Cronologia della Republica giacobina napoletana. Dodicesima puntata. 9-20 marzo 1799. Eleonora Pimentel, addolorata, si interroga sui motivi delle rivolte popolari contro la Repubblica. Cristianesimo e democrazia possono allearsi?

Cronologia della repubblica giacobina napoletana. Dodicesima puntata.

9-20 marzo 1799. “Si rafforza la Guardia Nazionale. Preoccupazione addolorata, in un articolo della Fonseca Pimentel, per il moto popolare contro la Repubblica. “Cristianesimo e democrazia” in una circolare ai vescovi del ministro-sacerdote Fr. Conforti. E’ decretata la coscrizione obbligatoria. Il cardinale Ruffo circonda Cosenza. Modifiche nel Governo Provvisorio”

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 29). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”.  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

9 marzo. Sabato. Napoli. C’è la corsa ad arruolarsi nella Guardia Nazionale. “Si cerca di organizzare con sollecitudine la milizia urbana per renderla superiore al popolo, essendo composta tutta di gente scelta. Grande è il concorso della gente che corre ad ascriversi a quella, essendosi ordinato che il non ascriversi sia di ostacolo a pretendere cariche dalla Repubblica, e temendosi che chi volontariamente non si ascrive perda il merito di buon cittadino, e possa poi essere obligato a servire nella truppa di linea. Io per me non mi sono ascritto, ed esito tuttora perché vorrei vivere nella mia quiete, se mai è possibile (… ) Il Governo Provisorio pure ha risoluto l’abolizione dei dritti feudali tutti per cui gli ex Baroni resteranno all’intutto spogliati” (De Nicola, 96-7).

Preoccupazione addolorata per il movimento popolare contro la Repubblica. Nel n. 11 del “Monitore” Eleonora Pimentel scrive: “Cittadini, che in tante Comuni bagnate le mani gli uni nel sangue degli altri, non arrossendo associarvi ad avvanzi di carcere, e pubblici infestatori di strada, partecipate con essi del brutto titolo di Insurgenti contro la patria; perché pugnate, e per chi? Non per l’aristocrazia e il baronaggio, avverso il quale avete sempre reclamato; non pel fuggito despota, che tutti avevate in esecrazione, e vilipendo; non pel nostro culto, la nostra Religione, che voi vedete intemerata ed intatta; non per le vostre sostanze, che così disperdete a vicenda. Qual biasimevole contrasto opponete ora Voi ai vostri avoli dei tempi del gran Masaniello! Senza tanto lume di dottrine e di esempi, quanti ora ne avete, dié Napoli le mosse, proseguirono i vostri avoli, insorsero da per tutto contro il dispotismo, gridarono la Repubblica, tentarono stabilir la democrazia, e per solo ragionevole istinto reclamarono i diritti dell’Uomo. Ora proclamano l’uguaglianza, e la democrazia i nobili, la sdegnano le popolazioni! Non vedete voi i vostri Vescovi, i vostri Parrochi, unirsi alla Repubblica, ed inculcarvela come utile a Voi? Qual fantasma vi atterrisce ancora col nome dell’avvilito despota fuggitivo? Se tra gli odii, onde siete, reciprocamente accesi, e tra i delitti nei quali vi immergete, deste campo alla verità dei fatti di pervenir sino a voi, sapreste, che la squadra inglese non è più in Sicilia, che quel despota, tremante, disarmato, destituito di forze e di mezzi, e non men di qui, odiato colà, anziché poter venire e soccorrere e premiar voi, non trova chi soccorra e sostenga lui, e sta per fuggir o essere arrestato in Sicilia. Ma qual sarà il rimedio a tanto e sì terribile male? Brugiar le comunità, fucilar chiunque porti le armi? No. In molti comuni i pacifici cittadini vogliono pace; proclamiamo il perdono alle comuni che rientreranno nell’obbedienza; proclamiamo a nome del governo una legge utile alle provincie; e questa è l’abolizione della feudalità; e coll’una e coll’altra legge diamo una pruova di fatto che Napoli è sotto un governo repubblicano, e che questo governo è più utile a’ popoli. Sottopongo queste riflessioni al nostro governo, che composto quasi tutto da illustri martiri della causa del popolo, han particolarmente sofferto per migliorar la sorte appunto di cotesta preziosissima e sempre nelle monarchie oppressa parte” (Croce, “La rivoluzione napoletana…, p. 51-2).

Maida (Calabria). Il card. Ruffo, proseguendo nella sua opera di riforma, con questo editto concede la riduzione del testatico, cioè della tassazione pro- capite. Era l’imposizione più rudimentale, che non teneva conto del reddito né di alcun altro elemento. Il testatico gravava solo sul popolo, poiché baroni, preti e altre categorie privilegiate erano esenti da ogni obbligo fiscale. “In nome del Re ordina: Che dal dì primo aprile di questo anno 1799 in avanti l’amato suo popolo delle Calabrie pagar non dovesse per ragion di testatico che soli annui carlini sei, invece di dodici come era prima di questo tempo. Che lo stesso amatissimo suo popolo per le industrie delle due braccia pagasse soltanto la metà di quello in cui prima di questo real editto era solito tassarsi. Che il possessore di cento pecore o capre di qualunque età si fossero, a meno che non siano allievi dello stesso anno, pagar non debba, che la sola metà della tassa catastale; che lo stesso valer debba per lo possessore di sei troie e di quattro animali vaccini, sieno bovi, sieno vacche, o pure di due asini o altre bestie da carico” (Battaglini, pp. 112).

10 marzo. Domenica. Napoli. Continua la discussione della legge abolitiva dei feudi: il contrasto tra le tesi dei moderati e quelle dei radicali si fa più aspro.

Torna a Napoli il famigerato commissario francese Faypoult, allontanato a suo tempo da Championnet per i suoi contrasti col Governo Provvisorio. “E’ assetato di vendetta. Uniformandosi alle richieste del Direttorio, che contava di ricavare da Napoli almeno 50 milioni di ducati, Faypoult estende col consenso di MacDonald la sua mano rapace su tutte le proprietà pubbliche e private appropriandosi di ogni cosa di valore in città e nella Repubblica” (Sani, 41).

“Questa mattina si è innalzato altro albore a Porta Capuana con parata della truppa nazionale, che va diventando numerosissima, è riuscita la funzione allegrissima, avendo ivi mangiato tutta la truppa, e dato da mangiare al popolo, per cui è tornata tra gli evviva del medesimo. La legge abolitiva dei dritti feudali si dice che abbia incontrato ostacolo nella sanzione, perché in Provisorio vi fu chi sostenne che era troppo aspra, e proponeva per modello quella che per l’oggetto medesimo si era fatta in Francia; ma vi fu chi gli oppose e volle dire che qui vi era chi sapeva fare qualche cosa di meglio. Questa presunzione merita una mortificazione” (De Nicola, p. 97).

11 marzo. Lunedì. Napoli. “E’ pubblicato questo editto: “I cittadini tutti non debbono da oggi fare uso, asportare, o tenere presso di loro nelle private case le lunghe piroccole nodose, sotto pena della carcerazione in caso di contravvenzione. Salute e fratellanza!” (Rodolico, pp. 168-9).

Maida (Calabria). “Va inteso, infine, l’importante ruolo svolto nell’Armata di Ruffo dai numerosi preti che, imbracciato il fucile (ma, invero, erano adusati a questi trascorsi), divennero capimassa, in nulla distinguendosi dagli altri comandanti sanfedisti. Solitamente venivano essi da famiglie modeste e nutrivano un fortissimo odio per i possidenti, per tutti i fortunati che avevano conseguito eminenti posizioni economiche e sociali. D’altronde, non avevano remore morali. Se non può negarsi l’esistenza di preti buoni ed onesti e di prelati di elevati sentimenti, resta il fatto che il clero calabrese, nel suo complesso, era di pessimi costumi, abituato alla violenza, sregolato nei rapporti sociali, nascostamente o apertamente libertino più dei libertini giacobini. E’ evidente, dunque, che per tutti questi sacerdoti il moto sanfedista ebbe il valore di una grande avventura: fregiandosi di simboli cristiani e arruolandosi nelle masse del Ruffo, essi potevano altresì conseguire un qualche miglioramento economico; e tutto ciò con maggiore possibilità di successo quando al moto giacobino aveva aderito il Vescovo e diveniva possibile, attraverso un pretesto politico, ottenere riparazioni personali. Comunque, bastano le loro suppliche al Re per intendere appieno le ragioni delle loro azioni: tutti chiedono compensi e terre; tutti denunziano giacobini per ottenere le loro proprietà; e qualcuno addirittura chiede la dote per le proprie sorelle!” (Cingari, pp. 302-3).

12 marzo. Martedì. Napoli. Ritornano dalla Puglia le armate di Duhesme e Carafa.

Cristianesimo e democrazia. “Il ministro dell’Interno, Francesco Conforti (1743-1799), uno dei massimi esponenti del riformismo cattolico meridionale, indirizza questa circolare ai Vescovi sia per indicare i limiti e la portata della loro missione nel nuovo ordinamento, sia per suggerire, indirettamente, le risposte agli interrogativi maliziosi dei reazionari. “L’interessante Ministero a voi divinamente affidato, venerandi cittadini, vi impone di dissipare e distruggere quello spirito d’insurrezione, che dopo la felice rovina del dispotismo continua ad agitare le vostre Diocesi. La parte del popolo, che è mossa da questo fanatico incitamento, vive nell’errore disseminato da quegli Ecclesiastici, cui piacque di abbandonare la divina missione di rendere felice il genere umano, per divenire ministri della tirannia. Tocca a voi d’illuminare gl’ignoranti, istruendoli che si è organizzata tra noi un’Amministrazione, in cui il diritto e l’interesse si uniscono, e la giustizia e l’utilità si accordano, e che il Governo di questo genere è il più conforme alla mente del Vangelo. Tra le diverse forme di amministrazione sociale la democrazia è il più gran beneficio che Dio faccia al genere umano. Felice è quella nazione che, rotti i ferri del dispotismo, si organizza in Repubblica. La felicità dell’uomo dipende dall’esercizio dei suoi dritti imprescrittibili, che sono la libertà, l’eguaglianza, le proprietà e la sicurezza (…) Nella Repubblica l’uomo diviene cittadino, cioè membro della Sovranità, poiché il popolo è il vero Sovrano. Da Gesù Cristo fu commendata la democrazia; perché nell’Evangelo gli uomini vengono invitati alla Libertà e all’Eguaglianza, ossia al godimento di quei diritti, che sono il fondamento della Costituzione Repubblicana” (Battaglini, pp. 82-3).

Scoppia la guerra tra la Francia e gli Austro-Russi. Movimenti di truppe nella pianura padana.

Il Monitore dà notizia che a Matera “il canonico Tateranni ha scritto il “Catechismo nazionale dei cittadini” che, col facile mezzo di domande e risposte, svolge e spiana tutte le necessarie nozioni dello stabilimento sociale, ne fa comprendere i doveri e ne facilita l’esecuzione” (il Monitore Napolitano, 138).

13 marzo. Mercoledì. Napoli. Il generale MacDonald rifiuta di sanzionare la legge sui feudi e quella sui fidecommessi. Bassal è chiamato dinanzi al Consiglio di guerra.

“Una pastorale, redatta dal sacerdote Troisi –membro della Commissione ecclesiastica-, è stata sottoposta l’altro ieri alla firma dell’arcivescovo di Napoli, cardinale Zurlo; il giorno dopo, non avendo egli risposto, la pastorale è stata pubblicata col suo nome. L’arcivescovo ha protestato ma la sua protesta non è stata resa pubblica. In una lettera al ministro Conforti l’arcivescovo scrive: “Non posso dissimularvi la sorpresa che mi ha recato il vedere dato in mio nome alle stampe la nota pastorale senza mia saputa, anzi contro il mio divieto, giacché avevo detto all’abate Troisi di volerla prima correggere e moderare” (Rodolico, p. 156).

14 marzo. Giovedì. Napoli. E’ pubblicato un editto sulla coscrizione obbligatoria.

“La mozione della detta legge per i feudi si fece in pubblico, e fu applaudito il voto del rappresentante Mario Pagano, che sosteneva la sola abolizione dei dritti feudali personali, volendo che per le prestazioni reali i Baroni si considerassero come tutti gli altri possidenti, ebbe attacco con Laubert e Cestari, che sostennero il contrario” (De Nicola, pp. 100-1).

“Nel pomeriggio, sotto l’acquerugiola, un’inutile, anche pericolosa parata militare repubblicana, voluta dal Governo nel tentativo di mostrare forza. A San Ferdinando si bruceranno le bandiere catturate alla Santa Fede nell’unico scontro vittorioso. I patrioti sono nervosi, cupi. Oltre i cordoni di granatieri dalle visiere dei chepì lucide di pioggia, poca folla silenziosa, torva. Sfilano i radi reparti di Guardia Nazionale, esercito, cavalleria, artiglieria repubblicani, con le belle divise appena uscite dalla sartoria messa su per ordine di Ruvo: larghi sparati gialli sulle giubbe blu notte, colletti e paramani rossi, i colori di Napoli. Eleonora Pimentel è andata a vedere, con Astore che regge un grande ombrello da parolano in tela cerata verde. Sfilano bene, con aspetto marziale. Trascinano nel fango le bandiere nemiche: come faranno a bruciarle, così intrise? La cavalleria è scarsa ma bellissima: la guida, impettito, Ruvo, enorme su un cavallone sauro. Ma la gente, che pure s’entusiasma ai cavalli, resta zitta. Fermento di curiosità, residui di simpatia al passaggio di Francesco Caracciolo in testa alla marina repubblicana, che è poi composta da un centinaio di ragazzi con le vecchie divise borboniche, coccarde tricolori ai berretti. Caracciolo è invecchiato: dalla feluca blu e d’oro, inzuppata di pioggia, sbucano le bande dei capelli grigi. Cammina con sguardo in avanti, bocca serrata. Perché è tornato? Davvero in lui tanto patriottismo? O esistono anche in Caracciolo motivazioni segrete che, nate da eventi della vita, fermentano nelle falde umidicce dell’inconscio? Per sgorgare improvvise in forma d’eroismi, delitti, grandiosità? Fatti di donne, favorite e regine, han fermentato per Caracciolo? E’ stato sempre personaggio un po’ misterioso, riservato. E’ venuto a morire qui. Lo sa bene anche lui che moriremo tutti. Perché vuole morire? Nella sua annoiata saggezza di gran signore napoletano pensa sia volgare sottrarre alla morte pochi anni insulsi, quando la si può sfruttare per conclusione elegante, rispettabile? O, più semplicemente, appreso che Nelson naviga verso le isole del golfo, vuol dimostrargli, ancora e sempre, che il mare napoletano è di Caracciolo? Sebbene disponga di mezzi infimi: i due sciabecchi, la gabarra, le quattro navicelle da cui è composta la flotta repubblicana. Avrebbe mai potuto, Francesco, sopravvivere, inerte, a Palermo? In miserabili tragitti da minimo cabotaggio, per trasferire alle feste di Mondello, re, regina, dame della Corte? Lontano dalla costa ineffabile del golfo, che lui fin da ragazzo conosce in ogni roccia, scoglio?” (Striano, 327-8).

Campo di Catanzaro (Calabria). Il card. Ruffo scrive ad Acton: “Sono alla marina di Catanzaro. Ho passato il fiume dopo avere stentato due giorni a passarlo, e finalmente mi è riuscito con tutta l’artiglieria. Mi sono risoluto di prendere la strada di Cotrone, invece di quella di Cosenza, poiché ho saputo con certezza che vi è una strada che viene da Matera, e prima da Puglia, che viene comodamente a Cosenza e mi sembra che debbasi parare ed assicurare. Questa strada si unisce con quella che unicamente porta per Lagonero a Napoli, e dovrebbe essere a Tarsia, con un fiume anche di riguardo, che puol servire di un luogo da tener fermo con poca gente. Intanto Cutro è nostro. S. Giovanni in Fiore (con mia sorpresa) realista fierissimo; Strongoli nel modo stesso, Santa Severina, Cariati nostri. Ho avuto anche nuove che Rossano è nostro, Luzi nostro, si crede anche Corigliano. Li piccoli paesi che circondano Cotrone sono tutti nostri senza eccezione. Non vi sono che pochi casali di Cerenzia che tengono l’albero. Umbriatico è repubblicano, Bisignano lo è pure, Cassano non lo so. Cosenza con pochi casali della sua piana è repubblicana; ma stanno circondati da tutti paesi che tengono per noi (…) Le cose che ho fatte consistono a moderare i diritti dei baroni senza distruggerli, a moderare i fiscali e i pesi a beneficio dei poveri, ed a facilitare il commercio quanto è possibile, senza correre il pericolo di soffrire penuria nell’interno. Prendo ai baroni grani, sete, olio, cavalli se ne trovo ecc (…) Accludo a V. E. anche l’editto che ho creduto pubblicare a sollievo dei poveri, prevenendola che desidero riformare l’unciario come quello che è ingiusto e formato per cabala dei ricchi”  (Croce, “La riconquista…”, pp. 64-7).

15 marzo. Venerdì. Napoli. Voci insistenti di modifiche del Governo Provvisorio.

Proposte serie o vaneggiamenti? Lauberg scrive a F. A. Ciaia a Parigi: “Vi parlo dei nostri affari. Gli insorgenti si mantengono ancora in grandissimo fermento. Andria e Ruvo nella Puglia sono i paesi più facinorosi; hanno attaccato Barletta ma sono stati battuti. Nelle Calabrie Ruffo fa dei guasti orribili. Ma i patrioti fanno dei progressi. Carafa parte per la Puglia con molti patrioti. Nell’insufficienza dei mezzi si son prese quelle misure che si sono credute le più efficaci; ma pochi mezzi, poco si è potuto conseguire. Sarebbe necessario che tu facessi presente al Direttorio un oggetto molto importante. Nei stabilimenti di Corfù, di Malta e di Egitto, i bisogni dei Dipartimenti meridionali di Francia, la necessità di cacciare gli Inglesi dal Mediterraneo esigono che i Francesi sieno presto padroni della Sicilia. Tralascio un’infinità di altre ragioni. Se noi battiamo i tedeschi sull’Adige, si potrebbero tener questi paesi dalle truppe nostre, dalla guardia civica e da quei francesi che si credono necessari per custodire i castelli; intanto le truppe francesi, unite ai patrioti calabresi, potrebbero tentare uno sbarco in Sicilia: non bisogna dare molto tempo ai nostri nemici, perché si potrebbero fortificare ed arrecarci grandissimi ostacoli. Vorrei dunque che le truppe francesi si avanzassero verso la Calabria, per quindi aspettar le opportunità onde tentare uno sbarco; e che un altro corpo restasse in osservazione negli Abruzzi per accorrere al bisogno e tenere in rispetto quei popoli. I Francesi volendo naturalmente conservar la Sicilia, sarebbe conveniente cederci la Repubblica Romana per una specie di compenso (…) Bisognerebbe infine che il Direttorio stabilisse una giusta e sicura linea di demarcazione tra gli oggetti che appartengono alla Repubblica Francese e quelli che spettano alla Repubblica Napoletana, affinché gli agenti rispettivi non s’inviluppassero nelle loro operazioni. La voce pubblica annuncia una riforma nel Governo. Non saprei dirti precisamente chi sono quelli che escono; ma si parla di me, di Paribelli e di altri. Addio” (Relazioni dei patrioti napoletani, pp. 296-8).

16 marzo. Sabato. Napoli. Ettore Carafa, conte di Ruvo, riparte per la Puglia.

17 marzo. Domenica. Napoli. Cresce il malcontento popolare. Divisioni tra i patrioti repubblicani. Per le notizie che si danno vi è del fermento in città, le insorgenze nelle provincie sempre più crescono. Oltre al partito realista, che è molto più grande di quello che si crede, i stessi patriotti sono tra loro divisi e formano diviso partito, brigano cariche, e si disputano il governo della Repubblica. Questo è voler cominciare dove le altre Repubbliche hanno finito. La situazione nostra intanto è la più pericolosa, perché le nostre castella che dominano tutta la città, sono a portata di distruggere in ogni caso di mossa, ed i Francesi le hanno guarnite di provisioni da guerra e bocca. Il numero dei malcontenti sempre più cresce, tra per la tassa che non è possibile pagarsi, tra pel contante che manca, pe’ viveri cari e pe’ rapporti che son cessati, e che fanno molti languire nella miseria. Il popolo invece di affezionarsi al Governo più si disgusta” (De Nicola, p. 102).

Soppressione dei conventi di San Domenico Maggiore, San Paolo Maggiore, S. Agostino de’ Scalzi, San Tommaso d’Aquino.

18 marzo. Lunedì. Napoli. Cinque Rappresentanti del Provvisorio (Lauberg, Riario, Cestari, Rotondo, Fasulo) vengono denunziati. Si prospettano profonde modifiche nel Governo Provvisorio.

Questa sera mi giunge notizia che siano stati tolti dal Provisorio come estorsori cinque rappresentanti, cioè Laubert, Riario, Cestari, Rotondo, Fasulo, mi par mille anni domani per appurarlo con certezza. Si sente pure che vi sia un partito fatto dal cav. Medici per essere posto alla testa degli affari”  (De Nicola, pp. 103-4).

19 marzo. Martedì. Napoli. “Pastorale” del card. Zurlo, arcivescovo di Napoli, in cui si dà una caratterizzazione religiosa, oltre che civile, dei concetti di libertà e di eguaglianza e si esorta al rispetto e alla difesa dello Stato repubblicano. Si saprà, poi, che la firma non c’è mai stata e che il testo è stato scritto dalla Commissione Ecclesiastica della Repubblica.

“Nel 1799 il popolo napoletano (giacobino o sanfedista) si muove all’insegna della superstizione. E’ noto l’episodio grottesco della scomunica lanciata dal cardinale di Napoli al Ruffo, allorché si sparse la voce che questi si era autonominato papa, e l’altro che vide contrapporre al santo napoletano per antonomasia (Gennaro) un nuovo protettore (S. Antonio), con la conseguente condanna del primo, ritenuto colpevole di collaborazionismo coi francesi e privato di tutti i titoli e i diritti dei quali la venerazione dei napoletani lo aveva adornato per secoli. Questa posizione autonoma del popolo, non il suo schierarsi a fianco dei Borboni, fu la causa prima dell’attrito con la borghesia giacobina e rese impossibile, a differenza della Francia, la collaborazione tra le due classi. Così in parte si spiegherà il crollo, sul nascere, della Repubblica napoletana, priva dell’apporto insostituibile della forza popolare e perciò impedita nella costruzione di un ordinamento veramente nuovo” (Battaglini, p. 19).

Si promette la protezione del culto e dei suoi ministri, si fa sentire che si vogliono tutte le solennità religiose di settimana Santa, e poi si ordina in questi giorni stessi la soppressione dei monasteri più utili alla Religione, S. Domenico per la predicazione, i Pii Operarii per le missioni entro e fuori Napoli, e pel servizio della Chiesa in confessioni ed esercizii e funzioni religiose. E tutto pel canale del Ministero dell’Interno, di quel Proteo scellerato di Francesco Conforti, che sotto la Monarchia fu teologo di Corte, Regalista sfacciato, assassino pubblico, e che ora finge il religioso patriottico ed il zelante repubblicano. Si è affissa una pastorale di Sua Eminenza, che naturalmente gli è stata mandata perché la pubblicasse (…) Stiamo male malissimo e soffriamo con un governo tutto dispotico, mentre ci si promette la democrazia. Siamo liberi in parola, schiavi in effetto” (De Nicola, 104)

20 marzo. Mercoledì. Napoli. “Il Governo Provisorio ha permesso per sabato santo il suono delle campane per la gloria. Questa notte parte Schipani colla sua legione per la Calabria, e con lui anche truppa di linea (…) Si dicono cambiati i Ministri, Conforti, che lo era dell’interno, Mastellone di Giustizia, Arcambal di Guerra” (De Nicola, pp. 105-6).

La Napoli così splendente mi sembrava ora nera e triste come un sepolcro. Di solito i monasteri sui monti tutt’intorno erano illuminati da mille luci per le feste sante, i cannoni sparavano a salve e brillavano i fuochi d’artificio. Adesso era tutto scuro e desolato; gli alti palazzi s’innalzavano sinistri e silenziosi, soltanto qua e là si mostrava una luce solitaria. Il mio sangue ribolliva, i miei nervi erano scossi, il mio cuore scoraggiato! Questa città in cui avevo goduto tanta pace, tanta amicizia, tanto onore! Furono tirate le ancore, innalzate, le vele si tesero al vento. La nave cominciò a muoversi. Allora passammo dinanzi alla casa nella quale avevo vissuto per tanti anni (…) Più in là, passammo davanti a Posillipo e quando giungemmo nel luogo chiamato “la scuola di Virgilio” mi ricordai che di domenica vi passeggiavo, insieme a tutti i miei allievi, nelle ore più calde. Qui si trovano sempre alghe trascinate dalle onde. Qui risiede il merlo solitario. Quanta vivacità sentivo ogni volta nello stupendo contrasto di questo silenzio come perso fuori dal mondo e ritirato con la rumorosa confusione della città grossa, magnifica, popolosa. E questi contrasti erano così vicini tra loro! Tutto si trovava dietro le mie spalle e il malinconico ricordo di ore così serene ormai trascorse mi rendeva ancora più doloroso il tormento del presente” (dalle memorie del pittore tedesco J. H. Wilhelm Tischbein, compagno di Goethe nel suo viaggio a Napoli, pp. 23-6).

Muro Lucano. Un esempio di ribellione popolare. “Dal processo dei rei di Stato, pubblicato dal Martuscelli. “Il popolo si agitava; né mancavano pretesti inquantocché i popolani ora domandavano agli Eletti il rendiconto della gestione dei loro predecessori, ora la dissodazione delle difese Pesterola e Parata, di cui non si erano peranco rivendicati i diritti del Comune già in causa col feudatario Orsini, ora la espulsione di PP. Conventuali di S. Francesco per spartirsene i beni”. L’insurrezione scoppia ben presto: i possidenti di Muro, repubblicani, si unirono in una lega armata ai possidenti di altri paesi vicini, dove il popolo era insorto per le stesse ragioni. Il campo è nettamente diviso tra le due classi sociali: la lista dei condannati di Muro, rei di Stato, comprende avvocati, notai, medici, canonici ed un monaco, che, datosi agli affari, così è detto nel processo, si era arricchito. Di popolani la lunga lista comprende solo un beccaio ed un sarto: i sarti nel ’99 erano stati requisiti per berretti frigi, bandiere, abiti repubblicani. “Traditori del popolo” erano costoro per il popolo, e furono tra le prime vittime della rivoluzione popolare. Il popolo tumultuante, nella sua particolare logica e nella sua bestiale vendetta, appicca altri incendi e cerca altre vittime: gli archivi pubblici e privati, donde feudatari, signori e galantuomini traggono carte per vantare diritti. Quelle carte che il popolo non sa leggere, quegli archivi, e quegli stessi che sanno leggere, sono tutti nemici del popolo. L’istruzione stessa appare a quelle menti turbate dalle passate sofferenze come uno strumento di dominazione e non come mezzo di elevazione. Quando a Palata fu abbattuto l’albero della libertà e un tal Tommasone era stato acclamato generale del popolo, i contadini giravano per il paese, gridando che si dovevano impiccare tutti coloro che sapevano leggere, e fecero suonare le campane a morto, al grido alla giustizia” (Rodolico, pp. 203-5).

 

Nota bibliografica

  • M. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, Firenze, 1973
  • G. Cingari, “Giacobini e sanfedisti in Calabria nel 1799”, Messina, 1957
  • B. Croce, “La riconquista del regno di Napoli nel 1799”, Laterza, Bari, 1943
  • B. Croce, “La rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
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