Repubblica giacobina napoletana. “La sconfitta giacobina e il Mezzogiorno tradito”. 40° e ultima puntata. 16 marzo-27 dicembre 1800.

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Quarantesima ed ultima puntata.  16 Marzo – 27 Dicembre 1800. “La sconfitta giacobina e il Mezzogiorno tradito. Condanne e impiccagioni. Sintesi organica e convincente dell’esperienza repubblicana del 1799. Il malcontento popolare persiste”.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica democratica napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti documentati intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore – nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro, G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975, pp. 28-29). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di Giuseppe Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”.  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche. Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

Sono consapevole che c’è una dimensione di “transizione” che continuamente evoluziona e trasforma la società. La si può definire come l’incontro tra il “tempo corto” delle azioni di ogni giorno e il “tempo lungo” del divenire storico, dei mutamenti socio-economici, politico-istituzionali e comportamentali, nello sforzo di riprodurre non tanto la “quantità” degli avvenimenti (è possibile per tutti?) ma “la qualità”, abituandoci ad applicare a società lontane e diverse parametri d’interpretazione non deformanti sia per lo studio dei fattori economici sia per lo scavo di strutture mentali collettive di uomini e donne. Possiamo trovare risposte ai fatti che indaghiamo solo se sappiamo fare buone domande. Per quanto riguarda la voce “fatto storico” sembra scontato che non ci siano sorprese: siamo nel campo più classico della storiografia ma è sempre opportuno richiamare l’esistenza di due atteggiamenti storiografici canonici, quello positivistico e quello ermeneutico, a parziale contrasto tra loro, e sottolineare che “la valutazione dell’evento” è tuttora uno dei punti più caldi del dibattito. Per intenderci si sono lette una trentina di anni fa, ne “Il sogno della storia” di Georges Duby, frasi –un tempo ereticissime- come queste: “Io credo che un libro di storia sia un genere letterario, che ha a che fare con la “letteratura di evasione”, che soddisfa un desiderio di evadere da sé, dal quotidiano; sono convinto dell’inevitabile soggettività del mio discorso storico (…) Invento, ma mi preoccupo di fondare la mia invenzione sulle basi più solide, di edificarla a partire da tracce rigorosamente criticate; il discorso storico è il prodotto di un sogno, di un sogno che non è tuttavia interamente libero giacché i grandi sipari di immagini di cui è fatto devono necessariamente essere assicurati a dei ganci: e questo vale tanto per la storia recente, benché in essa vi sia sovrabbondanza di fonti, quanto per la storia di un mondo molto antico, dove la documentazione è estremamente lacunosa, dove lo spazio lasciato alla libertà del sogno è immenso”. Ed è del 1988 il libro di Jean Lévi, “Il grande imperatore e i suoi automi”, (Einaudi), del quale l’autore confessa di averlo cominciato come libro di storia e che via via gli si è trasformato in romanzo a causa della qualità dei documenti che maneggiava: il testo si apriva alla favola, al simbolismo, all’inverosimile, insomma a quella dimensione fantastica che uno storico avrebbe dovuto abolire. Sono evidentissimi i contrasti con altre interpretazioni ed usi –specie di derivazione neo-positivistica- delle nozioni di fatto e di documento.

Credo che oggi non esistano sostanziali divergenze di opinione sul fatto che sia superato quel canone classico –per così dire- secondo cui la storia sarebbe una sequenza unitaria di eventi, un processo lineare di sviluppo. Sia pure con matrici diverse –hegeliana, positivista, marxista, idealista- questa concezione ha conosciuto fino a poco tempo fa molta fortuna. Ma, lungo la strada, l’idea che il corso storico sia una successione di stadi regolati da leggi precise e da meccanismi di transizione quasi automatici è apparsa sempre più inadeguata a cogliere la complessità della realtà e del suo divenire. D’altra parte la visione evoluzionistica, lo sappiamo, era legata all’ideologia del progresso di derivazione sette-ottocentesca e ad una concezione eurocentrica del corso generale della civiltà umana. Mutati però i perimetri e gli orizzonti tradizionali della storia, si è posto il problema di stabilire quali dovevano essere le dimensioni e i contenuti del nuovo campo di indagine: l’area di osservazione non era più limitata a soggetti e avvenimenti “prioritari” –per convenzione- rispetto ad altri, ma diventava assai più vasta e multiforme sia nei suoi scenari che nei suoi attori, implicando di necessità analisi più articolate e l’impiego di nuovi metodi di ricerca. Valerio Castronovo ha parlato di “una moltiplicazione delle piste di ricerca e di una riorganizzazione della cassetta degli strumenti di cui la storiografia si serve”. Le nuove linee di indagine sono state attente non più solo all’elemento biografico, alla storia etico-politica e a quella delle idee, all’avvenimento e alla “breve durata”, ai processi convulsi delle lotte per il potere e al funzionamento di determinati sistemi politico-istituzionali. Soprattutto non sono più stati confinati in un ruolo secondario il vissuto quotidiano su piccola scala, le credenze popolari, i fattori di continuità e permanenza, quello che è proiezione dell’anonimo e del collettivo o che è lenta maturazione su piani molteplici (da quello biologico a quello mentale, a quello tecnico, economico e via dicendo) di stratificazioni sociali apparentemente invisibili o a malapena percepibili, ma comunque essenziali negli equilibri o nei processi di trasformazione di una data epoca. E’ una storia stratificata in una triplice dimensione: quella del tempo rapido, convulso a volte, degli avvenimenti (una battaglia, un’elezione politica, una rivoluzione istituzionale), quella del ritmo lento (una fase di depressione economica) e quella del tempo quasi immobile della “lunga durata” che traversa i secoli e i millenni (il lavoro della terra, i rituali religiosi, l’adattamento all’habitat).

Per finire, va sottolineato che la riflessione storiografica –negli ultimi decenni- è giunta, se non a una sfiducia verso i propri metodi, sicuramente a una maggiore consapevolezza del loro funzionamento e dei loro limiti. “Come è ormai pacifico e da tutti accettato, lo storico –nelle sue ricostruzioni- inserisce il suo punto di vista, la sua cultura, finalità estranee ai testi e ai fenomeni osservati. Per quanto cerchi di adattare il suo bagaglio concettuale all’oggetto della ricerca, riesce di rado a sbarazzarsi del filtro personale con cui studia le cose. Se diventiamo consapevoli di questo, fino a che punto possiamo ritenere affidabile una ricostruzione storica? Esistono varie prospettive sul passato, ognuna con una sua legittimità, certezze assolute non ce ne sono più” (Mauro Pesce). La molteplicità delle interpretazioni dipende dalla prospettiva di chi guarda, dagli aspetti che si vogliono o che si è capaci di cogliere.

Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

 

Gennaro Cucciniello

 

17 Marzo. Martedì. La sconfitta giacobina e il Mezzogiorno tradito. “La Repubblica democratica napoletana durò centoquarantaquattro giorni, dal gennaio al giugno 1799. Ma a vederli oggi quei giorni sembrano infinitamente di più. E non solo per la loro dolorosa intensità, culminata in un terribile bagno di sangue, ma per la contemporaneità lacerante che hanno spesso i fatti della storia di Napoli. Per la Rivoluzione si prodigò il meglio dell’intelligenza meridionale. Allora si mise in evidenza una classe dirigente che aveva assorbito la lezione dell’Illuminismo europeo ma alla fine vinsero il re e i lazzaroni, quella parte di plebe assetata di mance e disponibile ai voleri di tutti i potenti: e con i loro eredi facciamo i conti ancora oggi. Nonostante qualcosa stia cambiando, prevale ancora quella che Croce chiamava “una borghesia di scarso valore morale”.

Come Gerardo Marotta, fondatore dell’Istituto italiano per gli studi filosofici, molti leggono nella Repubblica del ’99 e nella sua fine la metafora di una storia secolare. Altri, invece, rovesciano la prospettiva e vorrebbero limitare l’importanza di quell’evento, sovraccaricato –dicono- da una mole di interpretazioni, di simboli e anche di miti. Paolo Macry è professore a Napoli di Storia contemporanea e abita a pochi passi dall’Istituto di Marotta; ma da lui lo divide un abisso. “Il ’99 ha avuto una parte decisiva nella costruzione dell’immagine di Napoli –spiega- un’immagine che funziona ancora adesso e che si fonda sul concetto dell’eccezionalità. Napoli è il paradiso delle tinte forti, dei personaggi sacralizzati. A me sembra che del ’99 si sia formato uno stereotipo. Le élite napoletane sono sempre state molto ristrette e con una forte coscienza di sé: in quell’avvenimento è come se si autorappresentassero, abbondando in enfasi e ideologismo”. Parole dure usa anche Fulvio Tessitore, storico della filosofia e rettore dell’Università Federico II. Presentando una nuova edizione del libro di Croce, “La rivoluzione napoletana del 1799”, (Bibliopolis, pp. 458) egli se la prende con l’idea “secondo cui la sconfitta della Rivoluzione del 1799 avrebbe stroncato i pur esili processi di modernizzazione del ‘700 illuministico e riformatore, condannando Napoli e il Mezzogiorno ad un eterno, invincibile lazzaronismo morale e politico”. Un’idea, a suo giudizio, ripetuta “con stolida tenacia e impasticciata fantasia”. Macry invoca normalità, chiede che il punto di vista sulla storia di Napoli non sia viziato da un’inclinazione all’emergenza e che il Sud e la sua capitale siano un qualunque pezzo di mondo e non un mondo a parte. Vecchia questione: ma l’eccezionalità è nel punto di vista o nella storia in sé? “E’ ormai accertato che per la repressione dei giacobini si saldò un’alleanza fra il trono e la criminalità”, incalza Antonio Gargano, segretario dell’Istituto per gli studi filosofici. “Di questo accordo abbiamo molte altre tracce nella storia di Napoli, fino a quella più recente. E poi: è eccezionale o no il fatto che alcuni quartieri di questa città siano controllati dalla camorra, che riesce a parcheggiare un’auto piena di tritolo persino nei pressi del Palazzo di Giustizia?”

Le conseguenze di quell’evento del ’99 non saranno vistose ma è difficile non scorgere nella frattura che si consumò fra l’élite colta e la massa di popolo festante sotto le forche issate dal re Borbone un fotogramma ricorrente nella storia napoletana, in cui le spinte ad andare avanti le hanno sempre impresse minoranze combattive. “Il Mezzogiorno non è mai riuscito ad aggregare un ceto dirigente socialmente rappresentativo”, spiega lo storico Francesco Barbagallo, “a differenza di quanto accadde in Piemonte prima dell’Unità, dove questo ceto si formò coniugando tradizione e innovazione, liberalismo e rivoluzione”. L’enfasi interpretativa del ’99 –se di enfasi si può parlare- non è di oggi, della Napoli che crea e consuma simboli, mitizza calciatori e sindaci, ma risale a Benedetto Croce, che vide nei giacobini un embrione del movimento unitario italiano e in quegli avvenimenti la fine in idea del regno borbonico. “E’ un errore sia giudicare il ’99 come un fallimento, sia ritenere che con esso la storia napoletana si fermò”, replica Giuseppe Galasso, che pure è storico di formazione crociana. “I patrioti democratici vinsero la loro battaglia, al di là delle loro drammatiche vicende personali, perché il decennio francese, 1806-1815, (il governo prima di Giuseppe Bonaparte e poi di Gioacchino Murat) attuò ciò per cui essi si erano battuti. E fu un’opera tanto consistente che i Borboni al loro rientro in città recepirono molte di quelle riforme. Il regno napoletano non finì nel ‘99”. Critico con Croce, Galasso non si iscrive però fra i riduzionisti. “In nessun’altra parte d’Italia vi fu allora una svolta così decisiva. E in nessun’altra parte si ebbe il massacro di un’intera classe intellettuale e politica”.

Sulla rivoluzione non si è ancora esercitata la foga revisionista, che pure avrebbe potuto rivoltare l’esperimento più rilevante in Italia di quel giacobinismo cui si addebita ancora oggi ogni tipo di nefandezza politica. In realtà quei cinque mesi sono, storiograficamente, tutt’altro che imbalsamati. Un gruppo di giovani studiosi, guidati da Anna Maria Rao, ha avviato una ricerca in alcuni archivi e sta pubblicando diari e memorie che definiscono ancora meglio la portata della rivoluzione, l’articolazione sociale dei patrioti che agivano a Napoli e in provincia. Da molti anni la Rao studia il ’99 e le sue convinzioni urtano contro lo schema che risale a Vincenzo Cuoco della “rivoluzione passiva”, di una rivoluzione il cui modello è importato dalla Francia. Ma anche Cuoco è oggetto di riletture. Antonino De Francesco ha appena curato un’edizione critica del celebre Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli (Collezione di studi meridionali, Lacaita, pp. 656) che toglie a quel testo l’etichetta di “manifesto del conservatorismo sociale e del moderatismo politico”. Spiega la Rao: “La repubblica napoletana nacque grazie alle sue armi prima che arrivassero le truppe di Championnet e contro la volontà del Direttorio francese, ostile alla creazione di nuove repubbliche in Italia e desideroso di salvaguardare la pace conclusa con l’Austria nel 1797. E poi non bisogna dimenticare il contesto internazionale: per i napoletani degli anni Novanta del ‘700 non si trattava di scegliere tra dipendenza o indipendenza, ma tra l’influenza economica e politica asburgica e inglese o la liberazione e la democratizzazione col soccorso dei francesi”. Che la Francia non guardasse di buon occhio l’esperimento dei giacobini di Napoli è confermato dalla scoperta negli archivi di Mosca delle carte di Marc-Antoine Jullien, segretario della Repubblica di Napoli. I documenti attestano l’entusiasmo di questo giovane giacobino che ad appena 24 anni intravede la possibilità che a Napoli continui l’esperimento democratico che il Termidoro ha interrotto in Francia. “Nel ’99 l’influenza di Robespierre è minima”, concorda Barbagallo; “tantomeno vi si rintracciano anticipazioni di Lenin. Mario Pagano, che redige la Costituzione, è un moderato e i giacobini meridionali sono figli di Giambattista Vico e del giurisdizionalismo di Pietro Giannone. Fu in particolare la svolta reazionaria impressa dalla regina Maria Carolina, sorella di Maria Antonietta, a indurre i patrioti sulla strada della rivoluzione” (Francesco Erbani, articolo apparso su “Repubblica” il 2 gennaio 1999).

20 Marzo. Venerdì. Un riassunto organico e convincente. “L’originalità della Repubblica partenopea del 1799, quel che le conferisce una inesauribile carica simbolica, proviene dal fatto che nella sua breve ma intensa vita si intersecarono realtà e problemi di varia profondità: la fine dello Stato d’Ancien règime e la nascita del moderno Stato nazionale, tra età dell’illuminismo ed età delle rivoluzioni; la formazione ed il ruolo delle élites intellettuali ed il loro rapporto col potere politico; la natura e la forma della politica; la democrazia e il liberalismo. Come un lampo la drammatica vicenda rivoluzionaria napoletana illuminò per un’ultima volta tutte le tensioni di fine Settecento.

La frattura tra governo e società. La rivoluzione scoppiò nel 1799, l’anno che segnò la fine della lunga ondata rivoluzionaria della Francia e quella, più corta, del triennio giacobino delle repubbliche italiane. Il contesto europeo e italiano fu importante sia per il nascere, sia per la fine dell’esperienza partenopea. Il re Ferdinando era accorso a Roma nel novembre 1798 per difendere il pontefice dalla Repubblica romana, lì creatasi nel febbraio. Ma precipitosamente dovette poi rientrare a Napoli, sconfitto e inseguito dalle truppe francesi, che così  penetrarono nel regno. Il fallimento di quest’azione militare provocò la perdita definitiva di legittimità del monarca assoluto. I sovrani si resero conto, con spavento, di poter contare sulla fedeltà della sola plebe cittadina. Il resto della popolazione era ormai contrario alla monarchia. Il 23 dicembre, dopo aver trafugato ingenti somme dai Banchi cittadini, i sovrani ripararono a Palermo. Lo Stato napoletano non esisteva più. La frattura tra governo e società era stata provocata dalla decisione della corte di schierarsi con Vienna contro la Parigi rivoluzionaria, per la quale s’era invece lentamente appassionata l’intellighenzia. Negli anni Ottanta, con Gaetano Filangieri, Mario Pagano, Giuseppe M. Galanti, la cultura illuminista napoletana si era convinta che era possibile e credibile l’azione riformatrice governativa. Ma, dopo il 1789, il progetto riformatore parve agli intellettuali sempre più insufficiente, e alla corte sempre più pericoloso. Nel 1794 una congiura detta “giacobina” rese visibile questo distacco. Gli intellettuali cominciarono ad essere detti giacobini e la corte assunse una linea di repressione: molti furono gli arresti, le pene alla prigione e all’esilio; tre le condanne a morte. Si può ben dire che, come ha ben mostrato Annamaria Rao, negli anni successivi la vita politica a Napoli fu un riflesso di quanto si svolgeva altrove: a Vienna o a Londra per la corte; a Parigi, Oneglia, Milano per le élites colte. Nella città partenopea avvenne quel che accadeva in Europa. Mentre in Francia, dopo il 1794, si cercò di canalizzare la dinamica rivoluzionaria in istituzioni salde, fuori di Francia si cominciarono a sentire i contraccolpi della Grande Rivoluzione. In Italia, l’arrivo di Napoleone a Milano, nel 1796, segnò l’importazione delle idee e della prassi rivoluzionaria. In Francia il 1799 arrestò questo slancio. Non era più il tempo di salvare la rivoluzione; bisognava conchiuderla. Cosa che avvenne il 18 brumaio.

La sconfitta della politica. Ma l’esperienza della repubblica partenopea deve essere intesa anche nel suo sviluppo interno. Nell’interpretazione che Benedetto Croce ha dato della repubblica rivoluzionaria, il 1799 segna il momento in cui gli illuministi meridionali, dopo aver sostenuto la monarchia come fattore di riforme, si mutarono in teorici della repubblica e della rivoluzione. Più di recente, la ricerca storiografica (G. Galasso, La filosofia in soccorso dei governi, Napoli, Guida, 1989) ha alquanto sfumato questa lettura, anche se lo studio di Croce, per ricerca documentaria e ampiezza di intelligenza critica, resta comunque ineguagliato. Gli illuministi non si trasformarono di colpo da monarchici in repubblicani, pur di dar vita ai piani di riforma. Al contrario, e dovunque in Europa, in questa trasformazione si persero parti importanti della cultura dei Lumi. Nelle forze rivoluzionarie è difficile scorgere, se non sotto profonde metamorfosi, l’eredità illuministica. A Napoli la continuità fu magari più visibile, perché molti protagonisti della Repubblica si erano messi in luce già nei lustri precedenti. Ma vi fu egualmente cesura. Gli illuministi a Napoli in questi anni Novanta del ‘700 recuperarono autonomia dalla politica. Non fu, però, il ritorno alla condizione di antipolitica, per usare una felice espressione di Franco Venturi (1954), quale si era imposta loro nella seconda metà del secolo. Dopo la stagione delle riforme e delle rivoluzioni, l’autonomia dalla politica significò la riscoperta della politica. Davvero, il tragitto di Pagano, forse il più limpido esempio dell’Illuminismo e del Giacobinismo italiano, è illuminante: filosofo e storico negli anni Ottanta, giurista negli anni Novanta, infine dirigente politico nella Repubblica. E, con lui, tanti altri.

Il modello repubblicano. La questione della dipendenza della Repubblica napoletana dalle armi francesi trova così risposta. E’ indubbio che la loro presenza sta stata decisiva, come decisiva per la sua caduta fu la loro ritirata; ma evidente è l’indipendenza con cui alla repubblica si mise mano da parte dei napoletani. La fuga a Palermo del re (che sarebbe tornato a metter piede a Napoli solo nel 1802) illustrò cosa fosse ormai la monarchia assoluta. Infine, il sommovimento delle plebi, temuto dai riformatori, a partire da Antonio Genovesi, e minacciatosi al momento della grave carestia del 1764, esplose. La monarchia decadde nell’anarchia. Creare un nuovo Stato fu il compito morale e politico degli intellettuali napoletani. Tra monarchia dispotica e anarchia la via di uscita fu la repubblica, giudicata attuale in virtù dell’esempio americano e francese. Una lunga storia di ideali trovava realtà. Il Regno delle due Sicilie aveva riconquistato l’autonomia nel 1734 con l’avvento di Carlo di Borbone. Stato nazionale e monarchia assoluta cercarono poi di trovare vie possibili per sostenersi reciprocamente. Da un lato: la grande cultura del giurisdizionalismo meridionale, rappresentata dal nome di Pietro Giannone, solenne per la drammaticità della vita e l’altezza del pensiero. Questa tradizione, che aveva messo in luce quanto la Chiesa romana avesse impedito il progresso di una vita civile e laica, fu arricchita dal pensiero illuminista. Genovesi aveva insegnato che bisognava andar oltre quella denuncia, per interrogarsi su cosa fosse uno Stato politico, come e a cosa dirigerlo. Dall’altra parte, a mostrare la disponibilità del nuovo potere, sta la figura di Bernardo Tanucci. Il dialogo tra il grande riformatore e il fedele ministro di Carlo di Borbone durante la crisi del 1764 mostrò la possibilità dell’incontro tra le forze nuove della cultura e della politica meridionali. Il nemico comune era la Chiesa, perché appariva come il maggiore ostacolo alla volontà di riforme, che progettava un nuovo rapporto con lo Stato, con i contadini e i cittadini, con la scienza, così come con la religione. Quando si infranse questo sforzo riformatore, il mondo della cultura si trovò solo: ma seppe farsi carico dell’azione politica. Gli illuministi si fecero rivoluzionari e giacobini, sapendo di mutare di progetto e di natura.

Non meno rilevante fu la trasformazione che si ebbe dall’altra parte. Il governo monarchico, che della critica al potere papale aveva fatto una delle ragioni della propria identità politica, dinanzi alla repubblica rivoluzionaria si appoggiò alla Chiesa. Il sanfedismo, ovvero l’idea che la religione dovesse essere di guida alla vita sociale e politica, non comparve all’arrivo del cardinale Ruffo a Napoli con le sue bande di delinquenti, di superstiziose plebi esaltate, di contadini ignari. Fu, invece, il vero nemico della Repubblica napoletana fin dal momento della sua costituzione. La Chiesa fu chiamata a svolgere un vero e proprio ruolo di supplenza allo Stato: qualificò l’ordine avverso di anarchia, si offrì come il solo, intollerante cemento ideologico, riuscì a coagulare intorno a sé masse rurali, ceti poveri o spaventati dalla rivoluzione, assolse a compiti giurisdizionali, perfino militari. Questa ipoteca gravò anche sul successivo regno borbonico. Il Ruffo con la sua riconquista inferse una ferita profonda (si è mai sanata?) alla storia politica non soltanto meridionale ma italiana. La morte di Pagano e quella dell’ecclesiastico e giurisdizionalista Francesco Conforti hanno perciò un valore simbolico particolare: uccidendoli, lo Stato napoletano rinnegava la propria forza. Liberato dalla condanna moralista, il sanfedismo costituisce dunque un essenziale, nuovo problema storiografico.

Sanfedisti e repubblicani nelle province. Ormeggiata sulle navi di Nelson la corte; la Repubblica a Napoli; e nel resto delle province? Il rapporto tra Napoli, città capitale, e le altre regioni era stato sempre critico. Una testa abnorme su un corpo gracile, questa l’immagine che ne aveva avuto l’illuminismo. Questo rapporto si ripropose nei mesi della rivoluzione. Difficoltà di comunicazioni, resistenze e diffidenze locali, antiche paure si sommarono e impedirono la circolazione delle istruzioni e degli uomini dal centro alle periferie, anche in quelle dove s’era affermata la Repubblica. La ricerca storica ha cominciato ad interessarsi non più soltanto alle moltissime comunità provinciali che scelsero di piantare l’albero della libertà, ma anche al fenomeno contrario, quello delle insorgenze provinciali contro la Repubblica napoletana (Studi storici, 1998). Vengono in questo modo alla luce profili di individui e di comunità che oscillarono tra due modi di vita politica antitetici; si scoprono le ragioni che spinsero a preferire l’antico ordine a quello nuovo; si scorge quanto ancora debole fosse il nuovo tessuto connettivo, sia istituzionale che ideologico.

Su scala diversa questa stessa tensione si verificò a Napoli tra le élites di governo e il popolo. Ve ne fu consapevolezza, come si legge nei numerosi giornali di quei mesi, soprattutto ne “Il Monitore napoletano” di Eleonora Pimentel Fonseca. Occorreva informare “il popolo” in modo chiaro e preciso; era, infatti, necessario cercare di fare in modo che esso si avvicinasse alla vita politica, che sapesse che lì si giocavano i suoi destini. Bisognava educare alla libertà. Allorché, nel corso di una seduta della Società Popolare, alcuni cittadini del Mercato, i lazzari di un tempo, affermarono d’essersi convinti della bontà del regime repubblicano, parve a molti che un importante passo fosse stato compiuto. Ma quando il 13 giugno comparvero le truppe di Ruffo, i lazzari raggiunsero i sanfedisti contro i repubblicani. Mentre i sanfedisti, fin dal 7 febbraio, risalivano dalle Calabrie la penisola, a Napoli i repubblicani mostrarono forza di decisione. I contemporanei, animati dalla sensazione di vivere sulla soglia estrema tra rigenerazione e decadenza, si lamentarono per la lentezza delle procedure. Ai nostri occhi appare invece che problemi enormi furono affrontati con celerità e acutezza.

Il governo repubblicano. Innanzitutto, il raporto con i francesi, che erano al tempo stesso truppa di occupazione e di liberazione. Bisognava pagare loro cifre ingenti. Questa fu una delle facce del problema finanziario e fiscale. Si tardò forse a eliminare i dazi e il testatico, tolti solo a maggio. Per garantire la finanza pubblica, si decise di incamerare i beni del re fuggiasco, anche per impedirne la confisca da parte dei francesi. Immediata fu l’organizzazione del governo. Già il 23 gennaio, il generale Championnet nominò i 25 membri del governo provvisorio, designati dai patrioti. L’attività si esplicò attraverso sei comitati: centrale, della guerra, delle finanze, dell’interno, di legislazione e di polizia. In seguito, nell’aprile, quando ci si rese conto che la sovrapposizione di potere legislativo ed esecutivo ostacolava l’attività politica, la commissione preposta all’attività legislativa fu separata da quella di governo. La redazione di una Costituzione fu sentita subito come questione vitale: la discussione finale cominciò il 20 maggio. Venne redatta anche la Dichiarazione dei diritti e doveri dell’Uomo, del Cittadino, del Popolo e dei suoi Rappresentanti, che sancì l’eguaglianza come valore cardine della Costituzione. Il diritto di cittadinanza era ancora censitario. Non fu comunque, come poi disse Cuoco, una mera ripresa del costituzionalismo francese. Importante fu anche la discussione sui feudi. Il 26 aprile fu promulgata la legge che li aboliva. Era il frutto di un compromesso tra una proposta più radicale e quella, più moderata, di Pagano. Si abolirono senza indennizzo i diritti giurisdizionali del feudo, si resero riscattabili i censi sulle terre e si assegnarono ai Comuni i demani feudali. Poco prima erano stati aboliti il fedecommesso e i diritti di primogenitura e di sostituzione.

Oltre a una nuova configurazione territoriale e amministrativa dello Stato, alla metà di maggio venne varata la riforma giudiziaria, che assicurava libertà civile ed uguaglianza davanti alla legge. Scelte che furono accompagnate da dibattiti per lo più pubblici: pubbliche erano anche le sedute del governo, il quale riceveva giornalmente i cittadini; venne stampato un bollettino per dare notorietà alle leggi. Vivaci furono anche le parallele discussioni che si tennero nelle Sale patriottiche. In questa vita politica tumultuosa e affannosa, ma in ogni caso feconda, non vediamo all’opera i partiti. Tuttavia, contrasti e opposizioni non mancarono e, sebbene con qualche sforzo, è possibile ricostruire la dialettica politica esistente tra tre gruppi principali: l’aristocrazia, partecipe del destino della Repubblica, ma attenta a indirizzarne le riforme; a sinistra, i giacobini più estremisti, come Vincenzo Russo, fautori forse di una maggiore forza per l’esecutivo; al centro, i patrioti che con Pagano tentarono soluzioni originali sia costituzionali che sociali.

Così, pur sopraffatta da Ruffo, la Repubblica aveva sconfitto l’ordine feudale. I giacobini avevano vinto la partita con l’ancien régime. Chi erano? Una ricerca di Annamaria Rao sulla sociologia del giacobinismo (Sociologia e politica del giacobinismo: il caso napoletano, Prospettive settanta, 1979, I, pp. 219-39) fa vedere che la composizione sociale dei patrioti era costituita da professionisti (avvocati e medici), letterati e intellettuali; molti anche i militari e i nobili. Ma furono costoro giacobini? Alla fine degli anni Cinquanta del Novecento si è svolto in Italia un notevole dibattito che ha visto numerosi storici, da Delio Cantimori ad Armando Saitta a Furio Diaz, discutere tale questione, che era stata sollevata da un articolo del 1954 di F. Venturi. Se è vero che in Francia il giacobinismo non esisteva più, tuttavia i napoletani possono essere detti giacobini per la loro volontà politica di guidare la rigenerazione sociale, di consentire ai gruppi meno agiati del popolo di partecipare alla vita pubblica, di controllare la produzione di ricchezza. Tornare all’antico sistema fu assolutamente impossibile, perfino per Acton e Ferdinando di Borbone.

La repressione. Ma se ebbe il risvolto della vittoria, tragica fu la sconfitta dei giacobini. L’ingresso di Ruffo a Napoli, il 13 giugno, dopo furibondi scontri nella zona orientale della città, non significò l’immediata resa. Chiusi nei castelli, i patrioti tentarono un’ultima difesa. Il militare francese Joseph Méjan, sul quale pesa fama di traditore, firmò la capitolazione il 21 giugno. Ai giacobini Ruffo aveva riconosciuta salva la vita e la possibilità di rifugiarsi all’estero. Il re volle, invece, infrangere i patti in suo nome sottoscritti, e impose una più feroce repressione. Oltre cento furono le condanne a morte eseguite, più di ottomila i processi. Cosa significò questa repressione nella storia napoletana? Un’interpretazione, che fa capo a Croce, ha ritrovato nello spietato massacro degli intellettuali e dei patrioti la causa prima del successivo declino morale e civile del Meridione, perché lì si erano spezzate le radici vitali d’ogni cultura libera ed autonoma. In questi ultimi anni si è voluto invece sottolineare come, pur dentro i termini di una tragedia terribile per tributo di sangue e chiusura civile, la periodizzazione da assumere non possa arrestarsi al settembre 1800. A considerare un arco più lungo, lo Stato ottocentesco, anche quello borbonico, mostrerebbe in ogni caso segni di vitalità che provengono anche dall’esperienza del ’99. In queste ambiguità e contraddizioni politiche e morali sta quindi il fascino di una stagione rivoluzionaria, nella quale si ritrovano le radici del nostro presente” (articolo di Girolamo Imbruglia, in “Percorsi di lettura”, 86-8).

23 Marzo. Lunedì. Napoli. La Giunta di Stato condanna all’esilio a vita, con sequestro dei beni, Monsignore Nicola Saverio Gambone, vescovo di Capri, (per aver ordinato non solo l’esposizione per otto giorni del Santissimo per la prosperità della Repubblica e di non farsi più menzione dell’orazione “pro Rege”, ma pure che tutti gli ecclesiastici, incluse anche le monache, portassero la nocca tricolore nel cappello e nel petto; e fece predicare il canonico Federici per la repubblica), Benedetto Padrone, tenente della Guardia Civica; all’esilio per quindici anni Sergio Frisicchio, ispettore di polizia prima dell’entrata dei Francesi; all’esilio per cinque anni Filippo Ciano e Francesco Liogori; all’esportazione dal regno de mandato Maria Teresa Arezzo, duchessa di San Clemente (carcerata per indizio di aver andato questuando per la Repubblica, e di aver proposto piantarsi l’albero in una sua masseria); assolve Emanuele Mechinel, capitano del reggimento fanteria Regina nell’esercito borbonico (Filiazione dei rei di Stato, pp. 349-52).

24 Marzo. Martedì. Napoli. La Giunta di Stato condanna all’esilio a vita, con sequestro dei beni, i tre fratelli Giovanni, Francesco e Antonio Mazzone (tutti e tre hanno fatto da capi del popolo all’invasione dei Francesi ma poi hanno vestito uniforme repubblicana e preso servizio tra i ribelli); all’esilio per venti anni Salvatore del Betto e Giovanni Romano (Filiazione dei rei di Stato, pp. 352-3).

6 Aprile. Lunedì. Napoli. E’ impiccato Gennaro Arcucci, di Capri, medico a Napoli (commissario organizzatore nella sua patria, fece piantare l’albero della pretesa libertà nella piazza, dove per allettare quel popolo dispensò pane e vino; intervenne in chiesa al Te Deum dove si pubblicò un editto di Mons. Gambone, ricevendo la palma, e dopo la benedizione trattenne il popolo, e perorò in favore della democrazia, maledicendo la M. S. e dicendo che aveva nove anni che travagliava per liberar la sua patria).

Extra time.

3 Luglio. Giovedì. Napoli. I democratici sono ancora vivi e presenti in città. Si sente che altre carcerazioni siensi fatte e si facciano: si parla di nuovi Club e compagnie di malintenzionati. Quello che è certo il numero dei malcontenti e quei che sono del genio democratico è bastantemente vasto. Le voci allarmanti non cessano. Quei che sono usciti con l’indulto esultano, i carcerati giubilano ed insultano al popolo, fino a mostrarli quelle picciole sedie che si vendono per le feste, per farli capire che al loro uscire gli faranno fucilare seduti sulle sedie, come costuma vasi da essi sotto il Governo della sedicente Repubblica. Il popolo intanto freme e vorrebbe avere un poco l’agio di mettervi nuovamente le mani sopra. Questo è lo stato di Napoli” (De Nicola, p. 598).

11 Settembre. Giovedì. Napoli. E’ impiccata Luisa Sanfelice de Molino, 36 anni. Figlia di un ufficiale spagnolo che militava nell’esercito borbonico, sposata a 17 anni al cugino Andrea Sanfelice, ebbe notizia da Gerardo Baccher, suo amante, della cospirazione realista che stava per scoppiare nella capitale. Ne informò un suo amico, Ferdinando Ferri, e provocò la scoperta della congiura e l’arresto dei cospiratori. Alexandre Dumas trasse ispirazione dalla sua vicenda per scrivere un romanzo, “La Sanfelice”, ripubblicato nel 1999 dall’editore Pironti. “Nel romanzo di più di mille e trecento pagine c’è lo sfondo degli eventi, lo splendore di Napoli, l’Italia delle passioni e dei delitti, il paese dei grandi paesaggi tempestosi e delle rovine, delle sventure e degli amori, quello nel quale la luminosità del cielo si mescola alla tenebrosità dei complotti, la stessa che era piaciuta a Stendhal. Ci sono gli aspetti torbidi della vicenda dove la sensualità si mescola alla ferocia perché Luisa fu donna di molti amori, bella e appassionata, e subì durante la prigionia oltraggi senza fine. Lo stesso re Ferdinando la usò come trastullo sessuale per molte notti, salvo farla ricondurre subito dopo nella sua tetra cella (sic)” (C. Augias, recensione su “Repubblica”).

16 Settembre. Martedì. “Lungo è l’elenco dei martiri del ’99, e tutti sono da ricordare con riconoscenza e venerazione. In particolare voglio farlo per Francesca Caffarelli, che salendo il patibolo grida: “viva la repubblica, viva l’Italia”, mostrando così che i martiri morivano “la cara Italia portando nel cor”, segno questo ch’era già nata l’idea dell’unità d’Italia. In vero “tutto ciò che vi era di buono, di grande, d’industrioso fu distrutto” (Cuoco); ma con questa distruzione la monarchia borbonica rinnegò la propria tradizione e scavò fra sé e la parte eletta della Nazione un abisso, che non poté essere più colmato” (Serrao De Gregori, p. 293).

23 Settembre. Martedì. Provincia di Abruzzo. Resistenze popolari contro l’oppressione fiscale. Si è publicato questa mattina proclama fatto in Apruzzo dal generale Boucard, che trascrivo dopo averne accennata l’occasione. I visitatori economici di quella provincia, volendo usar del soverchio rigore nell’esazione della decima e pesi fiscali su individui che forse più degli altri hanno inteso il grave peso della guerra e dell’invasione francese, fecero sì che la popolazione disgustata prese le armi, resistette, e si diede poi ai saccheggi. Boucard, avvisato, vi si portò con 400 uomini di linea, ma la popolazione armata prese le alture, per cui credette quel comandante spedire in Napoli una rimostranza di fuoco contro i Visitatori, ed indi stimò sano consiglio disarmar quella gente col perdono e minacce” (De Nicola, p. 634).

28 Settembre. Domenica. Napoli. Difficoltà di governo.Si dice scoverta una grande congiura, in cui sono involti molti Nobili. Il Governo deve essere in agitazione, perché da per tutto sono guardie raddoppiate e posti avanzati. Arrendamenti non si pagano, mesate a ministri, offiziali di Segreteria, di Casa Reale ecc. non si pagano, ed ora si susurra che le carte impiegate colla Regia Corte, durante le circostanze e i bisogni dello Stato, non daranno rendita alcuna a coloro che le hanno esibite” (De Nicola, p. 636).

17 Dicembre. Mercoledì. Napoli. Difficoltà di rifornimenti alimentari. “La mancanza di due generi di prima necessità mi fa temere qualche sconcerto. La farina è arrivata a quattro ducati il tomolo, ma ciò è meno male, perché almeno il pane alla piazza non manca, ma l’olio che manca giornalmente alle botteghe è cosa che rincresce moltissimo, e si vede tanta folla intorno a quelle che dà del timore” (De Nicola, p. 678).

27 Dicembre. Sabato. Provincia di Puglia. Il malcontento popolare persiste. “Le nostre truppe che erano in Roma passano in Toscana a covrire quei posti che sono stati dai Francesi abbandonati. In molti luoghi del Regno vi sono rumori, specialmente in Altamura e Matera. Sono certamente cagionati dai malcontenti e dalla soverchia asprezza con cui si esiggono le imposizioni. Si dice che ci si manda truppa” (De Nicola, p. 679).

 

Nota bibliografica

  1. Gennaro Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  2. Claudio De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  3. “Filiazioni dei Rei di Stato condannati dalla Suprema Giunta etc. ad essere asportati da’ Reali Dominij”, Napoli, 1800
  4. F. Serrao De Gregori, “La repubblica partenopea e l’insurrezione calabrese”, Firenze, 1934, I vol.