Repubblica napoletana.10-14 giugno 1799. “Avellino: una storia triste di eroismo repubblicano. Ruffo inizia l’attacco a Napoli. Ultimo giorno del “Monitore napoletano”. Tutto era stato davvero inutile?

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Venticinquesima puntata.  10–14 Giugno 1799. Avellino: una storia triste e interessante di eroismo repubblicano. Ruffo inizia l’attacco a Napoli. Il 14 giugno è l’ultimo giorno della Repubblica e del “Monitore napoletano”. Tutto era stato davvero inutile? Le microstorie: una violenza terribile di stragi e cannibalismo.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”.  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

 

10 Giugno. Lunedì. Napoli. Ultima resistenza. In un Foglio volante (miscell. Bibl. Soc. Stor.) si legge: “Vincenzio Russo è insieme col Salfi e coll’Azzia nella Commissione per la coscrizione della Guardia nazionale del Cantone Sebeto”. Il Lomonaco ci dice che “Russo si trovò pronto in tutte le spedizioni e si batté come un leone per la causa comune” (Croce, “La rivoluzione del ‘99”, p. 135).

11 Giugno. Martedì. Napoli. Manca il pane. Nei dintorni della città gli insorgenti avevano deviato o tagliato le acque che servivano ai mulini. “Non si sa come macinare il grano, giacché per l’acqua tagliata, le molina fuori di città non macinano, per cui si supplisce con centunoli, ossia molini a cavallo dei luoghi pii. La gente è tutta costernata e perplessa, e quello che fa maggiore spavento è vedere l’affollamento della gente ai posti di pane e farina che distribuivasi con le sentinelle” (De Nicola, p. 230).

Avellino. Una storia triste e interessante di eroismo repubblicano. L’antefatto. “Un picchetto di calabresi conduceva legato un uomo più tosto d’avanzata età, chiamato notar Don Libero Serafini, davanti agli ufficiali del cardinale Ruffo. Mossi da natural curiosità, ne addimandarono la cagione, per cui venisse arrestato quell’infelice, anzi si chiese a quegli stesso, chi mai si fosse; ed ebbe ognuno a sbalordire nel sentirsi francamente rispondere: “Io sono il presidente della Municipalità d’Agnone in Provincia d’Abruzzo”. Quest’ardita risposta tirò seco un’altra dimanda, e si fu quella del “Chi viva?” Ed egli, senza punto arrossirsi, o sgomentarsi dal vedersi cinto dalle reali truppe, rispose: “Viva la Repubblica Francese e Napoletana”. Questa seconda risposta mosse a tale sdegno coloro che lo ascoltavano, che lo avrebbero sul fatto ucciso, se non si fosse riflettuto all’istante, che forse quel disgraziato privo fosse dell’uso di ragione; e tale senza meno si sarebbe creduto da ognuno, se il fatto non avesse poscia addimostrato il contrario. L’interrogatorio. Fu quindi quell’ex-Presidente condotto innanzi l’Eminentissimo Duce, da cui interrogato su le stesse domande, dava con tal capatezza d’animo quell’identiche risposte, come se stato si fosse fra la stolta turba dei voluti repubblicani. Procurò allora il clemente Porporato di farlo entrare nei suoi doveri, facendogli comprendere, ch’era caduto nelle forze Reali, e che potea salvarsi, detestando il fallo commesso: ma che! Invano si procurò qualunque espediente per esimerlo dal rigor delle leggi: ed invano finalmente riuscì pure il tentativo di fargli pronunziare: “Viva il Re”, nonostante la promessa che a questa sola voce avrebbe egli campata la sua morte. “No”, rispondea, “ho giurato fedeltà alla Repubblica, quindi non posso né devo più retrocedere dal giuramento prestato”. Vedendosi dunque inefficace la clemenza con un soggetto, il cui cuore era talmente depravato, che si rendea del tutto incapace di ravvedimento, fu subito rimesso ai Ministri della Giustizia, per essere giudicato e condannato a tenor delle leggi. La sentenza. Se ne fece perciò la causa nella notte stessa, e fu condannato a perdere la vita su d’una forca, come seguì il giorno appresso. E fu da notarsi altresì, che neppur l’aspetto d’una morte infame, né la persuasione dei padri assistenti valsero affatto a rimuoverlo dalle folli idee, da cui era allucinato, contentandosi così di riportare il premio del suo giuramento alla Repubblica”. “Così il resoconto del Petromasi, che seguiva il cardinale in qualità di segretario. L’impiccagione. Grande certamente dové essere la calca di gente che accorse ad assistere, l’11 di giugno del 1799, al triste spettacolo della morte di questo giacobino del Sannio, andato così di lontano, ché Agnone è tutt’altro che vicino ad Avellino, e spontaneo, a lasciar miseramente la vita nell’ultima sosta del cardinal Ruffo su la non contrastata via di Napoli. Fu grande certamente il numero degli spettatori, ed osceno il gridio della plebe ubbriaca e dei briganti plaudenti; e quando la povera vittima, lasciata più ore penzoloni a pubblico ludibrio, le mani legate dietro la schiena e il viso orribilmente contorto, venne tratta finalmente alla sepoltura della ignobile fossa comune, il vecchio curato della parrocchia di S. Maria di Costantinopoli, fattosi nella sacrestia ad aprire il registro dei defunti, che avea per le mani fin dall’anno 1782, vergava indifferente questa piccola nota al foglio 79: “Notar Libero Serafino, sospeso sotto la Porta di Puglia. Anno Domini millesimo septingentesimo nonagesimo nono, die vero undecima, mensis Junii: notarius Liberus Serafino, vir Conceptae Arruffo, vulgo Oppidi detto Agnone, aetatis suae annorum circuite 48; solis Sacramentis Eucharestiae et Poenitentiae refectus, in furcis suspensus fuit, et obiit in C. S. M. E. et sepultus in Ecclesia Montis Serrati” (Coppa-Zuccari, pp. 416-18).

Nola. Il cardinale Ruffo arriva in questa località, tra Avellino e Napoli.

12 Giugno. Mercoledì. Napoli. In città regna un’atmosfera cupa, carica di sinistri presagi. “Grande il terrore, deserte le vie, mestissima la faccia della città (…) vasta e vuota come tomba” (De Nicola, p. 231).

Fine di una bella e drammatica avventura. L’ultimo numero del “Monitore Napoletano”. “La buttano giù dal letto i ragazzini della tipografia. Hanno trascinato fino a Sant’Anna un carrettino coi pacchi del “Monitore”, numero 35 del 20 di pratile. “Signo’! Donna Lionora!” strillano. Danno calci alla porta. “E che d’è!” “Signo’, né ieri né stamattina è venuto nisciuno a ritirà li pacchi. Don Salvatore ha detto de li porta’ a la casa vostra”. Imbambolata di sonno, estenuata di sudore e d’afa, li guarda, senza capire; quelli vanno e vengono, recando sulle spalle i pacchi che colorano d’inchiostro fresco. “Ma che è successo?” Va in cucina a prendere mestolate d’acqua, per rinfrescarsi, tornare in sé. Silenzio strano in casa e fuori: mancano i concerti di campane che dall’alba fan tintinnare l’aria del quartiere, manca il rumore di scuri e di portelle che sbattono, annunziando il risveglio nei palazzi e nei bassi, mancano rotolio di carrette, richiami, gli urli dei ragazzi. Napoli tace. Allarmata, apre la finestra, facendo entrare vampe di calore bianco. Pochissime persone in giro, radi i potecari che s’avviano, in mano le enormi chiavi alla san Pietro, per toglier catenacci alle botteghe. Un solo carrettino di verdura s’arrampica verso il mercatino al trivio, il padrone non scarica mazzate né bestemmie sul povero ciuccio affaticato. E che d’è? Riempie la caffettiera. Ora si sente lucida. Forse questo è l’ultimo caffè che mi preparo, pensa. Domani è sant’Antonio, il giorno stabilito da Ruffo. E il numero 35 del “Monitore” è proprio l’ultimo. Non lo leggerà nessuno. Con la tazzina fumante in mano, torna in sala da pranzo, contempla i pacchi accumulati in disordine. Che fine faranno? I lazzari, i vicini, quando verrà saccheggiata la casa, li piglieranno per accendere il fuoco, farci coppetti pei venditori di lupini. Per quello che c’è scritto dentro! Il numero più brutto del giornale. Bugie. Tutte bugie. Dal Governo le avevano spedito dispacci scarabocchiati in fretta, con le notizie dei combattimenti alle soglie di Capodichino, al ponte della Maddalena. “Esaltare, entusiasmare”: la solita postilla. E come no! I fuggiaschi, terrorizzati, avevano riferito che i Sanfedisti tagliavano con ogni cura i corpi dei nemici. Ne facevano ordinati mucchioni: teste qua, gambe là. Perché? Vallo a capire. Si sente molto colpevole. Ha osato scrivere di “presenti vittorie, di successi sugli insorgenti in provincia”; i dispacci con la brusca annotazione “i Sanfedisti sono al ponte” li ha liquidati con un ipocrita, vile “Notizie più circostanziate le daremo nel foglio seguente”. Quale foglio seguente? Eccolo qua, il “Monitore”. A pacchi. Se vuoi, te lo puoi leggere e rileggere. Tu sola, a tuo piacere, fin quando non verranno a pigliarti. Stavolta, stranamente, questo pensiero non dà angoscia. Forse perché, nelle pieghe misteriose dell’anima, sente giunto il finale conseguente di tutta la vicenda. E’ venuto il tempo. L’altra volta si disperava perché sapeva che non tutto era ancora scritto. Ora no. Mo’ non c’è proprio più niente da fare. Il resto di niente. Sarebbe bene prepararsi. Va al comò, ove conserva biancheria, sciqquaglie, i pochi soldi. Solo questi, forse, serviranno, ha esperienza del carcere. Ma adesso sarà peggio. Purché non mi faccian molto male. Che m’ammazzino subito. In un sacchetto di maglia ficca soldi, gioielli. Dal comò saltano ricordi: lo scialle di vovò, una miniatura di mamae, di papài non riuscì a farne fare, per via dei soldi. E nemmeno di Francesco, il bel bambino riccio che le somigliava. Le balza in mente, nel cuore, così vivo, nitido, da farle perdere d’un colpo la fermezza un po’ beota ostentata sin qui. S’inginocchia a piangere” (Striano, pp. 341-2).

Tutto era stato davvero inutile? “All’inizio del sec. XIX, cioè dopo la breve parentesi rivoluzionaria del ’99, dopo la lunga e polemica lotta antifeudale, una delle principali componenti del riformismo illuministico napoletano, G. Zurlo, esaminando la situazione del Regno in una “memoria” del 1801, così scriveva: “Quasi tutte le popolazioni del Regno sono soggette ai baroni. Costoro vi esercitano dei diritti che bene spesso mettono un ostacolo alla prosperità dei paesi. Delle liti perpetue tra università e baroni formano la rovina generale e l’infelicità delle comunità (…) Dappertutto manca il dato essenziale del censo, cioè la notizia se non esatta almeno proporzionale delle sostanze. Il catasto del 1742 non offre nulla di approssimante su di cui possa avventurarsi la ripartizione della tassa…La disposizione di dare in proprietà i demani, da salutare che avrebbe potuto essere, ha accelerato la decadenza dell’agricoltura (…) Le università non hanno platea che assicuri la loro proprietà. I demani sono preda di ognuno. Il potente cittadino se li chiude ed appropria, il povero bruggia furiosamente le piante per seminarvi, soccorrere alla fame che lo pressa e abbandonarli (…) In mezzo a questi mali le università non percepiscono alcuna rendita e perdono le loro proprietà”. Annotazioni e riflessioni queste che vanno oltre la superficiale ed esterna osservazione di fatti ed avvenimenti, penetrano in profondità e toccano la struttura dello Stato, della società, dell’economia quale si presentava ad un acuto ed attento osservatore, ad un esperto e qualificato funzionario qual era lo Zurlo. Quel che più ci colpisce è quasi l’amara constatazione che dopo mezzo secolo di accesa e appassionata polemica antifeudale, dopo quasi mezzo secolo di riforme, le condizioni del Regno erano tutt’altro che migliorate, anzi, per certi aspetti, erano peggiorate: ancora economicamente potente la feudalità, in grave crisi l’agricoltura per il particolare regime fondiario esistente e per la tutt’altro che risolta questione dei demani, in crisi i Comuni oberati di debiti e di liti giudiziarie coi baroni” (Villani, pp. 15-6).

13 Giugno. Giovedì. Ruffo inizia l’attacco alla città di Napoli.

Nel cortile di Castel Nuovo, per ordine della Commissione Rivoluzionaria, ha luogo la fucilazione dei fratelli Gherardo e Gennaro Baccher.

Il punto di vista di Cuoco. “Ma Napoli non era presa ancora. I nostri si eran battuti con sorte infelice nel dì 13 giugno al ponte della Maddalena, e furono costretti a ritirarsi nei castelli. Il governo si era già ritirato nel Castello Nuovo. Il solo castello del Carmine, il quale altro non è che una batteria di mare e che per la via di terra non si può difendere, era caduto nelle mani degli insorgenti. E quale castello di Napoli, all’infuori di Sant’Elmo, si può difendere? Il partito migliore sarebbe stato quello di abbandonar la città e, fatta una colonna di patrioti, che allora forse per la necessità sarebbe divenuta numerosissima, guadagnar Capua per la via di Aversa o di Pozzuoli. Questo era stato il progetto di Girardon, che comandava in Capua le poche forze francesi rimaste nel territorio della repubblica napoletana. Se questo progetto fosse stato eseguito, Napoli non sarebbe divenuta, come addivenne, teatro di stragi, d’incendi, di scelleraggini e di crudeltà; ed ora non piangeremmo la perdita di tanti cittadini” (Cuoco, pp. 187-8).

Muore combattendo al ponte della Maddalena Giuseppe Cestari, 48 anni, letterato, prete regalista, prefetto degli archivi della Regia Camera della Sommaria, figlio del pittore Jacopo Cestaro. Nel gennaio era stato tra i 25 del Governo Provvisorio, presidente del Comitato dell’Interno, incaricato insieme a Pagano e Logoteta di redigere la Costituzione repubblicana. In aprile era stato escluso dal commissario francese Abrial per le sue idee ritenute troppo radicali.

Tra gli altri nel Ponte della Maddalena fu ammazzato D. Luigi Serio, buon letterato e Poeta di Corte. Esso stesso procurò di morire, per non essere ammazzato altrimenti: altri suoi amici morirono in unione con esso” (Marinelli).

“Combattendo al ponte della Maddalena, V. Russo nel ritirarsi fu uno degli ultimi, e cadde in mano dei lazzari e fu portato poi, con tanti altri, nell’edifizio dei Granili. Il Rodinò, anch’egli menato prigione ai Granili, ricordava di aver visto il Russo “nudo, vestito con un semplice giubbetto” (Croce, “Rivoluzione”, 135-6).

14 Giugno. Venerdì. Napoli. E’ l’ultimo giorno della Repubblica napoletana.

Dalla narrazione del cronista emerge lo sgomento dell’uomo di buon senso sopraffatto dagli avvenimenti. “E’ impossibile che possa descrivere con ordine la giornata di oggi. La grande controrivoluzione è seguita; dettaglio quel che posso. Verso le ore nove d’Italia, ai gridi di “viva il re” mi sono svegliato, aperto il balcone, ho veduto che i gridi erano generali per tutta la città. Cominciavano a vedersi dei popolani armati. Una persona mi ha detto che l’armata Calabrese era dentro Napoli, che le truppe civiche avevano abbandonati i posti di guardia, e che colle loro armi il popolo armato andava in traccia dei Giacobini (…) Intanto è cominciato l’orrore del saccheggio; molte partite di popolani si erano portate per le case dei più noti Giacobini e patriotti, ove trovavano costoro, li cacciavano alla strada e li  fucilavano; indi saccheggiavano la casa. Ove non gli trovavano davano il sacco e passavano innanti, senza offendere gli altri appartamenti (…) Avanti Palazzo si è detto ch’eransi trincerati i patriotti più decisi, e coi cannoni si sostenevano. Al largo di Montesanto anco si è trovata resistenza grandissima, ma dal quartiere situato entro quel Convento. Per l’intera giornata S. Elmo ha tirati di volta in volta de’ colpi di cannone; intanto ha fin’ora la bandiera francese; ma ciò non fa al caso, perché sta in mano di quella guarnigione. Sono le ore 23 e mezza, e continua il cannoneggiamento. Per tutta la giornata è continuato il saccheggio. La casa di Stigliano è stata saccheggiata dopo aver fatta un’ostinata resistenza, così quella del rappresentante Pagano, di Vincenzo Lupo, la casa di S. Severo, di Angri, i monasteri di Monteoliveto, S. Pietro a Maiella, S. Severino, gli ospedali, sento pure, di S. Giacomo ed Incurabili, a causa dei giovani che sono stati dei più decisi patrioti: case dei particolari senza numero, quelle soprattutto dei Rappresentanti e dei conosciuti patriotti. Per le strade molti di essi se ne sono veduti morti, altri erano trascinati al ponte ed ammazzati con sfregi e strazio (…) Intanto è un’ora, di notte, la città è tutta illuminata, le campane hanno suonato a gloria l’intera giornata e suonano ancora; ma il cannone dei castelli continua a fulminare, sentiamo le palle che strisciano per l’aria” (De Nicola, pp. 231-2). Nota di altro diarista. “Verso le ore 14 d’Italia fu tagliato l’albero della libertà nel largo dello Spirito Santo, ed il primo colpo ce lo diede un calabrese, e poi fu atterrato dagli altri della popolazione. In questa stessa giornata tutto era furore, massacro, saccheggio ed orrore. Ieri sera fu tutta saccheggiata la casa del medico D. Domenico Cirillo situata sopra Ponte Nuovo. Per saccheggio s’intende per questa volta, che nella casa non vi restava ombra di cosa alcuna, togliendosene la polvere, ferro, vetri, ed ogni altra minuzia” (Marinelli, p. 4).

La voce di un protagonista diretto. “Durante l’assedio dei castelli il popolo napolitano, unito agli insorgenti, commise delle barbarie che fan fremere: incrudeli financo contro le donne, alzò nelle pubbliche piazze dei roghi, ove si cuocevano le membra degli infelici, parte gittati vivi e parte moribondi. Tutte queste scelleraggini furono eseguite sotto gli occhi di Ruffo ed alla presenza degli Inglesi. I due castelli Nuovo e dell’Uovo, difesi dai patrioti, fecero intanto per qualche giorno la più vigorosa resistenza. Se i patrioti avessero avuto un poco più di forza, avrebbero potuto riguadagnar Napoli: ma essi non erano che appena 500 uomini atti alle armi; e Mégeant, che comandava in S. Elmo, non permise più ai suoi francesi di unirsi ai nostri” (Cuoco, p. 188).

Un commento di oggi. “L’esaltante avventura è durata 144 giorni. Dopo gli aspri combattimenti tra gli uomini di Ruffo e le milizie della Guardia nazionale al Ponte della Maddalena, il grosso dei patrioti e i membri del Governo Provvisorio si ritirano nelle fortezze di Castel Nuovo, Castel dell’Ovo e Castel Sant’Elmo. Pochi rimangono i popolani schierati con Michele ‘O Pazzo a favore della Repubblica. Per le strade di Napoli ha allora inizio il massacro dei patrioti. Lazzari e sanfedisti, uniti in una sorta di scontro frontale tra diseredati e arricchiti, gridano insieme: “Chi tene pane e vino, ha da esse giacubbino!” Combattuta dai ceti popolari, dai quali solo poteva essere salvata e sostenuta, la Repubblica moriva così vittima dei suoi stessi errori, dell’arroganza dei francesi e del successo della propaganda borbonica. Le scene di violenza, più volte verificatesi nelle province, si ripetono a Napoli con una furia inaudita. I simboli repubblicani vengono abbattuti uno dopo l’altro e fatti seguire da saccheggi, carneficine, atti di cannibalismo e macabri rituali sui cadaveri dei repubblicani uccisi. Una fioritura spontanea di immagini simili a ex voto, legate alla religiosità popolare e raffiguranti il martirio dei patrioti tra schiere di angeli e santi, si accompagnano alla diffusione di poesie e canzoni dialettali antirivoluzionarie” (Sani, p. 51).

Una testimonianza di microstoria, documentata e dettagliata. La memoria, scritta anni dopo, è di un milite della Guardia nazionale repubblicana, un certo De Lorenzo che, la sera del 13, dopo aver a lungo combattuto, con un suo amico e commilitone, Gennaro Grasso, si erano ritirati nel quartiere della Guardia a Monteoliveto; qui i due giovani, stanchissimi per l’azione del giorno, si erano gettati sul tavolone del corpo di guardia e si erano addormentati. Il prologo.Dormivano appena da tre ore, quando furono svegliati da gridi di “Viva il re!”. Balzati in piedi, cercando con l’occhio i compagni, non ne videro più alcuno; ma contro di loro si avanzava invece un torrente di plebe, di briganti, di donne, di fanciulli, di gente armata, che emettevano quel grido. Si rifugiarono allora nell’interno del convento di Monteoliveto, accolti da un frate laico, che il Grasso conosceva, nella sua cella, dove rimasero nascosti tutta la notte. Il povero frate all’alba tagliò loro le barbette, li vestì con abiti monacali e mise a ciascuno dei due un salmario in mano; sicché, quando la plebe entrò nel convento per saccheggiare e penetrò nella cella del frate, li credette monaci, e anzi un lazzarone, osservando il Grasso pallido in volto, gli domandò compassionevolmente se era ammalato. Ma ben li ravvisò il capo della masnada, un tal Tommaso, già parrucchiere di famiglia del De Lorenzo e licenziato al tempo della repubblica, perché si era scontenti del suo servizio e d’altra parte la moda dei capelli tagliati aveva resa quasi superflua l’opera del parrucchiere; del quale licenziamento colui era rimasto assai stizzito. Il De Lorenzo, a quell’incontro, si tenne perso; ma il capolazzaro, dopo averlo per qualche minuto fissato con cera brusca, quasi per dirgli: “Da me dipende la tua vita”, e minacciatolo col capo e cogli occhi, alfine, con un atto d’impazienza, come se fosse contro sua volontà dall’antica dimestichezza costretto a rispettarlo, batté forte col calcio del fucile a terra, e partì ordinando alla turba di seguirlo. Il seguito. Sfuggiti al primo pericolo, i due amici, per evitarne di nuovi a sé stessi e al loro ospite, uscirono dal monastero; e si trovarono in mezzo alla città, percorsa tutta da stuoli di briganti e lazzaroni, che saccheggiavano le case dei giacobini o voluti tali, ne arrestavano gli inquilini, li ferivano, li ammazzavano, portavano in processione donne e fanciulle ignude; e, dovunque, agli angoli delle strade, mucchi di cadaveri, di teste e di altre membra recise. Inorriditi, si risolsero a cercare rifugio presso uno zio del De Lorenzo, monaco della Croce, nel convento di S. Nicola Tolentino, sottoposto e prossimo al castello di S. Elmo, e vi arrivarono a mezzogiorno; ma lo zio non li volle accogliere, col pretesto che ciò era proibito dalla regola del convento. In cambio somministrò loro rimproveri e sarcasmi, dicendo, tra l’altro, al nipote: “Credevi tu forse che Ferdinando IV, perdendo il regno, avesse perduto un fazzoletto, che non avrebbe cercato di recuperarlo? O che gli sarebbero mancati i mezzi di strapparlo ai valorosi repubblicani?”. In mezzo alle stragi. Nella loro nuova peregrinazione passarono per la terribile piazza del Mercatello, dove l’immensa folla li costrinse a fermarsi e guardare. L’albero della libertà, che sorgeva in mezzo a quella piazza, era stato spiantato e atterrato dai calabresi e dai lazzari, molti dei quali a dispregio vi facevano sopra e intorno i loro atti necessari, alla presenza di gran numero di donne, che assistevano allo spettacolo. Altri conducevano a piede dell’albero frotte di prigionieri, come bovi al macello, e li fucilavano alla peggio; e morti o semivivi li decapitavano, e le teste mettevano sopra lunghe aste o le adoperavano per divertimento, rotolandole per terra a guisa di palle. I due si sottrassero a questa vista orribile, entrando per Port’Alba; ma dovevano arrestarsi di nuovo presso il convento di S. Pietro a Maiella, contro il quale i calabresi dirigevano un vivo fuoco, asserendo che vi fossero rinchiusi alcuni giacobini. Una buona donna, moglie di un sarto, li accolse nella sua bottega, credendoli monaci; senonché, essendo uscita a esplorare la strada, ritornò tutta tremante, minacciata per avere accolto due monaci giacobini. Quasi nell’istesso istante, la bottega fu invasa da armati; e il capo di costoro li sottomise a un interrogatorio e volle vedere le loro carte. Per fortuna, il sangue freddo del De Lorenzo, che fu pronto a buttar via nascostamente gli orecchini che aveva nel portafoglio e a mostrare le immagini di santi di cui esso era pieno (messevi dalla madre, poco prima di morire), valse a persuadere quel masnadiere, che li lasciò andare (…) Entrambi così si avviarono per Forcella verso Monteoliveto per raggiungere Castel Nuovo. Assisterono per via alle soliti tristi scene: in piazza Trinità Maggiore videro massacrare a colpi di fucili e baionette un Giuseppe Merande, parente del Grasso, un povero galantuomo demente, che, quantunque udisse i gridi di “Viva il re”, si era ostinato a uscire di casa con la coccarda francese al cappello. Sulla stessa piazza, calabresi e briganti mangiavano sopra cadaveri.  Nuova cattura. Per evitarli, i due amici tornarono indietro, girando pel pallonetto di Santa Chiara, e giunsero senza incidenti presso la chiesa di Santa Maria la Nuova, dove, non appena giunti, furono arrestati dalla gente in armi che guardava la casa del presidente Molinari. Un tale, che li aveva scorti dal balcone e riconosciuti per ufficiali della guardia civica, aveva dato l’ordine dell’arresto, confermando che erano finti monaci e veri giacobini. Il De Lorenzo con sangue freddo persistette nell’asserire la qualità di monaco sua e del compagno. “Vi porteremo al ponte della Maddalena dal cardinale”, disse il capo degli armati, “che, se non vi ritroverà monaci, vi manderà a raggiungere i vostri compagni nell’altro mondo”. “Andiamo dunque, siamo pronti”. Verso l’accampamento del cardinale. Per la lunga strada, continuò il dialogo tra il De Lorenzo e i suoi accompagnatori, l’uno sempre asserendo imperturbabilmente la qualità di monaco, gli altri contestandola e dipingendo con le parole e con gli atti la fine prossima che li attendeva; un camiciotto (ossia soldato del disciolto esercito regio), che capitanava quella masnada, con una lunga scimitarra che aveva sempre nuda nelle mani, prendeva la misura dei loro colli. Ai quali atti simbolici si aggiungevano quelli reali, insulti, sputi in faccia, percosse. Nel restante del percorso, De Lorenzo fu in certo modo tutelato, perché fece scivolare otto piastre nelle mani di un lazzaro che gli era a fianco, e che divenne da quel momento il suo protettore. Al ponte della Maddalena, grande ammazzamento di coloro che erano condotti al cardinale; non solo uomini e adulti, ma donne, fanciulli, vecchi, ragazzi; e presso quella folla, quella carne da macello, due carri fermi a riceverne i corpi, che erano gettati immediatamente in mare, quasi tutti semivivi (…) Il cardinal Ruffo era un mezzo tiro di fucile distante, circondato da molti ufficiali e da tutto il suo stato maggiore, che gli faceva corona. L’interrogatorio. L’uffiziale calabrese gli presentò i due e l’informò sommariamente del caso. Ed egli, dirigendosi al De Lorenzo, domandò: “Ebbene, chi siete voi? Siete monaci veramente?”. E il De Lorenzo: “Eminentissimo, noi non siamo monaci, questa è la verità; ma se Vostra Eminenza me lo permette, le dirò che, obbligati ambedue dai repubblicani a far la guardia civica, ci trovavamo di guardia al quartiere di Monteoliveto, allorché vittoriose sono entrate questa mattina le armi del nostro re. Noi abbiamo subito buttati i nostri fucili e le nostre uniformi per ritirarci a casa; ma, disgraziatamente per noi, per seguire la moda ci trovavamo coi capelli tagliati. Come uscire dunque da Monteoliveto e sottrarci al furore del popolo, il quale massacra tutti coloro che non hanno capelli, credendoli giacobini? Ci siamo vestiti da monaci e tornavamo a casa, allorquando siamo stati arrestati e menati ad esser fucilati al ponte, se quel Dio che protegge l’innocenza e sa quanto siamo fedeli sudditi di Sua Maestà, non ci avesse protetti”. La sentenza. A queste parole il cardinale, volgendosi alla gente armata, disse: “Ebbene, non vi è altro che questo? Perché li avete arrestati?”. Risposero coloro, insistendo che si trattava di due perfidi giacobini; e si ebbe un principio di contrasto tra il cardinale, che era disposto a lasciarli andare liberi, e gli accompagnatori, che li volevano fucilare; sicché il Ruffo, conoscendo la sorte che sarebbe toccata ai due prigionieri se li avesse messi in libertà, per salvarli finì col dire ai suoi ufficiali: “Riponeteli nello stesso luogo dove sono gli altri”  (Croce, “La rivoluzione del ‘99”, pp. 238-44).

Palermo. Parole ambigue ma che non fanno presagire il grande massacro finale. La regina Carolina scrive al card. Ruffo: “Questa mia, Vostra Eminenza la riceverà secondo le mie speranze dentro Napoli, ed avrà compita l’opera sua gloriosa di averci riconquistato il regno (…) Le lettere degli 11 e 12 ricevute da Procida mi mostrano che la bomba sta per aprirsi né più si può aspettare; le acque tagliate, la mancanza dei viveri non ammette indugio. Lascio alla saviezza di V. E. a dirigere il tutto; anche io desidero vivamente che si risparmiino i massacri e il saccheggio. Sono convinta che i Napoletani non si difenderanno, mentre le classi ribelli non hanno verun coraggio, ed il popolo, che ne ha mostrato, è della buona causa; e perciò credo che senza nessuna o pochissima pena si riprenderà Napoli. Il solo S. Elmo mi imbarazza: avrei intimato resa a quel comandante col dilemma subitaneo, in poco tempo, o rendersi ed essere accompagnato con salvocondotto dove vuole, anche potersi a sua scelta portare 50, fino a 100 giacobini con sé, ma di dover lasciare i cannoni, fortificazioni, difese tutte in buono stato; o non accettandolo, non esservi per lui quartiere, né per i suoi (…) Mantenere la parola a tutti quelli che si difendono, come pure agli assaltanti; mettere subito i deputati per l’ordine e per l’annona della città, gli Eletti non eligendosi più che dal re, i Sedili restando aboliti dopo la loro fellonia di avere detronizzato il re, cacciandone il suo vicario, ed assumendosi senza suo permesso l’autorità di tutto; cercare l’ordine, impedire le rapine (…) Desidero con vera ardenza di sentire Napoli presa: entrare in trattativa con S. Elmo e il suo francese comandante, ma nessuna trattativa coi nostri ribelli vassalli: il re nella sua clemenza li perdonerà, diminuirà i loro castighi per sua bontà, ma mai capitolerà, né tratterà con dei criminosi ribelli che sono all’agonia, e volendo non possono far male, essendo come i sorci nella trappola. Io li vorrei, se conviene al bene dello Stato, perdonare, ma non patteggiare con simili bassi e spregevoli scellerati” (Croce, La riconquista, pp. 214-7).

 

 

 

Nota bibliografica

  • L. Coppa-Zuccari, “L’invasione francese degli Abruzzi”, L’Aquila, 1928, v. I
  • B. Croce, “La riconquista del regno di Napoli nel 1799”, Laterza, Bari, 1943
  • B. Croce, “La Rivoluzione Napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
  • G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
  • Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  •  A. Fiordelisi, “I Giornali di Diomede Marinelli”, Napoli, 1901
  • D. Marinelli, “La caduta di Napoli”, Napoli, La città del sole, 1998
  • V. Sani, “La repubblica napoletana del 1799”, Giunti, 1997
  • E. Striano, “Il resto di niente”, Rizzoli, Milano, 1998
  • P. Villani, “Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione”, Laterza, Bari, 1973