Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. 14° puntata. 29 marzo-3 aprile 1799. “Nel ‘700 si limita la proprietà ecclesiastica, aumenta lo sfruttamento dei contadini. Tra i repubblicani cresce il malcontento antifrancese”

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Quattordicesima  puntata. 29 marzo-3 aprile 1799. Nel Settecento: limitazione della proprietà ecclesiastica, un più accentuato sfruttamento del lavoro contadino. Tra i repubblicani di Napoli cresce un malcontento anti-francese. Quale fu l’effettiva capacità politica dei giacobini napoletani? Primi contrasti tra il cardinale Ruffo e la Corte di Palermo sull’uso della “clemenza” verso i repubblicani sconfitti.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 29). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”.  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

29 Marzo. Venerdì. Napoli. Presentimenti di crisi. Mentre si parla di Andria distrutta, e si vende stampato un dettaglio di quella spedizione che fa ascendere i morti a 10mila, si susurra, che l’altra spedizione di truppa nazionale mandata verso il Cilento e Calabria, sia stata rotta e disarmata e massacrata, per cui molti pochi ne sono tornati in Napoli. Ma queste notizie si tengono celate, e ciascuno le dice con riserva, perché il Tribunale rivoluzionario procede ad arresti, e fa quello stesso che si condannava in persona dell’ex Re. Di questo si dice che sia venuto fino a Napoli un proclama, col quale assicura di tornare di breve con potente esercito, e riportare quei milioni, che non aveva avuto idea di appropriarsi, ma di sottrarli alla rapina francese. Accorda il perdono a tutti quei che hanno prese le armi contro di lui nel Regno, se fra il termine di giorni 15 daranno prove del loro attaccamento alla Corona, minacciando in caso contrario della sua indegnazione chi persistesse nella rivolta. Intanto non si sa se egli abbia forze tali da riacquistare il perduto. Sappiamo solo, che i Francesi non hanno forze da tenere in soggezione il Regno, non dico di respingere un’aggressione, ed in conseguenza siamo sempre più vicini a trovarci in mezzo ad una nuova crisi” (De Nicola, 115).

Dalla limitazione della proprietà ecclesiastica ad un più accentuato sfruttamento del lavoro contadino. “Nel Regno la prima fase dell’attacco contro la proprietà di tipo feudale si era sviluppata con il giurisdizionalismo, nella misura in cui questo, come movimento teorico-pratico, non si era limitato a propugnare la rottura dei vecchi vincoli giuridici tra la Chiesa e lo Stato, ma aveva investito la proprietà ecclesiastica nel senso di una reale e diretta limitazione della sua estensione. Effettivamente si cercò, durante tutto il ‘700, di porre un limite alla proprietà ecclesiastica, di impedirne l’espansione, di ridurla, colpendola non solo nei diritti e nei privilegi ad essa legati, ma anche nell’estensione e quindi nella sostanza. Quest’opera, che sembrò, in certi momenti, decisa a spingersi sino alle ultime conseguenze, si fondava sulla coscienza concretamente “pubblica” che doveva avere il patrimonio ecclesiastico, coscienza che il movimento anticuriale meridionale aveva diffuso e fatto penetrare profondamente nella cultura e nella vita politica del Regno. Questa lotta contro uno dei pilastri della struttura feudale mise in libera circolazione notevoli estensioni di terre, requisì per conto dello Stato fonti di introiti cospicui, ma non migliorò e ammodernò i rapporti di produzione e di lavoro, lasciò immutati i sistemi di conduzione colonica, di subaffitto, di anticipazione di sementi e di denaro e, infine, lo stesso quadro generale della distribuzione della proprietà fondiaria. Sulla questione della limitazione dei beni ecclesiastici si era creato in realtà un fronte unico che andava dalla nobiltà –per la quale si trattava probabilmente di deviare verso le terre ecclesiastiche la lotta antifeudale- alla borghesia terriera e cittadina –questa per l’esigenza di una maggiore facilità di investimenti in acquisti di terra, l’altra anche perché la riduzione e la crisi della proprietà ecclesiastica facilitavano la trasformazione in atto dei rapporti tra coltivatori e proprietari-, agli stessi contadini che aspiravano alla definitiva conferma di possessi enfiteutici, a liberarsi da antichi censi, decime, vigesime, ecc. Se, in generale, il trasferimento dei beni ecclesiastici a nuovi proprietari laici non portò un sensibile ammodernamento dei processi produttivi e un aumento di investimento di capitali sulla terra, i rapporti tra coltivatori e proprietari ne risultarono inaspriti e aumentò, nel quadro delle tradizionali forme contrattuali, la pressione sui coloni ed i piccoli affittuari. Rimase immutato, per esempio, il sistema di subaffitto là dove esso vigeva in precedenza; ma aumentò quasi sempre il canone pagato dall’affittuario al proprietario e, di conseguenza, anche il canone dei subaffitti. “Non è dunque meraviglia –osservava Luigi de’ Medici al termine della sua missione in Calabria nel 1790- che i Calabresi reclamino contro la soppressione dei Monasteri, ed è grande inganno il credere questi clamori quasi reliquie dell’antica superstizione. Mi si creda di grazia, non sono così balordi che se questi beni si fossero impiegati a vantaggio loro, la vera religione ne avrebbe sofferto detrimento”. Nello stesso tempo l’aumento dell’immissione di prodotti agricoli nel mercato avveniva nel quadro della formazione di una nuova struttura fondiaria, in cui l’elemento dominante tornava ad essere la proprietà latifondistica, che sorgeva o si consolidava sulla base quasi esclusiva di un più accentuato sfruttamento del lavoro contadino e di una generale pressione sui consumi rurali, senza sostanziali modificazioni nei rapporti produttivi. L’impoverimento del colono e del piccolo affittuario (la colonia e il piccolo affitto restavano, comunque, le forme fondamentali di conduzione), la diminuzione dei salari bracciantili e l’aumento delle ore di lavoro, il soffocamento delle piccole proprietà attraverso le riserve di sementi e le anticipazioni usuraie, la lotta contro le terre comuni (l’ultimo residuo di indipendenza del contadino povero), e quindi l’assorbimento sempre più radicale dei prodotti dell’industria domestica, erano elementi in parte comune nel ‘700 ad altre zone agricole dell’Europa: ma nel Mezzogiorno essi erano insieme il fondamento della formazione di un nuovo monopolio terriero e i soli elementi su cui si fondava lo sforzo dei grandi possedimenti di adeguarsi allo sviluppo generale dell’economia europea e di soddisfare alle maggiori richieste del mercato internazionale” (R. Villari, pp. 18-20).

30 Marzo. Sabato. Napoli. Abrial è in città, inviato dal Direttorio francese col compito di procedere ad una riforma dell’ormai caotico assetto istituzionale della Repubblica napoletana. Viene arrestato Jullien, segretario generale del Governo Provvisorio, legato a Championnet.

31 Marzo. Domenica. Napoli. Dimissioni di sei rappresentanti del Governo Provvisorio per protestare contro l’appoggio dato dal generale MacDonald alle pretese del commissario Faypoult.

“Si susurra che notti sono fu tentato di sorprendere Sant’Elmo, e che per poco non fu preso. Grandi partiti vi sono, e forse siamo sempre più vicini a nuova crisi sanguinosa” (De Nicola, p. 117). Chi furono gli autori del tentativo? Patrioti malcontenti?La crisi era anche nel partito stesso repubblicano. Molti erano i patrioti malcontenti.  Patrioti alla venuta dei Francesi di fronte alla minaccia di un saccheggio dei Lazzaroni erano divenuti tutti quanti avevano qualcosa da perdere, senonché costoro avevano molto sofferto in quei primi due mesi di Repubblica per le condizioni generali economiche del paese, per il venir meno di commerci e di piccole industrie, per l’alto costo della vita, per la crisi monetaria e finalmente per le forti contribuzioni imposte dai Francesi. A quei malcontenti si aggiungevano i molti “paglietti”, delusi per non avere ottenuto tutti gli onori e gli uffici, che credevano di meritare qual premio del loro ciarliero patriottismo. E malcontenti infine erano i veri patrioti, che amavano sinceramente la libertà, e che avevano creduto ai Francesi liberatori. E’ quanto mai significativa a tal proposito la lettera del 6 marzo di Ignazio Ciaja al fratello Antonio che si trovava a Parigi: “Sinora non abbiamo che lagrime, non felicità!…La Francia ci lasci respirare un poco!… E’ un distruggere ogni germe di futuro bene se una mano di gelo s’abbassa sopra di noi, e ci sterilisce! Io non veggo che tombe”. Il malcontento tra i patrioti, e i dissensi tra essi, si manifestarono sempre più vivacemente durante il marzo. Il Faypoult, il rapace commissario francese cacciato da Championnet, era tornato a Napoli col MacDonald a riprendere l’opera sua interrotta. Non valsero le suppliche e le vivaci rimostranze. Al MacDonald e ai commissari francesi che vantavano il diritto di conquista rispondeva fieramente il Manthoné: “Uscite da Napoli, restituiteci i forti, e poi venite a conquistare la città!”. Magnifiche parole, le quali peraltro mettevano nell’avviso i Francesi di non permettere che i forti fossero presidiati (come in principio si era stabilito) da Francesi e da patrioti napoletani e a non fidarsi troppo della guardia civica. I castelli da allora furono presidiati solo da Francesi. In tali condizioni dovevano i veri patrioti ben comprendere la necessità della propria indipendenza come prima condizione per essere liberi. Quella crisi pertanto che nella Cispadana aveva dato origine alla Società dei Raggi, dei patrioti indipendenti, dovette agitare l’animo di alcuni dei patrioti napoletani fin dai primi giorni della Repubblica. A questo stato d’animo dei patrioti si riferisce la notizia data dal Bonelli, l’incaricato di affari del Piemonte a Napoli: “Alcuni malcontenti vorrebbero fare un atto di indipendenza all’uso americano, ma non lo sanno nemmeno estendere, e i loro discorsi sono figli d’ingratitudine contro i liberatori di Napoli”. Dunque, dal febbraio al marzo, dall’imposizione di guerra alla dichiarazione dei Beni nazionali, si era venuto ingrossando un partito di patrioti dissidenti da quelli del governo provvisorio e malcontenti dei Francesi” (Rodolico, pp. 297-301).

Molfetta (Puglia). Gli insorti liberano i prigionieri repubblicani, tolgono le bandiere e i ritratti regi, accettano di arrendersi ai francesi.

1 Aprile. Lunedì. Trani (Puglia). La città è conquistata dalle truppe francesi e dalla Legione del Carafa. “La sera del 30 marzo si avanzarono intorno la città le truppe nemiche. Il giorno seguente viepiù la strinsero e vi furono delle ostilità. Il generale nemico più volte, e prima da Barletta, indi dal campo, cerca di persuadere a rendersi. Non si ascoltarono tali proposizioni che con isdegno. Ma questa mattina, essendosi da tutte le parti attaccata la città dai nemici per terra e per mare da una flottiglia preparata in Barletta, si diedero alla già concertata fuga e con essi principalmente il Filisio, scappando sopra le barche peschereccie ch’erano in porto ed uscendo da questo nonostante la detta flottiglia che un colpo di vento tiene allontanata. Gli altri armati fecero qualche piccola resistenza ma poi, vedendosi da quelli che credevano più bravi abbandonati, non incoraggiati da coloro che potevano farlo, perché erano in arresto i migliori, e non avvezzi al fuoco vivo, fuggirono anch’essi e la città rimase preda del furore dei barbari nemici che viepiù s’inferocirono non trovando qui partito, benché piccolo, che fosse favorevole”. Ettore Carafa, nel comunicare al Governo Provvisorio la caduta di Trani, così concludeva il suo rapporto: “Tutti i soldati ed ufficiali della mia Legione anelano il momento di presto purgare queste belle contrade dalle macchie vergognose del fanatismo e restituire alla Patria quei figli che l’inganno ha traviato, ma che la Libertà e la Ragione dee per sempre riunire sotto i suoi stendardi” (Pedio, pp. 203-4).

2 Aprile. Martedì. Napoli. Le esose richieste francesi. “Si è publicato decreto del generale MacDonald, che contiene la dichiarazione dei beni appartenenti alla Nazione francese, che sono le case del Re e famiglie nella città di Napoli, escluso il solo palazzo Nazionale, le case di delizie, castelli, patrimonii Regii e caccie, dritti di possessione acquistati pel Re e per la sua famiglia, sotto condizione di censi e di canoni annuali o di convenienze. I beni Medicei, Farnesiani e Borbonici, le manifatture appartenenti al Re situate nelle sue proprietà e altrove. Le mercanzie e depositi dipendenti dalle dette manifatture. I pagamenti maturati delle contribuzioni dirette, indirette, ordinarie e straordinarie, scadute nel momento dell’entrata dei Francesi sopra ciascuna parte del territorio Napoletano. Le porzioni maturate di quello che ancora era dovuto al Tesoro Reale dai compratori dei beni venduti dall’antico governo. I beni dell’Ordine di Malta, Ordine Costantiniano, ed ogni altro Ordine di Cavalleria Napoletano. E quello che dai compratori è dovuto, ma non maturato, si lascia sospeso fino alla determinazione del Direttorio di Parigi. Questo decreto ha sempre più accresciuto il disgusto della Nazione, ed i patriotti fremono. Il Governo si dice che non abbia voluto approvarlo, e che cinque rappresentanti abbiano rinunciato” (De Nicola, p. 122).

Lettera del Comitato Centrale della Repubblica napoletana ai Deputati della Delegazione della Repubblica a Parigi: “Cittadini, Vi abbiamo scritto alcune lettere, che non sappiamo se vi siano pervenute per lo disordine delle poste. Del qui annesso decreto del generale in capo MacDonald, vedrete sin dove si estendano le pretensioni della Commissione civile francese, e quale ampia interpretazione voglia darsi all’art. 7° del famoso decreto di Championnet circa la riserva dei beni appartenenti al Re e sua famiglia a titolo privato. Vi si accludono ancora la nostra risposta e le nostre osservazioni a ciò relative. Non possiamo dissimularvi che la persistenza del Generale in capo di tali pretensioni, sostenuta con tutta la vivacità militare, e la pubblicazione imperiosa del suo decreto non abbiano molto allarmato gli spiriti della Nazione. Noi non abbiamo mancato di rilevare alle autorità francesi li cattivi effetti (…) E’ però verissimo che il ritardo della conclusione definitiva di un tale affare ci sia dannosissimo, perché ci mette fuori del caso di operare su dei beni nazionali per lo ristabilimento dei nostri Banchi e delle nostre carte, che ormai perdono il 70 per cento; giacché la confidenza pubblica non può nascere sopra beni, che sono in controversia e sopra dei quali ancor si fa sonare il dritto di conquista (…) Lo stato delle nostre finanze è nell’ultimo decadimento, né può essere altrimenti, atteso le universali insorgenze, che ci privano di ogni risorsa, intercettando il commercio, e devastando, saccheggiando e dilapidando tutto. Gli insorgenti cominciano a dare il guasto; e l’orrore della guerra, che si fa per debellarli, lo termina. La Repubblica, almeno per questo ramo, non è che nelle mura di Napoli, e Napoli non rende niente: ciò non ostante, si deve soggiacere alle gran spese, che porta un’armata forestiera di 32mila uomini e 10mila cavalli, in un tempo ove la difficoltà dei trasporti raddoppia il prezzo delle derrate; e a tante e tante spese d’ogni genere. Immaginatevi in quale desolazione debba trovarsi il Governo, fra un’assoluta mancanza e tante necessarie ed imperiosissime domande. Se almeno si fosse sanzionata la legge per l’abolizione dei Feudi, la quale, formata già da un mese, è attesa ansiosamente dai popoli, una gran parte dei quali è insorta ed insorge per lo ritardo di questa legge sì giusta e salubre, potremmo sperare di sedare le insorgenze e di tranquillizzare le provincie; ma l’intrigo baronale, che si agita in tutti li sensi e per tutti gli mezzi diretti ed indiretti, non risparmiandola né a cure né a sacrifizi, ha trovato il modo di sospenderne la sanzione da oltre un mese. Che volete dunque sperare da un popolo, cui si predica la libertà con parole, nel mentre vien ritenuto di fatti nei ceppi della più odiosa servitù? La legge è ben considerata, è giusta e generosa più tosto per gli baroni: tutta volta soffre ritardi…(Fondo Ruggiero, ff. 53-54). Sembra che alla lettera manchino alcune pagine (Croce, pp. 298-301).

“Negli stessi giorni un altro importante momento di scontro tra i patrioti si ha sulla questione della tassa per la coscrizione generale della Guardia Nazionale. A Russo, sostenitore del principio della progressività dell’imposta insieme a Pagano, si oppongono Giuseppe Pignatelli e Marcello Scotti. Il conflitto si risolve con l’approvazione, da parte della Commissione Legislativa, della quota unica di contribuzione per tutti i ceti sociali, con le conseguenti dimissioni di Russo dal governo” (Sani, p. 44).

Quale fu l’effettiva capacità politica dei giacobini napoletani? Secondo una tesi vecchia che risale al Cuoco ed è ripresa dal Croce, l’azione dei giacobini napoletani sarebbe caratterizzata dall’astrattezza teorica e dall’incapacità di affrontare con senso realistico i problemi del momento. Saremmo cioè di fronte a “grandi idealisti e cattivi politici”, la cui carenza di senso politico avrebbe determinato la rovina della Repubblica. Una tesi più recente vuol vedere in essi, invece, dei politici più realisti che cercano di adeguarsi alla situazione italiana. In realtà una soluzione unitaria sarebbe forse azzardata. Tuttavia è possibile confutare una delle accuse più gravi che si fanno ai giacobini napoletani: l’astrattezza del loro programma. Prima di discutere su questo punto è necessario ricordare che la nascita e il crollo della Repubblica furono condizionati dalle sorti dell’occupazione francese. Né si deve dimenticare la brevità estrema del tempo che ebbero a disposizione i patrioti per cercare di realizzare qualcosa: in meno di cinque mesi ben poco si poteva fare di concreto e di valido. Oltre tutto essi si trovarono a dover lottare per la sopravvivenza quotidiana, intralciati da un lato dalla situazione drammatica del paese dopo la fuga del re, ostacolati dall’altro dai francesi, in particolare dal Faypoult, che non si preoccupava d’altro se non di spremere fino all’assurdo i limoni napoletani. Di qui non l’astrattezza dei provvedimenti, ma la loro farraginosità. Quel che mancò ai napoletani nel 1799 non fu il senso politico ma la possibilità solo di ordinare secondo un programma i provvedimenti legislativi. La raccolta del Colletta e i provvedimenti riassunti dal De Nicola e dal Marinelli nei loro diari fanno intendere che si trattava di affrontare ad horas i problemi più svariati, cercando di dare una parvenza di ordine alla confusione che regnava incontrastata. Così, ad esempio, quasi ogni giorno si pubblicavano norme sugli alloggi per la truppa francese, sulle requisizioni dell’armata, sui rapporti fra soldati e civili. Un altro gruppo di norme riguardava la ricostituzione dell’esercito e la formazione della guardia nazionale. Un altro ancora le contribuzioni richieste dai francesi e mai completamente soddisfatte e, collegate con queste, le norme abbastanza frequenti per fissare i prezzi delle derrate alimentari. Inoltre bisogna ricordare il carattere meno contingente dell’elaborazione di taluni principi d’importanza generale, per merito soprattutto del Conforti, come quelli relativi ai rapporti tra Stato e Chiesa. Come si vede poco fu fatto, e in fretta, sotto l’assillo della sconfitta militare, della svalutazione monetaria, della fame: ma quel che fu fatto fu certamente molto concreto. Si può quindi concludere osservando che uomini, forse portati più alla speculazione che alla realizzazione, in definitiva si rivelarono dei buoni amministratori che lasciarono la retorica e l’utopia ai giornali. Anzi, se si esclude quella che forse fu la più grande giornalista del Risorgimento italiano, Eleonora de Fonseca Pimentel, essi quasi mai svolsero attività pubblicistica, riservandosi l’azione politica e amministrativa quotidiana meno appariscente e più ingrata (Battaglini, pp. 22-3).

Trani (Puglia). “Nella mattina uscì il perdono del generale Broussier. Con un suo proclama promise che tutti i naturali di questa Città restavano perdonati, ad eccezione de’ capi tumultuanti e di coloro che avevano commesso il massacro nelle carceri, nel Regio Castello e per la città. Fattosi, dunque, alto al ferro e al fuoco, cui questa città era stata soggetta per la resistenza, il generale fece sentire alla popolazione che dovea badarsi a smorzare il fuoco, a togliere i cadaveri dalle case, a provvedere di pani e di viveri coloro che erano rimasti superstiti. Per la pubblica sicurezza ordinò che il popolo avesse eletto dei Deputati dei quali uno avesse fatto da Capo o sia da Presidente, per un mese per turno, con scegliere, però, persone che avesse creduto le più probe, oneste ed attive” (Pedio, p. 204).

3 Aprile. Mercoledì. Napoli. “Ieri notte fu in arme tutta la milizia urbana, e girò molta cavalleria e fanteria francese, tanto per l’allarme gittato nel popolo dalla venuta dei legni inglesi, quanto perché molti del partito patriotto volevano far violenza al Governo provvisorio, per cui verso le ore 24 si è procurato di far rientrare nel quartiere di Tommaso d’Aquino tutti i soldati civici ch’erano sparsi per la città” (De Nicola, p. 123).

Crotone (Calabria). “Il card. Ruffo scrive al ministro Acton: “Le Calabrie sono ormai interamente ridotte all’ubbidienza del Re, poiché dei paesi ribelli non rimanendo altri di qualche considerazione, se non Corigliano e Rossano: il primo è stato realizzato dal popolo istesso con spargimento di sangue dei ribelli della stessa città e dei Cosentini colà rifugiatisi, e con carcerazioni di alcuni di loro: l’altro, intimorito dall’avvicinamento della mia truppa, ha già mandata una deputazione diretta da quel mons. Arcivescovo con una sua lettera. Questa deputazione non mi ha offerta alcuna soddisfazione. Io ho inviato in quelle vicinanze due vescovi affinché da mia parte chiamino presso di loro il vescovo di Rossano, che ha tenuto nel tempo della ribellione una condotta molto sospetta di adesione al partito repubblicano, e facciano intendere a quella città le mie intenzioni, che sono di avere nelle mie forze i principali rei della ribellione, di avere dieci od otto ostaggi delle persone le meno colpevoli e delle primarie famiglie, di avere 20mila ducati, la metà in 24 ore, l’altra metà tre giorni dopo, cento cavalli e cento vestiti forniti per cavalleria, e le armi almeno per 50 uomini. Non ho ancora avuto risposta; ma verosimilmente accetteranno le mie proposizioni, e tutto al più domanderanno qualche moderazione, che non sono lontano di accordare (…) Oggi sono stati fucilati i quattro principali ribelli di questa città di Cotrone, ch’erano D. Giuseppe Soriano, D. Francesco Antonio barone Lucifero, il capitano D. Giuseppe Ducarne e D. Bartolomeo Villaroia. Essi hanno subita la pena con molta rassegnazione, avendo dati non equivoci segni di pentimento e di religione (…) Riguardo alle intenzioni del Re, relative alla punizione dei rei, non si puole essere così correnti, perché qualora non si facesse vedere la clemenza, i paesi ribelli avrebbero resistito assai di più, ed io avevo bisogno di andare avanti con qualche sollecitudine” (Croce, “La riconquista…”, pp. 94-7).

La Corte di Palermo –sotto l’influenza dell’Acton, invidioso ed ostile al Ruffo, e del Nelson, dispregiatore dell’impresa e del condottiero-, pur mostrando la propria soddisfazione pel risultato ottenuto, non era contenta come il Cardinale agisse verso le popolazioni: il proclama di Mileto e la clemenza usata verso Monteleone e Catanzaro erano dispiaciuti al Re; il quale, invece d’accogliere l’invito più volte fattogli dal Ruffo di porsi a capo dell’esercito, che vittoriosamente avanzava per la riconquista del regno, aveva scritto allo stesso Ruffo il 26 marzo: “solo mi rincresce la troppa dolcezza che usate verso coloro che si sono resi ribelli, e più particolarmente verso coloro che servivano antecedentemente, ed erano impiegati nel servizio”. Il Ruffo nel suo senso pratico credeva che alla monarchia –che aveva lasciato entrare i Francesi in Napoli senza opporsi- non convenisse punire chi, ravveduto, a lei si raccostava e riteneva anzi che al Re giovasse più usare clemenza che rigore. Così si spiega il senso della risposta del 3 aprile” (Serrao, pp. 202-3).

“Ruffo intanto trionfava in Calabria (…) L’impunità, la rapina, il saccheggio, le promesse facili, il fanatismo superstizioso; tutto concorse ad accrescergli seguaci. Incominciò con picciole operazioni, più per tentare gli animi e le cose che per invadere. Ma, vinte una volta le forze repubblicane perché divise e mal dirette, superata Monteleone, attaccò e prese Catanzaro, capitale della Calabria Ulteriore e, passando quindi alla Citeriore, attaccò e prese Cosenza, sede di antico ed ardente repubblicanismo. Cosenza cadde vittima degli errori del governo, perché disgustò il basso popolo coll’ordine di doversi pagare anche gli arretrati delle imposizioni dovute al re, e perché vi costituì comandante della guardia nazionale il tenente De Chiara, profondo scellerato ed attaccato all’antico governo” (Cuoco, pp. 181-2).

 

Nota bibliografica

  • M. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, Firenze, 1973
  • B. Croce, “La riconquista del regno di Napoli nel 1799”, Laterza, Bari, 1943
  • B. Croce, “La rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
  • G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
  • Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  • T. Pedio, “Giacobini e sanfedisti in Italia meridionale. Terra di Bari, Basilicata e Terra d’Otranto nelle cronache del 1799”, Adriatica, Bari, 1974
  • N. Rodolico, “Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale. 1798-1801”, 1926
  • V. Sani, “La Repubblica napoletana del 1799”, Giunti, 1997
  • Serrao De Gregori, “La repubblica partenopea e l’insurrezione calabrese contro i Francesi”, Firenze, 1934
  • R. Villari, “Mezzogiorno e contadini nell’età moderna”, Laterza, Bari, 1961