 

                                                        Antonio Moresco

 

(articolo pubblicato nell’Espresso del 28 luglio 2019, pp. 71-73)