Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Undicesima puntata. 4-8 marzo 1799. “In Calabria Ruffo avanza lentamente. Sono soppressi i titoli nobiliari. Pulcinella può essere un rivoluzionario? Si discute sull’abolizione della feudalità”

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Undicesima puntata. 4-8  marzo 1799. “Il cardinale Ruffo in Calabria avanza lentamente: le città principali si arrendono. La Repubblica francese riconosce la Repubblica napoletana. Pulcinella può essere un rivoluzionario? Emanata la legge sulla soppressione dei titoli nobiliari. Procede, fra contraddizioni, la discussione sull’abolizione della feudalità”

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 29).  Giuseppe Galasso in un suo scritto di qualche anno dopo confermava la mia analisi: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”. In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

4 marzo. Lunedì. Napoli. Dubbi ed inquietudini del cronista. Ieri al giorno, per quale occasione è ignoto, ancora vi fu al Mercato un attacco in cui rimasero ammazzati due o tre soldati francesi e della guardia nazionale. Questa mattina anco al Mercato vi è stato del rumore colla morte di due altri soldati, e si è sciolto il mercato immediatamente. Mi rincresce moltissimo che il popolo sempre più si disgusta ed il Governo non s’incarica dei mezzi per quietarlo, anzi mi pare che si faccia il contrario. Quei della Guardia Nazionale che chiamansi Patriotti sono molto malveduti dal popolo, ed essi mancano di condotta e di prudenza. Quest’oggi ho veduto un sacerdote per nome Ignazio Falconieri, conosciuto nella repubblica letteraria per le sue opere attinenti alle Belle Lettere, con uniforme di capitano della Guardia Civica, cosa che al popolo forma scandalo, mentre colui crede di ben servire la Repubblica; e questa sera ha perorato nella Sala d’Istruzione, animando tutti ad arrolarsi. Ai Sacerdoti dovrebbe essere assegnato un altro luogo, cioè quello dell’istruzione e non già della difesa pubblica; ognuno deve stare a suo luogo, e bisogna rispettare le opinioni e le superstizioni anche del popolo, non urtare tutto di fronte nel momento terribile in cui una Nazione cambia Governo. Per animare tutti ad arrolarsi alla milizia urbana, si è pubblicato un altro proclama, ordinando che non possa aspirare a cariche della Repubblica chi non è ascritto alla milizia. Altra svista del Governo a parer mio. La Repubblica deve conoscere i soggetti per quello che sono, e deve impiegarli per quello che vagliono, non siamo ai tempi che si maneggiava la penna e la spada, si perorava in Senato e si combatteva il nemico da una persona medesima; presso di noi chi attende al bellico non si adatta al politico, non alla mercatura, non al foro, e simili. Scrivo questi miei sentimenti perché non devono vedere la luce, altrimenti me ne asterrei” (De Nicola, pp. 91-2).

Monteleone (Calabria). “Ruffo scrive ad Acton: “Ho circa 4mila uomini ma spero sotto Catanzaro averne 10mila”. Tale affermazione, è ovvio, era fondata sulle notizie pervenutegli; e difatti, eccetto Catanzaro, tutte le altre repubbliche erano cadute e le popolazioni in armi attendevano il suo arrivo. Tuttavia egli dovette superare gravi incertezze prima di decidere il nuovo corso della spedizione. La sua corrispondenza di quei giorni appare, a questo riguardo, molto indicativa: dovendosi fondare sulle notizie confuse e, a volte contraddittorie, recategli dai corrieri realisti, la sua risoluzione appariva difficile. Ad ogni modo, sia per le notizie che gli giunsero dal golfo di Policastro sul moto realista del Cilento, sia per le informazioni avute da Catanzaro e da Cotrone, il Cardinale decise di accostarsi alla capitale della Calabria Ultra e di inviare un distaccamento guidato dal capo sanfedista Mazza verso Amantea, S. Lucido e Paola. In tal modo, egli mirò a conquistare le due importanti città di Catanzaro e di Cotrone e, nel contempo, a tagliare ogni comunicazione tra la capitale della Calabria Ultra e Cosenza” (Cingari, p. 193).

Pizzo (Calabria). “Il capitolo di quella collegiata, il resto del clero con la croce alzata uscirono fuori il borgo della città per attendere l’arrivo del Cardinale, il quale giunto smontò da cavallo ed al suono de’ sacri bronzi ed intuonato il “benedictus” fu accompagnato processionalmente alla Chiesa madre, e ricevuta ivi la benedizione col Santissimo, s’incamminò anche processionalmente al palazzo ducale, ove venne con magnificenza trattato dal cavaliere Alcalà, governatore generale del duca dell’Infantado” (Placanica, ibidem).

5 marzo. Martedì. Napoli. La Repubblica francese riconosce la Repubblica napoletana. “Il soldato francese ammazzato al Mercato fu per non aversi voluto levare il cappello, mentre da un missionario facevasi la benedizione col Crocifisso. L’altro rumore fu con la guardia urbana che volea arrestare due ragazzi che tiravano a pietre” (De Nicola, p. 93).

Nel “Monitore” Eleonora Pimentel scrive: “Ben riconosco che il popolo napoletano, allorché insorse alla resistenza, se mostrò accecamento di ragione, svelò insieme un vigor di carattere che ignoravano in lui gli stessi suoi connazionali” (p. 42). Ed ancora: “Propongo una gazzetta vernacola con estratto delle notizie più importanti e delle leggi e dei provvedimenti del Governo, e che questo foglio sia nei dì festivi letto in tutte le chiese di città e di campagna; che le nostre sei municipalità di Napoli tengano ciascuna degli uomini pagati apposta per leggerlo il dopopranzo nei gruppi del popolo; e che questo metodo della centrale sia comune ai dipartimenti” (ibidem, p. 43).

“Meravigliati rimasero i giacobini napoletani, i quali si erano illusi di avere dalla loro il popolo e i contadini, a cui apportavano il beneficio dell’umanità, della libertà e dell’eguaglianza, e che allora si avvidero che una grossa parte, la maggioranza della popolazione, non li intendeva e li guardava con occhio torvo e li avversava, e indarno procurarono di amicarsela con espedienti spesso infantili, e dissero poi, per bocca di Vincenzo Cuoco, che nel regno di Napoli vivevano “due popoli, diversi per due secoli di tempo e per due gradi di clima”. Ma (e ciò fornisce argomento della bontà e dell’altezza d’animo di quella nobile generazione d’uomini) essi non ricambiarono l’odio con l’odio, considerarono le plebi “traviate e incolpevoli a causa della loro ignoranza”, sentirono quasi la loro responsabilità in quell’ignoranza, e, quel che è più, ammirarono l’energia e il vigor di carattere di quelle plebi. Il popolo (disse anche il Cuoco), “ripiena la mente delle impressioni di tanti anni, amava la sua religione, amava la patria e odiava i francesi”: disposizioni non indegne, da cui si sarebbe potuto trarre un utile partito; e molti patrioti furono allora e poi presi da una sorta di rossore, come se quelle incolte plebi avessero loro inflitto una lezione di sano patriottismo e di orgoglio nazionale” (B. Croce, p. 208)

Maida (Calabria). Il cardinale Ruffo arriva in questa città.

6 marzo. Mercoledì. Napoli. Il Governo Provvisorio crea due commissioni: una per stabilire l’entità dei beni dell’ex re e una per reimpiegare i militari borbonici.

Ignazio Ciaia, membro del Governo Provvisorio, scrive al fratello Francesco Antonio che si trova a Parigi, facendo parte della delegazione della Repubblica napoletana presso il Direttorio: “Se l’armata francese si terrà in maggior disciplina, e se le requisizioni saranno meglio dirette, sicché non s’annientino le proprietà dei privati, avremo fatto un gran passo verso la pubblica felicità. Sinora però non abbiamo che lagrime. La contribuzione militare di due milioni e mezzo di contanti, che assolutamente non vi sono, è ciò che ci penetra del più alto dolore, e ciò che diviene veramente un’oppressione. I Tiranni avevano tutto involato con un sistema di dilapidazione e di spoglio, che tu ben sai. L’anarchia seguente finì di distruggere i fondi e le risorse. La comunicazione coi dipartimenti manca tuttavia per gli insorgenti, che il fanatismo vende all’oro di Sicilia. I pesi, che porta di necessità seco la presenza d’una armata e il passaggio d’una ad un’altra forma di governo, sono immensi. Tutto dunque è chiuso alla ricezione, ed intanto tutto si vuol pronto a’ bisogni. Ecco in breve il nostro stato attuale, e le cause d’affanno del Governo e della Nazione (…) E’ bene ancora che sappi esservi ne’ Dipartimenti molti satelliti, che spendono oro in gran copia, ed accaparrano gente sempre più che non fanno i nostri sterili proclami. Un Popolo, che non sente i suoi dritti nella sua ragione, non ci sarà veramente amico che quando comincerà a sentirli nel disgravio dei pesi. Or, se questi crescono, dove ne saremo? Tutto sta che la Francia ci lasci respirare un momento. Ella farà male i suoi interessi se si ostina a ricusarsi a questa grande verità (…) Abbiam sospesa la festa della Federazione perché non tutti i Dipartimenti sono ancora tranquilli. L’Apruzzo e la Puglia sono rientrati nell’ordine con la morte di più migliaia di ribelli. Posso assicurarti che si va sviluppando un coraggio, ch’io non sapea dare a questa Nazione. Felici noi se sapremo obbligarcelo ed attaccarlo alla rivoluzione! In altro caso… io non veggo che tombe. Napoli è in silenzio, ma non in perfetta calma” (Croce, pp. 293-4).

“Essendosi publicato proclama ordinante che chi non s’iscrive alla milizia urbana non può pretendere a cariche della Repubblica, e s’invitano i cittadini a scriversi fra il termine di otto giorni, elassi i quali si dice che chi non si trovi scritto dovrà conformarsi alle leggi per l’organizzazione della truppa civica, concorrono moltissimi ad arrolarsi” (De Nicola, pp. 93-4).

Nella stanza-redazione Eleonora Pimentel lavora con impegno. Piove, spiove, il sole sbuca da nuvole capricciose. Ecco Peppe Cammarano. E’ venuto con lui il vecchio don Vincenzo, il grande Pulcinella. Eleonora lo accoglie con rispetto: è ancora saldo, sebbene gli tremino le mani ossute, gli occhi siano orlati di rosso. “Accomodatevi, don Vincenzo. E’ un onore. Mo’ vi faccio il caffè”. “Donna Liono’, lasciate stà”. “’No momento momento. Purtroppo sono sola”. Il caffè viene bene, tirato, don Vincenzo le fa i complimenti. “Grazie. Peppì, vorrei discorrere con voi. Visto che è venuto pure don Vincenzo, è ancora meglio. State seguendo il “Monitore”? La campagna che faccio per educare il popolo? Mi dovreste dare una mano”. Peppe annuisce, servizievole. “Noi qua stiamo”. “Io penso che dovreste dare qualche spettacolo democratico, inventare dei copioni con Pulcinella che si fa repubblicano. Non so, qualche storia tragicomica, dove si vedano le schifezze dei Borboni, l’eroismo dei patrioti”. Peppe si fa perplesso, guarda suo padre, il quale resta immobile sulla sedia, senza espressione. “Mah…”, dice finalmente il giovane Cammarano. “Io lo farei pure, ma mi sento incerto. Il nostro pubblico è abituato a certe trame, non saprei proprio come la piglierebbe. E se poi facimmo peggio? Se non ci viene più nessuno?”. Lei fissa il vecchio, che non si muove. “Don Vincenzo, vogliamo sentire voi. Cosa ne dite?”. Cammarano la osserva. Finalmente si decide a parlare. “Donna Liono’, compatite il mio pensiero. Pulcinella è ‘no povero ddio. Un uomo di niente, un pezzente, un vigliacco. Uno che pensa solo a salvarsi la pelle nelle disgrazie che lo zeffonnano. Perciò è arraggioso, fetente, mariuolo, arrepassatore. Non è un eroe. Voi lo vedete ca se mette ‘ncoppa a ‘na cascia alluccanno?”. Il vecchio si leva in piedi. Senza volerlo assume l’aria del palcoscenico, fa la voce nasale di Pulcinella. “Citatine! E’ nata la Ripubbreca…La Repubroca…La prubbeca…Mannaggia lo cascione, comme canchero se dice ‘sta fetente de parola?”. Le vien da ridere. Anche Peppe sorride, guardando il vecchio con ammirato amore. “E poi” sospira Cammarano, tornando a sedere, “Pulcinella non è un tipo allegro. Sa le cose nascoste. Ca la Repubblica adda ferni’, come finisce tutto, ca ll’uommene se credono de fa chesto, de fa chello, de cagnà lo munno, ma non è vero niente. Le cose cambiano faccia, non sostanza: vanno sempre comme hanno da ì. Comme vò lo Padrone. Lo munno non po’ girà a la mano smerza. Lo sole sponta tutte li mmatine e po’ scenne la notte, la vita è ‘na jurnata che passa: viene la morte e nisciuno la po’ fermà. Perché è de mano de lo Padrone: di Dio. Pulcinella queste cose le ha sapute sempre, come volete che si metta a fare il giacobino? Lo po’ pure fa, ma solo per far ridere, per soldi. Isso, non ce crede” (Striano, pp. 321-3). –eppure Ruzante nella Venezia del primo ‘500 aveva messo in scena e nella pagina letteraria la satira straniata del contadino vile, sfruttato e svillaneggiato (ndr)-

7 marzo. Giovedì. Napoli.  Emanata la legge sulla soppressione dei titoli nobiliari.

“Un terribile proclama si è publicato dal generale MacDonald contro chi sparge voci allarmanti o promove tumulti, e vuole che sieno i regolari e preti responsabili in ogni comune dei rumori che potessero avvenire, obbligandoli ad accorrere e sedarli. Proibisce il suono di campane in caso di allarme. Ordina che suonandosi la generale debba ogni cittadino ritrovarsi alla propria abitazione, menocché la guardia civica. Proibisce la caccia fino a nuovo ordine, tutto sotto pena di morte. Promette infine sicurezza e protezione al culto e ai ministri del medesimo. Certi monasteri hanno fabricato le porte dei campanili, o tolto i battagli delle campane” (De Nicola, p. 95).

“C’è la prima versione della legge sull’abolizione della feudalità: essa prevede l’abolizione senza compenso di tutti i diritti e le giurisdizioni feudali e riconosce ai baroni la proprietà di un quarto dei cosiddetti demani feudali e tutte le altre terre feudali. Lo schieramento repubblicano è abbastanza composito, e la presenza nelle sue file di numerosi nobili che hanno partecipato alla rivoluzione spinge i moderati, tra cui il Pagano, a tentare di evitare fratture troppo gravi. Dichiarando abolita la feudalità, distrutte le giurisdizioni baronali, congedati gli armigeri, vietati i servigi personali, rimesse le decime, le prestazioni, tutti i pagamenti col nome di diritti, il Governo promise legge nuova, giusta per i comuni e per i già baroni, senza vendicare, come natura umana consiglierebbe, le ingiurie patite da’ feudatari. Dopo la quale promessa, il Governo attese all’adempimento; ma intrigato nelle vicendevoli ragioni, non mirando che alla giustizia ideale, trovando intoppo quando ne’ possessi e quando ne’ titoli, quella legge, lungamente discussa, non fu mai fornita” (Colletta, p. 305).

Il Galasso tenta di districare l’aggrovigliata matassa degli orientamenti in seno al Governo Provvisorio e ai Comitati e la materia sarà lucidamente rievocata dalla Pimentel nel “Monitore” del 9 aprile. “Il Rappresentante Albanese, membro del Comitato di Legislazione, aveva proposto subito un progetto di legge che conteneva l’attribuzione di tutti i demani ai comuni e la soppressione di ogni diritto baronale in materia. Erano venuti alla luce forti dissensi. Nella discussione si erano opposti due gruppi, l’uno estremista capeggiato dal Cestari e l’altro moderato capeggiato dal Pagano. Fu applaudito il voto del rappresentante Mario Pagano, che sosteneva la sola abolizione dei diritti feudali personali, volendo che per le prestazioni reali i Baroni si considerassero come tutti gli altri possidenti. La testimonianza del De Nicola conferma che questo primo testo della legge, approvato il 7 marzo, fu steso secondo le vedute e l’ispirazione del gruppo di patrioti che faceva capo al Pagano. E’ bene però precisare che il moderatismo del gruppo in questione non nasceva tanto da un orientamento ideologico ben preciso quanto da un giudizio di opportunità che esso portava sulla situazione di fronte alla quale si trovava. Pagano nel suo discorso aveva sottolineato che “la necessità politica ci costringe a riconoscere talora gli atti, che la purità della morale ci obbliga a detestare”. Il Pagano non voleva creare un dissidio tra la rivoluzione e gli interessi dei baroni, molti dei quali erano sinceri patrioti e alla causa delle riforme e della libertà avevano molto sacrificato e attivamente partecipato, e per questo intese trasformare un contrasto di interessi e di classi in un contrasto di natura giuridica da risolversi nei tribunali con principi di equità. Cuoco porrà il principio dell’opportunità “di disgustar diecimila potenti per guadagnar l’animo di cinque milioni”. A che cosa sarebbe valsa la moderazione verso il ceto feudale? La verità era che il baronaggio che seguiva la Repubblica era solo una minoranza del ceto nobiliare. Già fin dai primi giorni della Repubblica era stato evidente la sensibilità dei ceti popolari per tutto quanto riguardasse il problema della terra. Noi però sappiamo che l’atteggiamento delle popolazioni per la repubblica o contro di essa, pur girando su questo perno, fu in realtà influenzato da numerosi altri elementi; e avvertiamo perciò meglio la sottile ma decisiva contraddizione che c’è nel Cuoco stesso quando egli, da un lato, parla dei contadini del Regno come di una massa unitaria di 5 milioni, contrapposta al gruppo, altrettanto unitario, dei 10mila potenti, e, dall’altro lato, parla dell’unità nazionale inesistente nel Mezzogiorno e delle infinite differenze che da luogo a luogo “rendevano diversi i costumi degli uomini, che sieguon sempre la proprietà e i mezzi di sussistenza”. Nessuna legge agraria o feudale avrebbe potuto evitare lo scoglio di un particolarismo così radicato e molteplice. E nondimeno il problema di un’impostazione unitaria della questione della terra permaneva come elemento decisivo di caratterizzazione del nuovo regime di fronte a masse popolari che ne ignoravano o ne avversavano i principi ordinatori. Comunque sia, il generale francese respinge il testo quando gli viene sottoposto per la ratifica. C’è un appunto, non riprodotto dal Croce, che sottolinea: “MacDonald favorisce i baroni e ne riceve denaro”. Questo significa che il fronte baronale repubblicano sperava di condizionare il testo del Pagano in senso ancora più moderato con maneggi così evidenti da spingere molti a parlare di corruzione. In aprile avverrà esattamente il contrario ma intanto si era perso del tempo prezioso” (Galasso, pp. 517-29).

8 marzo. Venerdì. Napoli. “Innanzi al Palazzo Nazionale con molta solennità si sono bruciate le bandiere tolte ai regalisti di Puglia e di Apruzzo. La piazza era tutta circondata dalla milizia urbana, in mezzo si era situato il rogo, dirimpetto fu innalzato un palco su cui montò il Generale ed il Governo Provisorio al suono delle bande. Furono prima spezzate quelle insegne e poi gittate alle fiamme fra gli evviva della gente che ingombrava l’intero largo. Laubert ha presa la parola ed ha fatto un energico discorso al popolo, indi il Generale ha fatta anche una breve parlata in francese gestendo col suo bastone. Laubert la ha spiegata, dicendo, aver il generale detto, che siccome quelle insegne gittatesi erano al fuoco, così su quel rogo medesimo sarebbesi spenta ogni idea di monarchia e di tirannide. Indi son partiti. Questa funzione si fece con l’intervento di numeroso popolo, ma fu notato che non vi era gente della plebe, la quale continua ad essere avversa, e si tiene a freno pel timore non già per amore. Solo vi assisteva un tal Michele detto il Pazzo, che fa da capo popolo, ma è malveduto dai suoi stessi compagni” (De Nicola, 95).

Maida (Calabria). Ruffo scrive ad Acton: “Catanzaro è veramente reso, e non puol reggersi; molti dei più malvagi sono stati massacrati, altri imprigionati, e spero che domani vi entreranno 600 uomini dei miei. Cosenza non sta molto in forze, e se mi sbrigassi da Catanzaro, credo che presto l’avremmo nelle mani. Rivoluzione ci è, e nessuno vuole Francesi o li ama” (Croce, “La riconquista…, p. 53).

Giunto a vista di Catanzaro, altra città di parte francese, inondando delle sue truppe le terre vicine, mandò ambasciata di resa. Ma Catanzaro, sopra poggio eminente, cinta di buone mura, popolosa di 16mila abitatori, provveduta d’armi e preparata (per le udite sorti di Cotrone) a’ casi estremi, rispose: ch’ella, non mai ribelle, obbediente alle forze della conquista francese come oggi alle più potenti della Santa Fede, tornerebbe volontaria sotto l’impero del re, a patto che i cittadini non fossero puniti né ricercati delle opinioni e delle opere a pro della Repubblica, e che le truppe della Santa Fede non entrassero in città, ma solamente i magistrati regi, guardati ed obbediti dalle milizie urbane: così per pace. Sapesse il cardinale che per guerra 6mila uomini armati morirebbero alle mura combattendo, prima di tollerare i danni e le ingiurie che aveva patite Cotrone. Per i quali detti Ruffo vidde che la vittoria non sarebbe certa né allegra; e, simulando modestia, dicendo che i disordini di Cotrone derivarono dall’ardore delle sue schiere concitate da ostinata resistenza, concordò: che la città inalzerebbe l’insegna dei Borboni e, tornata sotto l’impero del re, obbedirebbe alle sue leggi e magistrati; che milizia urbana, composta da ministri regi, sarebbe la sola forza dell’autorità regale; che resterebbero occulte le opinioni dei cittadini, e rimesse le opere a pro della Repubblica; non entrerebbero in città truppe borboniche; Catanzaro pagherebbe per le spese di guerra” (Colletta, pp. 326-7).

Quando il card. Ruffo mise piede sul suolo calabrese il moto sanfedista era già in atto, sorto per l’opera di borghesi e nobili reazionari, i quali avevano saputo utilizzare il diffuso malcontento popolare. E si può affermare altresì, a limitazione di una tesi tuttora ricorrente, che il fattore religioso non fu determinante nella preparazione del moto. Di fatto, l’opera dei repubblicani non ebbe un carattere antireligioso. Da parte dei giacobini non vi furono azioni contro i preti, le chiese e i conventi; non si promossero confische, non si procedé all’incameramento delle terre delle mense vescovili, non si compì nulla di autenticamente giacobino. D’altronde, anche dei preti e qualche Vescovo presero parte al moto repubblicano e sempre la costituzione della municipalità fu accompagnata dal canto del Te Deum. Come si vede, non c’erano le premesse per un’azione reazionaria motivata da un preciso intendimento di difesa della religione; e non è pensabile la creazione di un così vasto moto antigiacobino solo per il fatto che in qualche paese si celebrarono due o tre matrimoni con la sola cerimonia civile, ballando e cantando attorno all’albero della libertà, oppure per i discorsi di qualche giacobino più imprudente, che andava affermando che i preti erano aguzzini e che le loro prediche erano tutte ciarle e mistificazioni. La realtà è che la reazione sanfedista ebbe un definito carattere sociale, di rivendicazione di diritti conculcati. E sotto tale profilo appare straordinaria l’abilità del Ruffo, il quale, è vero, chiese al Re di poter mescolare tra i simboli dell’agognata armata quello della croce di Cristo, ma chiese altresì i più ampi poteri per procedere ad una nuova ripartizione dei tributi e ad un profondo riordinamento amministrativo, sicuro, in tal modo, di ottenere l’adesione del popolo, troppo oppresso per non ascoltare il richiamo a quell’ordine e a quella giustizia che erano venuti meno negli ultimi decenni del ‘700. Il moto sanfedista fu, dunque, un’azione disperata contro tutti i “galantuomini”, i quali avevano instaurato il loro strapotere in ogni organo della vita pubblica. Per anni i ceti contadineschi avevano visto restringere i loro diritti, venir meno le loro scarse sostanze; per anni si erano visti in atteggiamento nemico il borghese usuraio, il proprietario, l’avvocato, il notaio; ed ora, per una spinta pressoché naturale, esplodevano in un’azione diretta e vigorosa, la quale, tra l’altro, poteva attuarsi sotto il segno della vecchia autorità e come legittima reazione agli errori degli individui e dei gruppi prevalenti. D’altro canto, nel fondo dell’animo popolare, non era spento il ricordo di tempi che, seppur duri, erano stati migliori. La sostituzione dei nuovi proprietari ai vecchi, il passaggio delle terre ecclesiastiche nelle mani di possidenti borghesi, l’instaurazione nelle amministrazioni locali di metodi rigidamente clientelistici, senza nemmeno quel tratto di comprensione e di pietà che non era mancato nei feudatari e nei nobili, tutto ciò aveva spinto il popolo a guardare al passato. Questo complesso di ragioni e di sentimenti fu, pertanto, all’origine del vasto movimento reazionario; ed è qui, a nostro avviso, il vero significato della Santa Fede, dove più che un sentimento religioso come fede consapevolmente vissuta è da vedere l’attaccamento del popolo alle tradizioni, una sorta di nostalgia per l’antico ordine di cose, il quale si traduceva nella memoria dei più come migliore e più stabile. Se nel 1799 vi furono dei vincitori essi si devono ricercare tra quei galantuomini reazionari, i quali riuscirono a contenere l’insurrezione popolare, utilizzandola, in un secondo tempo, per mettere le mani sui beni delle famiglie giacobine” (Cingari, 300-2).

 

Nota bibliografica

 G. Cingari, “Giacobini e sanfedisti in Calabria nel 1799”, Messina, 1957

  • B. Croce, “Storia del Regno di Napoli”, Laterza, 1972
  • B. Croce, “La riconquista del regno di Napoli nel 1799”, Laterza, Bari, 1943
  • P. Colletta, “Storia del Reame di Napoli”, ESI, Napoli, 1969
  • G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  • Giuseppe Galasso, “La legge antifeudale del 1799”
  • E. Striano, “Il resto di niente”, Rizzoli, 1998