Dante Alighieri, “Gli ultimi versi del “Paradiso”. Lettura di W. Siti

Dante Alighieri (1265-1321), Gli ultimi versi del “Paradiso”

 

Ne la profonda e chiara sussistenza

de l’alto lume parvermi tre giri

di tre colori e d’una contenenza;                                            117

e l’un da l’altro come iri da iri

parea reflesso, e ‘l terzo parea foco

che quinci e quindi igualmente si spiri.                                  120

Oh quanto è corto il dire e come fioco

al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,

è tanto, che non basta a dicer “poco”.                                 123

O luce etterna che sola in te sidi,

sola t’intendi, e da te intelletta

e intendente te ami e arridi!                                                     126

Quella circulazion che sì concetta

pareva in te come lume reflesso,

da li occhi miei alquanto circumspetta,                                129

dentro da sé, del suo colore stesso,

mi parve pinta de la nostra effige:

per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.                              132

Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige

per misurar lo cerchio, e non ritrova,

pensando, quel principio ond’elli indige,                              135

tal ero io a quella vista nova:

veder voleva come si convenne

l’imago al cerchio e come vi s’indova;                                               138

ma non eran da ciò le proprie penne:

se non che la mia mente fu percossa

da un fulgore in che sua voglia venne.                                  141

A l’alta fantasia qui mancò possa;

ma già volgeva ‘l mio disio e ‘l velle,

sì come rota ch’igualmente è mossa,                                    144

l’amor che move il sole e l’altre stelle.                                   145

 

da “La Divina Commedia”, Il Paradiso”, vv. 115-145

Stavolta non si tratta di una lirica autonoma: sono i 32 versi finali dell’ultimo canto del Paradiso. Qui giunge al termine, e al culmine, un’opera che Dante si portava dietro da una ventina d’anni –e qui il viaggio ultraterreno tocca il suo obiettivo, la visione di Dio. E’ dall’inizio del canto, e anche da prima, che Dante sta lottando (lui che ha sofferto di malattie oftalmiche e per questo si è raccomandato a Santa Lucia) con la propria acutezza visiva: le preghiere dei beati e l’intercessione di Beatrice gli danno la Grazia necessaria per ficcare sempre più gli occhi nei misteri dell’essenza divina, per successive approssimazioni. Già ha visto, nei versi precedenti, come in Dio sia racchiuso e compresso l’universo, “legato con amore in un volume”; le categorie di spazio e tempo sono saltate e lui continua a scusarsi dell’impotenza espressiva (“riesco a raccontare quel che ho visto, e inteso, in percentuale così minima che dire “poco” non rende l’idea”).

Ora vede altre due cose che rappresentano incomprensibili dogmi della religione cristiana; la Trinità e le due nature di Cristo. Gli appaiono tre cerchi sovrapposti, con stesso centro e stesso raggio, ma che, ciò nonostante, si distinguono l’uno dall’altro: il secondo sembra un riflesso del primo e il terzo (lo Spirito Santo) si riflette come un fuoco su entrambi. Il secondo poi (quello “riflesso”) dà l’impressione di aver dipinta dentro una figura nel medesimo colore dello sfondo –ulteriore impossibilità fisica che però s’impone all’intelletto e allo sguardo. Il secondo cerchio rappresenta il Figlio ed è l’umanità di Cristo quella che si disegna, visibile-invisibile, nella divinità del cerchio. Dante si sforza di capire come l’immagine si stagli sullo sfondo ad essa omogeneo, e fa lo stesso sforzo degli studiosi di geometria quando cercano di venire a capo della quadratura del circolo; ma la sua mente non arriva a tanto –senonché proprio in quel momento viene colpito da una folgorazione in cui la comprensione assoluta si realizza. Dante ha capito i dogmi, ha capito Dio; ma non riesce a raccontarlo perché la sua potenza immaginativa e rappresentativa (la “fantasia”) si è annullata nell’istante stesso in cui realizzava il proprio fine.

Si è discusso a lungo se il viaggio della Commedia sia da intendere come finzione poetica o come effettiva visione mistica dell’aldilà; insomma se Dante credesse davvero di aver “visto” ciò che racconta. Io sono tra chi ritiene che la Commedia sia una “visione in sonno” e che Dante fosse convinto della portata profetica del suo racconto; soffriva periodicamente di crisi epilettiche e fin dal tempo della Vita nova aveva interpretato queste crisi come segno di predestinazione, che il suo corpo fosse un recipiente adatto a illuminazioni trans-sensoriali. Nella sua epoca le visioni venivano prese sul serio, se ne distinguevano varie specie e nessuno metteva in dubbio che fossero un veicolo per la verità (una volta escluse le loro contraffazioni diaboliche). Inoltre la “visio” era un genere letterario diffuso, un collaudato contenitore narrativo. Dante è “pien di sonno” quando entra nella selva oscura e qui in paradiso, nel penultimo canto, san Bernardo lo incita ad affrettarsi perché il tempo del sonno sta per finire.

Nella lunga durata del poema questo assunto talvolta si perde, Dante stesso un po’ se lo dimentica e il viaggio diventa, sul modello dei classici latini, epico e fantastico; ma nel finale l’esperienza mistica risorge potente. Anzi, accade qualcosa di straordinario e inedito: l’esperienza è talmente viva che impegna non solo il Dante “addormentato” ma lui tutto intero nello spingere all’estremo le proprie umane possibilità –qui supera le “visioni” intese come genere letterario e per forza di introspezione arriva ad intuire i meccanismi onirici come li intendiamo noi. Il pi-greco della quadratura del circolo è un numero irrazionale che ha rapporto con l’infinito; la distinzione dei cerchi sovrapposti sarebbe comprensibile solo in uno spazio multi-dimensionale; l’acume visivo può coincidere col torpore patologico solo in una logica che superi il principio di non-contraddizione: tutte caratteristiche che la moderna psicanalisi ha riconosciuto come proprie dell’inconscio. Dante insomma, per genio di coerenza poetica, ha reso realistico e autobiografico il “sonno” della tradizione.

Per descrivere l’indescrivibile mette a frutto quello che sa: il linguaggio della filosofia scolastica (la “sussistenza”, cioè l’esistenza di un ente senza bisogno di altri enti, il “velle”, cioè la volontà), le conoscenze di geometria, le occasioni personali (la nave Argo vista dal basso, di cui si parla in un paragone pochi versi prima dei nostri, ha la stessa forma delle “mandorle” degli affreschi che aveva visto a Roma durante il Giubileo); inventa perfino un verbo che non esiste (“indovarsi” nel senso di “situarsi”); niente di questo basta –entrare nel meccanismo rotatorio dell’Assoluto significa esaurire se stessi (Dante morirà poco dopo) e insieme aver realizzato un’opera che ha l’analogo ritmo ternario di quel meccanismo (la parola “stelle” che conclude ogni cantica); un libro che può gareggiare con quello riassunto in Dio.

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 28 dicembre 2014, p. 54