Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. 17° puntata. 18-23 aprile 1799. “Per Ruffo la Basilicata “è territorio ostile”. Diversità di prospettive tra Nelson e Ruffo per la riconquista di Napoli. Confronto serrato tra i patrioti”.

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Diciassettesima puntata. 18 – 23 Aprile 1799. “Per il cardinale Ruffo la Basilicata è territorio ostile. Tra i repubblicani di Napoli si apre un confronto serrato e difficile. Diversità di prospettive tra Nelson e Ruffo per la riconquista di Napoli. Pensiero e prassi politica di Vincenzo Russo”.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”.  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

18 Aprile. Giovedì. Ci sono mutazioni nel Ministero: al posto della Municipalità è posto un dicastero di tre persone. Faypoult lascia definitivamente Napoli.

Segnali oscuri e minacciosi. I segni accosto i portoni e le case di abitazione di taluni particolari sono stati la novella del giorno. Per quanto si è potuto osservare si son cercate di segnare tutte le abitazioni di quelli che il popolo aborriva come Giacobini ed aborrisce come patriotti. La diversità dei segni non si è penetrato ancora qual fine avesse (…) I Francesi continuano a porre munizioni nei castelli, e le notizie dell’insurgenze sempre più crescono. Si dice che il commissario civile Abrial abbia strepitato e condannato il sistema di mettere a ferro e a sacco i luoghi d’insurgenza, e voglia che si proceda solo inquisendo contro i rei. Si dice che MacDonald esca da Napoli e vada in Calabria, che il castello Nuovo si consegni all’artiglieria nazionale, quello di S. Elmo resti con la guarnigione francese, ma dichiarata nazionale. Abrial ha cambiato anche i ministri, ed invece di Mastellone è stato eletto Giorgio Pigliacelli per la Polizia, invece di Conforti, de Filippis all’Interno, ed invece di Rotondo, alle Finanze, Luigi Macedonio di Rugiano. Per la guerra pure in luogo di Arcambal, si dice Gabriele Mantoné. Anco la municipalità provvisoria si è tolta, e si è organizzato il Dicastero centrale composto di tre individui, Gennaro Presti, Carlo de Simone e Tocco, ossia l’ex principe di Montemiletto” (De Nicola, pp. 138-9).

Matera. La Basilicata è territorio ostile. Il card. Ruffo scrive ad Acton: “Le forze che io tengo sono circa mille uomini avanti a Matera ed in viaggio poco di là lontani, e con me, a farla grande, partiranno altri duemila uomini, di cui settecento truppa regolare o che almeno ha un poco servito e cento cavalli. Non spero nel mio passaggio potermi molto ingrossare. I popoli di Basilicata, se si eccettuano gli Albanesi, che sono falsi realisti, non sono i Calabresi, non hanno armi né coraggio. Si avvicina la raccolta, e non intendono di abbandonarla, e infine la strada che unicamente puol farsi vicino al lido dell’Jonio è disabitata. Ciò non ostante confidando nel Signore Iddio, mi avanzo a quella volta anche senza consiglio, poiché non ho alcuno ufficiale capace di darmene, e per dire il vero, nelle montagne di Calabria e dovendomi battere con altri montagnardi come i miei, mi lusingavo di condurmi con maggiore intelligenza di loro, ma con gli ufficiali francesi che vi sono sparsi nelle partite di sopra enunciate, e che dalla relazione di quelli che tornarono dall’affare in cui fu vinto Bouchechampe, ho inteso che sanno fare la guerra, mi trovo se non altro confuso. Capisco che dovrei tenermi sulla difensiva per aspettare i benedetti Moscoviti, ma io non so i mezzi per tenermi nella difensiva, senza perdere il credito e il terreno. Non conosco il paese, e dei miei che andassero a scoprirlo non posso stare alle relazioni perché non sanno neppure in che consiste il vantaggio o lo svantaggio (…) La provincia per altro è dissestata e gli armati sono assai difficili a condursi. Mi ponga ai piedi delle MM. LL. dicendole che non mancherò certamente di costanza, né di affezione per il loro servizio in qualunque evento sia per succedermi. Ma l’esito è incerto, atteso anche la mancanza dei fucili (…) I luoghi ancora democratici nella provincia di Basilicata: Tolve, Tricarico, Lo Palazzo, Genzano, Spinazzola, Montepeluso, Potenza, Oppido, Cancellara, Pietragalla, Minervino, San Chirico di Tolve, Brindisi di Basilicata, Trivigno, Vaglio, Banzi, Avigliano, Picerno, Acerenza, Forenza, Maschito, Ripacandida, Venosa, Barile, Rapolla, Melfi” (Croce, “La riconquista…pp. 132-4).

19 Aprile. Venerdì. Napoli. Dibattito acceso tra i patrioti. Le mozioni e proposte che V. Russo aveva avanzato nella Commissione Legislativa “non solo spiacquero in sé stesse ma parvero ai patrioti di buon senso un pomo di discordia e una causa di perditempo, esiziali l’uno e l’altra alla Repubblica nelle difficili condizioni in cui si trovava. Di tale non irragionevole reazione si fece portavoce, tra gli altri, Gregorio Mattei, figlio del grecista ed ebraicista Saverio, che allora scriveva il “Veditore Repubblicano”. L’articolo del Mattei è veramente assai bello e vivace. Si apre come una sfida. “Al cittadino rappresentante Vincenzo Rossi (sic), Gregorio Mattei. Cittadino, io mi chiamo Gregorio Mattei, abito a strada Chiaia, n. 22, terzo piano, a man dritta; servo la patria nella prima Legione della Guardia nazionale: sono uno dei due autori di questo giornale, sul quale ho creduto comoda cosa il dirigerti questi miei sentimenti in modo di lettera affinché tu ed il pubblico possiate leggerli. Potrai rispondere e la tua risposta formerà un articolo per la decade futura. Uso il tu, e perché non voglio moltiplicarti, e perché voglio parlarti nel linguaggio che tu affetti di avere”. E qui rinfaccia al Russo la trascuranza delle questioni vitali del giorno, di cui egli è causa nella Commissione Legislativa col mettere innanzi invece questioni di nessuna importanza pratica. “Mentre la Commissione si occupa di queste, la flottiglia inglese è sempre a Baia, gli insorgenti a Salerno, la moneta in commercio estremamente rara, e per conseguenza l’aggio delle carte altissimo, il popolo geme sotto tutti gli antichi dazi, né riconosce alcun vantaggio sensibile di questa da noi tanto vantata democrazia”. E passando all’ironia: “Puoi tu figurarti che tre mesi d’immatura ed inaspettata rivoluzione bastino per renderci virtuosi come gli Spartani dei tempi della prima guerra persiana, o i Romani della prima guerra punica? Vuoi tu ridurci alle antiche ghiande? Ma prima innabissa i nostri campi, recidi gli oliveti e le vigne, distruggi le nostre industrie, ammazza due terzi almeno della popolazione, e ponci infine sul cocuzzolo di un monte attorniato da laghi, e garantito da una corona di vicine inaccessibili montagne; lì saremo sicuri, giacché la nostra povertà, più che le montagne, allontaneranno il nemico; ci faremo crescere le unghie e i capelli, e insieme con te, mangiando ghiande e cipolle, meneremo una vita deliziosa! Ma guardiamo alla realtà. Attualmente da tre punti di gran dettaglio pende la salute di questa nascente Repubblica: la formazione di un’armata, la restituzione del valore rappresentativo alle carte, l’abolizione intera del feudalismo. E bisogna adoprarsi a creare una base al nuovo Stato colla formazione dello spirito pubblico nazionale” (Croce, pp. 130-2).

L’articolarsi delle posizioni è giudicato pericoloso per le sorti della repubblica. Vari fatti mostrarono la forza delle adunanze secrete, le debilità del Governo. Perciò si udirono ad un tratto mille accuse; non bastando egregia fama, probità di antica vita, viver presente immacolato, a contenere le ambizioni e la protervia dei tristi. Fu composto Tribunale, chiamato “censorio”, a ricever le accuse, esaminarle, spingerle in giudizio, e provvedere ai lamenti degli oppressori (era il motto degli accusatori) ed alla necessaria tutela degli accusati. Sursero al tempo medesimo le Società popolari, segrete o manifeste, nelle quali i settari preparavano le accuse: delle pubbliche, due furono più famose, le Sale “patriottica” e “popolare”; le quali, ad esempio dei club francesi, adunavansi quando in pubblico, quando in pivato, sotto presidenza, con tribuna, processo delle materie discusse e libro delle decisioni. Le grandi quistioni di politica, le nuove costituzioni dello Stato, le leggi, le ordinanze, la guerra, e poi gli uffizi, gli uffiziali, la vita pubblica, la privata dei cittadini, erano subietto di esame con libertà o licenza tribunizia; e le profferite sentenze andavano, secondo i casi, al Governo sotto forma di messaggi o di consigli, al tribunale censorio per accusa, e al popolo per tumulti. Nessuna coscienza riposava nella sua virtù, nessuna voce maligna era spregevole, ogni nemico potente, qualunque merito pericoloso. Vedevi mutamenti continui negli uffici dello Stato; odi acerbi, fazioni operose; il quale romore di accuse, di calunnie, di lamenti, si alzò strepitoso e non posò che al cadere della Repubblica; imperciocché le sette, sintomi delle infermità dei governi, spengono questi se non sono spente” (Colletta, pp. 312-3).

Puglia. E’ fucilato dai francesi il militare corso Boccheciampe che aveva capeggiato i moti filo monarchici nella regione.

Palermo. La regina scrive al card. Ruffo: “Le ultime notizie di Procida sono in data dei 12. Scrivono in esse Troubridge il comandante inglese e il governatore dell’isola, come anche riferiscono della gente di basso servizio venuta qui, che la miseria è grande, pane ve n’è in abbondanza, tutti i luoghi vicini temendo uno spoglio dai Francesi si affrettano a vendere le loro derrate; carne, sale manca, il danaro è difficilissimo a trovare, le tasse sono enormi, e lo vedo dagli stampati. Si vede che riguardano Napoli come un paese da spogliarlo ed abbandonarlo a sé. Il popolo tutto é fedelissimo, e non ne fa segreto, dicendo ed esclamando: Adesso saremo liberati. I Francesi sono (a nostra eterna vergogna) pochissimi, dicendosi duemila e quattrocento appena, o tremila Francesi; il resto è giacobini, che cercano di brillare con i loro eccessi. Si fucila spesso, ma tutto popolo basso, nessuno di conosciuto; vi sono rigori grandi e proibizioni, se si parla d’Inglesi, di Russi, del bravo nostro cardinale, o di altri. Insomma tutto prova che si credono poco sicuri; mandano via le loro donne, e si dice che anche qualche battaglione loro abbia preso la strada di Capua, sotto pretesto di andare contro l’imperatore. Hanno obbligato a tutti di prendere le armi. Gli stampati violenti, furiosi, sanguinolenti sono innumerabili ma li riguardo come urli di matti. Chi mi ha fatto vera pena di trovarlo un briccone è Caracciolo nostro della marina. Abbiamo firmati di suo carattere gli ordini repubblicani contro di noi, e di più uno stampato dei più atroci e ribelli caratterizzando il Re per tiranno vile, e giurando a lui e alla sua famiglia la distruzione: insomma, infame, e confesso che da lui non me lo aspettavo. Ma ciò mi fa conoscere quanto è grande ed estesa la corruzione nel ceto nel quale meno dovrebbe esserlo. Mando pure a V. E. copia di una seconda bricconissima scempia pastorale dell’arcivescovo stupido nostro (lo Zurlo), in cui ingiuria lo zelo di V. E., né gliene avrei fatta menzione, queste cose bisognando dispregiarle; ma come con profonda scelleraggine di chi consiglia quello scimunito pastore si è voluto denigrare l’intenzione pura di V. E. con farla credere scismatica (…) Si delinea diversità di prospettive tra Nelson e Ruffo per la riconquista di Napoli. L’idea e il ragionamento di Nelson è il seguente, e lo trovo sommamente savio e profondo. Dice che non bisogna troppo raffreddare i popoli dal loro entusiasmo, bisogna profittare, e perciò o da qui a dieci giorni si ha notizia sicura della prossima effettiva venuta dei Russi, e si combina tutto per questo; o si sta ancora in quella oscurità e si combina l’insurrezione. La squadra intiera ci aiuta, e le tre armate dei valorosi Calabresi, degli Abruzzesi e dei Pugliesi, ben concertate insieme, si avvicinano tutte alla città; la squadra vi butta manifesti, indi bombe, e la cosa sarà fatta. Conosco che gli Inglesi vorrebbero rendere quel servigio, c’è onore; ma non bisogna calcolar ciò; ci conviene, si può eseguire con speranza di successo, ed allora bisogna farlo; ma deve essere perfettamente concertato, e non lo credo niente impossibile. La grande attenzione deve essere di bene intendersi, concertare il giorno fisso, le operazioni, e non variare per non far nascere una confusione che porterebbe strage, tanto più che questo è un combattimento tra figli e figli, gli uni buoni e gli altri cattivi, ma tutti figli, che bisogna risparmiare. Prego V. E. di dirmi sopra quell’idea il suo sentimento (…) Ma se nel governo nostro di Napoli le cose andavano malamente e lentamente, qui in Sicilia è cosa di disperarsi mille volte di più, niente essendo sistemato, tutto dipendendo dal caso, dal momento, nessuna regola, insomma una vera torre di Babele. Senza V. E. eravamo già perduti, e se per la conquista di Napoli hanno bastati sei in ottomila Francesi, quella di Sicilia con meno di mille si faceva, mentre la loro apparizione faceva levare la maschera a tutti i loro partigiani, e nessuno vi era di carattere e coraggio per resistere ad essi; non vi è giorno che non parlo con gli amici ed ammiratori di V. E. di questo. Desidero vivamente la pronta venuta dei Russi per fare controrivoluzione e mantenere l’ordine: la prima cosa la credo facile, ma per sostenere la seconda credo che ci vuole una forza estera” (Croce, “La riconquista…”, pp. 122-7).

20 Aprile. Sabato. Napoli. E’ costituito un corpo della Guardia nazionale a cavallo.

Carlo Lauberg parte per la Francia.

21 Aprile. Domenica. Cassano. Il card. Ruffo scrive ad Acton: “Molti grossi paesi in Basilicata sono ancora repubblicani” (Croce, ibid).

Così sopra tutta la superficie del territorio napolitano rimanevano appena dei punti democratici. Ma questi punti contenevano degli eroi. Nel fondo della Campania era Venafro, che sola avea resistito per lungo tempo al brigante Mammone, comandante dell’insorgenza di Sora: con poco più di forza, avrebbe potuto prendere la parte offensiva. I paesi della Lucania fecero prodigi di valore, opponendosi alla riunione di Ruffo con Sciarpa; e, se il fato non faceva perire i virtuosi e bravi fratelli Vaccaro, se il governo avesse inviati loro non più che cento uomini di truppa di linea, qualche uffiziale e le munizioni da guerra che loro mancavano, forse la causa della libertà non sarebbe perita. Gli stessi esempi di valore davano le popolazioni repubblicane del Cilento, le quali per lungo tempo impedirono che l’insorgenza delle Calabrie non si riunisse a quella di Salerno. Foggia finalmente era una città piena di democratici: essa avea una guardia nazionale di duemila persone; era una città che, per lo stato politico ed economico della provincia, potea trarsi dietro la provincia intera; e da Foggia una linea quasi non interrotta prendeva pel settentrione verso gli Apruzzi, dove si contavano democratiche Serracapriola, Casacalenda, Agnone, Lanciano… Dall’altra parte, per Cirignola e Melfi, Foggia comunicava colle tante popolazioni democratiche della provincia di Bari e della Lucania. Noi vorremmo poter nominare tutte le popolazioni e tutti gli individui; ma né tutto distintamente sappiamo, né tutto senza imprudenza apertamente si può dire: un tempo forse si saprà, e si potrà rendere loro giustizia. Ma che fare? A tutte queste forze mancava la mente, mancava la riunione tra tutti questi punti, mancava un piano comune per le loro operazioni. Non si crederà, ma intanto è vero: una della cagioni, che più hanno contribuito a rovesciar la nostra Repubblica, è stata quella di non aver avute nelle province delle persone che riunissero e dirigessero tutte le operazioni: gli insorgenti aveano tutti questi vantaggi” (Cuoco, pp. 180-1).

22 Aprile. Lunedì. Napoli. Previsioni profetiche del diarista. Da più giorni si parla di un trattato tra gli Inglesi e i Francesi, e si crede che sia conchiuso, avendo ieri pranzato uniti a Castellammare l’ammiraglio inglese ed il generale francese. Le condizioni del trattato sono di dovere i Francesi evacuare Napoli colla facoltà di uscire coi carri coverti, e di riceversi, chi dice sette, e chi dieci milioni di contanti: pel perdono generale ai così detti patriotti, si vuole esservi stata disputa maggiore. Si riflette dai contemplativi che avendo le armi francesi ricevuto rovesci in Italia e sul Reno, debbono pensare ad uscire da Napoli per non restare qui chiusi, non potendo aver soccorso dall’armata d’Italia impegnata coll’Imperatore (…) Ieri al Mercato si fece un cartello che diceva: Quest’oggi mangiate forte; domani chiudete le porte; martedì conterete i morti. Insomma siamo a momenti di trovarci in mezzo al massacro e alla rovina. Iddio dovrà avere compassione di noi” (De Nicola, p. 144).

Pensiero e prassi politica del giacobino Vincenzo Russo. “Nella sua opera, “Pensieri politici” e nella sua breve attività nella Commissione Legislativa il Rappresentante V. Russo non si ferma a criticare il Genovesi, il Filangieri, il Pagano suo amico, ma fa subito una proposta pratica: con una legge che obblighi tutti i fanciulli ad assistere per un’ora al giorno a lezioni di “morale repubblicana” e di “agricoltura”, in due scuole di cento individui l’una, fornite di una certa quantità di terra per gli esercizi di coltivazione degli alunni, si avranno in quattro anni duecento allievi capaci di reggere ciascuno una scuola, i quali, forniti di alcuni iugeri di terreno come premio, potranno guidare duecento scuole in una repubblica. Così organizzati, i corpi politici potranno essere perpetui, non saranno scossi all’interno, saranno provveduti contro fenomeni naturali come la pestilenza, politici come le guerre –che del resto non avranno più luogo quando le repubbliche saranno associate in una società universale. Qui l’utopista riprende la mano al riformatore, ed esclama: “Quanto sublime è lo scopo di travagliare oggi per tutte le età, di vibrare da questo punto della perpetuità una linea di luce che brillerà per tutto l’avvenire sulla felicità del genere umano!” (…) Le aspirazioni dell’eroico giacobino napoletano erano destinate a fallire nell’urto con la realtà dei sentimenti popolari e con la forza dei pregiudizi e nel cadere delle illusioni giacobine in quello scorcio di secolo. Del resto Russo bandiva le sue dottrine a Napoli in mezzo a un popolo che non era di contadini e in mezzo a patrioti che erano possidenti. Gli uni, i plebei, non lo intendevano, gli altri lo tolleravano perché lo consideravano un filosofo non pericoloso. La fine delle repubbliche giacobine italiane dovevano far dimenticare anche quelle aspirazioni, pel problema strettamente politico dell’unità e dell’indipendenza nazionale che doveva acquistare la preminenza su quello dell’organizzazione interna, della libertà e dell’eguaglianza” (Cantimori, pp. 124-7). “Per spiegare meglio il pensiero del Russo si potrebbe dire che egli, per regolare la questione della proprietà, ricorre a due principi, l’uno dall’altro indipendente, ma che egli fa convergere sullo stesso oggetto. Il primo è il tante volte invocato principio di giustizia distributiva: che i beni della terra spettano a tutti. Il secondo è un principio ascetico, cioè a dire: che l’uomo deve limitarsi all’uso delle sole cose indispensabili, ossia ai bisogni necessari, e non ricercare quelle di comodo o di lusso. Egli, dunque, quando per mezzo del concetto del bisogno necessario ha provveduto alla soddisfazione dei bisogni di tutti, e quindi alla cessazione della lotta e della dipendenza tra gli uomini, non sente un ostacolo nella considerazione che la dipendenza e la lotta rinascerebbero pei beni di comodo o di lusso. E non sente quest’ostacolo perché egli annulla il nuovo oggetto di contestazione, ossia i beni che chiama superflui, perché ne fa qualche cosa, non saprei come dire, di peccaminoso; o, che è lo stesso, di non conveniente alla severità della democrazia (…) I contemporanei raccontano che egli faceva una vita da giustificare interamente queste sue espressioni: “Era disinteressato a segno, -scrive il medico Marinelli nei suoi inediti giornali,- che tutto dava per sovvenire i suoi simili: si manteneva il giorno con poche grana e le spendeva mangiando un poco per strada; in casa appena aveva un piccolo letto per riposare: amava tutti all’eccesso”. Altri ricorda che soleva venirsene a piedi dal suo paesello, Palma, a Napoli. Ma l’ardimento delle sue teorie e la veemenza dei suoi discorsi spaventavano non pochi; e voci paurose giravano sul suo conto. Lo scandalo, che aveva destato a Roma colle sue osservazioni sul battesimo –ch’egli diceva essere intolleranza somministrare ai bambini incosci- dovettero dar luogo alla storiella che si raccontava per Napoli: “che egli, stando in Roma, si fece un’abluzione pubblica in una botte per togliersi il battesimo di dosso!”. Il suo rapido passaggio nella Commissione Legislativa sollevò scandali e tumulti. Certo, anche gli amici che gli volevano bene e l’avevano in grande stima per la sincerità ed elevatezza delle sue convinzioni, come il suo compagno della prima giovinezza, Vincenzo Cuoco, non potevano approvare la via senza uscita per la quale egli si era messo” (Croce, “La rivoluzione napoletana..”, pp. 112 e 128-33).

“Il giacobinismo del Russo non si restringe, peraltro, ad una caratterizzazione sul piano meramente teorico. In perfetta coerenza col momento teoretico esso si traduce nella pratica in un parteggiare deciso per la corrente rivoluzionaria che aveva trovato a suo tempo in Robespierre il leader più naturale e rappresentativo. Certo, come è stato osservato da Franco Venturi, allorché la calata degli eserciti rivoluzionari al di qua delle Alpi dischiuse ai fautori italiani del nuovo regime la possibilità di un’azione politica alla luce del sole e li portò al governo dei vecchi e nuovi Stati organizzati alla francese, Termidoro era già avvenuto, il club dei giacobini era già chiuso. Ma queste e le altre osservazioni mosse in proposito dal Venturi ci sembrano egregiamente ribattute, ed accolte in ciò che hanno di irrefutabile, non tanto dalle osservazioni con le quali il Cantimori ha richiamato l’importanza delle agitazioni avutesi in Italia tra il 1792 ed il 1794, quanto dalle altre osservazioni con le quali lo stesso autore ha ricordato come le autorità militari e politiche francesi distinguessero costantemente, tra il ’96 e il ’99, i patrioti moderati da quelli estremisti. E per quanto riguarda in particolare la repubblica napoletana, vi è già stato un tentativo, sia pure rapido e schematico, di individuare, nel Novantanove, i tentativi di dare una soluzione radicale, in senso societario, ai problemi che il riordinamento dello Stato –da tutti avvertito necessario- comportava. Qui è, infatti, il punto essenziale. Per la regina Carolina erano, certo, tutti egualmente “furibondi ma insignificanti giacobini” o “infami ribelli giacobini”: il Russo come il Pagano, il Salfi come il Cirillo e così via. E invero il giudizio della regina può avere un minimo di giustificazione storica nel senso che la situazione nel Regno dopo la proclamazione della repubblica non era tale da consentire di scorgere le profonde differenze di ispirazioni, orientamenti, programmi che potenzialmente dividevano all’interno ciascuno dei due campi in lotta, e specialmente quello repubblicano; e tanto meno consentiva di far leva su tali differenze. Ma le differenze tuttavia sussistevano; e non erano lievi. Compresse dalla estrema tensione della lotta, esse sarebbero riemerse al momento opportuno nell’uno e nell’altro campo e avrebbero allora condizionato, nelle nuove forme consentite dal mutare dei tempi, le sorti della lotta tra la monarchia borbonica e gli innovatori. Rilevarle nel momento stesso della lotta è per lo storico importante non solo ai fini di una più articolata conoscenza del movimento storico reale, ma ancora più ai fini di una retta intelligenza della storia napoletana nel quadro di quella culturale e politica dell’Europa del tempo” (Galasso, pp. 281-2).

23 Aprile. Martedì. Napoli. “Nella Commissione Legislativa Vincenzo Russo fa la mozione, ch’essendosi fin dal Provvisorio passato discusso la legge dell’abolizione della feudalità, la quale non sa perché non venne sanzionata, di questo debbano occuparsi come cosa necessaria, che potrebbe contribuire a calmare le insorgenze dei dipartimenti. Cirillo rileva, che essendo tutte le carte di tal materia presso la Commissione Esecutiva, si dee decretare un messaggio per richiedere e queste carte, e altre, che potrebbero essere opportune ai lavori della Commissione. Uno dei membri fa riflettere, che non bisogna mettere le mani in tante cose diverse, perché altrimenti si cade nella confusione. Russo fa la mozione per due sedute al giorno, una la mattina, una la sera. Scotti si oppone, atteso che ne soffrirebbe la salute degli individui, e le materie non sarebbero ben digerite. Russo insiste; motiva l’urgenza delle presenti circostanze, e l’esempio della Costituente che soleva restare più giorni di seguito: aggiunge: se un sospiro ci resta, pensiamo che anche questo è dovuto alla patria”. L’episodio è un tipico caso di divergenza di metodi e di punti ideali e politici di riferimento tra moderati e radicali, questi ultimi sempre fissi, nel loro orientamento, ai grandi momenti della vicenda rivoluzionaria francese. La sera stessa del 23 Russo si deve dimettere dalla Commissione. Non sono ben chiare le motivazioni: sembrerebbe che anche l’ala radicale (Paribelli, Albanese, Ciaja) non l’abbia sostenuto. Comunque l’episodio testimonia il grado assai scarso di coesione tra le varie correnti dell’opinione repubblicana e anche all’interno di ciascuna corrente” (Galasso, p. 528). “Un altro importante momento di scontro si ha negli stessi giorni sulla questione della tassa per la coscrizione generale della Guardia nazionale. A Russo, insieme a Pagano sostenitore del principio della progressività dell’imposta, si oppongono Giuseppe Pignatelli e Marcello Scotti. Il conflitto si risolve con l’approvazione, da parte della Legislativa, della quota unica di contribuzione per tutti i ceti sociali, con le conseguenti dimissioni di Russo” (Sani, p. 44).

“In città è stato affisso un proclama del generale francese. Questa mattina per tempo quei della guardia civica e gendarmeria andavano levando tutti i cartelli che erano affissi per Napoli. Ad ogni modo le espressioni doveano essere tali da allarmare i patriotti, per cui si è levato immediatamente, e si è veduto publicare un proclama della Commissione Esecutiva del Popolo Napoletano, nel quale si cominciò dal dire che: “la rabbia che divora i fugati Tiranni si compiaceva per pura malignità di spargere il terrore fra la classe pacifica del popolo non ancora infiammato dall’energia repubblicana, e l’allarme con le menzognere voci del ritorno di Ferdinando, di sbarco d’Inglesi a Pozzuoli ed in Salerno, di avvicinamento di un’armata Calabrese, di fornitura di armi che sbarcheranno gli Inglesi, di perdono accordato dal tiranno ai patriotti, di biglietti di assicurazione per li suoi miserabili seguaci; e colla nera calunnia infine che la gran Nazione possa perdonare i delitti di Ferdinando, e permettergli di qui ritornare. Indi dice, che ciò non è possibile ove risiede un’armata francese,  e soggiunge, ammirate infine la saviezza del gran generale Magdonald, il quale ad unico oggetto di alleggerire il popolo dal gran peso che il soggiorno di un’armata inevitabilmente apporta seco, e di vegliare alla nostra difesa, per non ammollire l’armata destinata a convalidare la nostra libertà, va ad accamparla nel circondario di Napoli, da dove spedirà continuamente le sue colonne mobili per la sicurezza della città, e per mantenere la tranquillità specialmente nei partimenti del circondario”. A buon conto si è dato un torno alla partenza, ma i Francesi partono, cosa da essi non fatta in alcun’altra città d’Italia occupata (…) Il generale finalmente con altro affisso ha chiamata rivista generale per l’una pomeridiana di dimani di tutti gli ascritti alla guardia civica, tanto come attivi che come contribuenti. La nota degli attivi è rimasta molto ristretta, e per Napoli pochi si veggono con l’uniforme, mentre un mese fa se ne vedeva una folla per ogni dove (…) Il generale francese e l’Ammiraglio inglese continuano a visitarsi e si regalano scambievolmente. Quello che vi è di sicuro, il popolo esulta, credendo vicino il momento di tornare sotto il Re” (De Nicola, pp. 144-6).

Palermo. Il ministro Acton scrive al card. Ruffo: “S. M. spera che V. Em. non sia per abbandonare i confini delle Calabrie come punto interessante per mantenere la comunicazione con le altre provincie, e per la opportuna direzione delle varie masse riunite nelle medesime” (Croce, p. 137).

 

Nota bibliografica

  • D. Cantimori, “Utopisti e riformatori italiani. 1794-1810”, Sansoni, Firenze, 1943
  • P. Colletta, “Storia del Reame di Napoli”, ESI, Napoli, 1969, v. II
  • B. Croce, “La riconquista del regno di Napoli nel 1799”, Laterza, Bari, 1943
  • B. Croce, “La Rivoluzione Napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
  • G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
  • Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  • G. Galasso, “Mezzogiorno medievale e moderno”, Einaudi, Torino, 1975
  • G. Galasso, “La legge feudale napoletana del 1799”
  • V. Sani, “La repubblica napoletana del 1799”, Giunti, 1997