“Er temporale de jeri” di G. G. Belli. Tempo e Natura.

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. Tempo e Natura. “Er temporale de jeri”. 24 gennaio 1835

 

E’ cosa nota che Belli, sperimentatore irrefrenabile in fatto di soluzioni linguistiche, andasse in giro per Roma munito di penna e foglietti, annotando con precisione di cronista esclamazioni, modi di dire, interi brani di dialoghi che sentiva dai suoi interlocutori popolari. E’ anche vero che il romanesco di allora non era una lingua molto omogenea. Per più ragioni. Nella prima metà dell’Ottocento l’antico dialetto romanesco –che era più simile al napoletano  (come si può dedurre dalla trecentesca e bellissima “Vita di Cola di Rienzo”)- era quasi scomparso dalla città. Da una parte, infatti, il sacco del 1527 e le epidemie avevano quasi spopolato Roma dei suoi abitanti originari, dall’altra lo Stato Vaticano ha sempre avuto una classe dirigente non locale. I cardinali arrivavano qui dalla Lombardia, dall’Emilia come dalla Campania e dalla Sicilia. In particolare la Curia romana è stata soggetta a una forte toscanizzazione già dal ‘400, con il risultato che anche la borghesia aveva preso a sdegnare un dialetto col quale si esprimevano solo le classi popolari e che perciò immediatamente denunciava il basso livello sociale di chi lo parlava. Diventata la lingua dei miserabili e dei reietti (a differenza del milanese usato da Porta, che era parlato dal popolo ma anche dalla famiglia Manzoni), il dialetto romanesco acquista anche una sua grandiosa espressività, tragica e grottesca insieme: è un volgare duro, sguaiato, incazzoso e sfottente, la lingua del sesso, della violenza, della miseria estrema, dell’empietà, del ghigno beffardo e sarcastico con il quale l’oppresso reagisce ai soprusi.

A volte sembra che quei popolani non conoscano la differenza tra umano e disumano. Tutto ciò che accade confonde il loro agire con l’agire naturale degli elementi. La violenza di un temporale, il flagello del vento, l’implacabilità del sole, l’avarizia della terra, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo non sono semplici dettagli atmosferici ma la culla di sordide e violente tragedie. A volte i personaggi non sanno neppure perché uccidono e, se uccidono, a volte non ricordano neppure perché fuggono e da chi. C’è uno stordimento che confonde torti e colpe e allinea le loro azioni all’istinto degli animali braccati. E’ un’umanità minore e dannata che, inconsapevole, agisce fuori dalla storia (v. il sonetto “er lupo manaro” del 15 gennaio 1833). Non conoscono la trama della loro infelicità, non ne intuiscono le conseguenze: continuano a vivere dentro la sventura ignari del proprio destino. Ma così riescono ad assaporare anche tante gocce di breve contentezza. “La coscienza che nulla può cambiare (nella mente del popolano le rovine della Roma antica testimoniano questo) accomuna tutti i personaggi. Allora unica difesa dei poveracci è il buon senso, la capacità di prendere la vita con filosofia; dalla descrizione di questo atteggiamento nascono parecchi sonetti nei quali donne e uomini, vecchi e disillusi, traggono le conclusioni della loro esperienza per trasmetterla a chi non sa ancora come vanno le cose del mondo. Sono questi i temi della meditazione sulla morte, sulla vecchiaia, sulla fugacità della bellezza, sull’illusorietà delle speranze in un domani migliore, risvolto amaro delle risate beffarde, degli insulti triviali e degli scherzi”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri, tanto da riecheggiare la stringatezza sapienziale che fu dei Padri del Deserto. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

                                                                       Gennaro  Cucciniello

                               Er temporale de jeri                           24 gennaio 1835

 

Ciamancava un bon quarto a mezzanotte,

quanno, tutt’in un bòtto (oh che spavento!)

sentissimo un gran turbine, e ar momento

cascà qua e là l’invetriate rotte.                                                                   4

 

Diventò er celo un forno acceso, e, drento,

li fùrmini pareveno paggnotte.

Pioveva foco, come quanno Lotte

scappò via ne l’Antico Testamento.                                                             8

 

L’acqua, er vento, li toni, le campane,

tutt’assieme facèveno un terrore

da atturasse l’orecchie co le mane.                                                              11

 

Ebbe pavura inzin Nostro Siggnore;

ma ppe Roma nun morze antro c’un cane.

Cusì er giusto patì pp’er peccatore.                                                             14

 

                                               Il temporale di ieri

 

Ci mancava un buon quarto d’ora a mezzanotte, quando, all’improvviso (oh, che spavento!) sentimmo un gran turbine e immediatamente caddero qua e là le vetrate rotte. Il cielo si incendiò come un forno acceso e i fulmini sembravano pagnotte. Pioveva fuoco, come quando Lot fuggì da Sodoma incendiata (Genesi, XIX). L’acqua, il vento, i tuoni, le campane (durante i temporali a Roma si usava suonare le campane), tutti insieme incutevano un terrore da turarsi le orecchie con le mani. Ebbe paura persino il Papa; ma per tutta Roma non morì altro che un cane. Così il giusto (che è il cane) patì al posto del peccatore (che è il papa).

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, DCD).

I primi undici versi. Io immagino il nostro raccontatore al centro di un crocchio di persone in una piazzetta tranquilla verso il tramonto. Sta commentando la scena che aveva vissuto la notte precedente e la cronaca dettaglia con minuzia i particolari: il tempo, definito con estrema precisione (poco prima della mezzanotte), lo spazio (tutti chiusi in casa, si sentivano protetti, e poi invece la tempesta che rompe i vetri e li dissemina per la casa). La visione si allarga al cielo incendiato dai lampi: il popolano richiama con efficacia metafore casalinghe (il forno acceso, le pagnotte) e rievoca memorie bibliche ascoltate in chiesa nelle prediche domenicali (la pioggia di fuoco ma –più sottile- la città di Sodoma, ripiena di peccati, e che allude agli stravizi di Roma).

Stilisticamente Belli accompagna questa semplice cronaca con attenzione e gusto: si notino gli enjambement (vv. 2-3, 7-8, 10-11) che sottolineano la velocità degli eventi, la sorpresa degli umani, l’incalzare della paura; la notazione (oh che spavento!, v. 2) che rende benissimo la sorpresa attonita del nostro cronista; l’uso delle metafore casalinghe che dà la concretezza dell’esperienza.

L’ultima terzina. La strofa slarga lo sguardo: dalla piccola umile casa plebea si va d’un fiato al palazzo vaticano, si entra nella stanza confortevole del papa, anche lui uomo impaurito. La cronaca si fa secca: in fondo il temporale, spaventoso, non ha fatto danni, solo un povero cane, morto non si sa come. L’ultimo verso è un’epigrafe lapidaria. Non è solo –come sembrerebbe a prima vista- una facile satira, per via dell’accostamento del papa (Nostro Siggnore) a un cane, considerato il peccatore della situazione. C’è molto di più: il giusto per eccellenza che patì per il peccatore è Gesù Cristo, di cui il papa è rappresentante, il Cristo in terra appunto. Chi dovrebbe morire al posto del peccatore sarebbe il papa, invece proprio il papa è il peccatore in luogo del quale muore un innocente, il cane. Il Cristo in terra, il papa, diventa così –per sottigliezza da teologo della Scolastica- la negazione di Gesù. Il Cristo in terra diviene così l’anticristo, la negazione del Cristo.

Non è inusuale leggere un Belli che sa servirsi nella sua satira delle argomentazioni e del linguaggio della teologia. Leggiamo insieme questo sonetto

                                   L’incennio ne la Mèrica                     21 febbraio 1836

 

Naturale: er zor diavolo c’istiga

ce tenta sempre a ffà cose da forca:

se tiè ppe ttutto una vitaccia porca;

e a la fine er Ziggnore ce gastiga.                                                    4

Lui se la sbriga presto, se la sbriga,

e quanno ce se mette eh nun ze sporca.

Cos’è ssuccesso a la città d’Agliorca?

S’è abbruciata, per dio!, com’una spiga.                                         8

 

Che ha ffatto? Forzi nun ha ffatto gnente;

E Iddio forz’anche l’ha mannata a ffoco

pe li peccati de quarc’antra gente.                                                  11

 

Li giudizzi de Dio chi l’indovina?

Pò èsse perché a Roma quarche coco

ha ppelato de festa una gallina.                                                        14

                                   L’incendio in America

(E’ l’incendio che distrusse 700 edifici di New York, avvenuto il 16 dicembre 1835). Naturalmente: il signor diavolo ci istiga, ci tenta sempre a fare cose da forca: si tiene per tutta la vita una “vitaccia porca”; e alla fine il Signore ci castiga. Lui non va tanto per il sottile e, quando ci si mette, non fallisce. Cosa è successo alla città di New York? Si è bruciata, per Dio, come una spiga. Che ha fatto? Forse non ha fatto niente; e Dio forse l’ha anche mandata a fuoco a causa dei peccati di qualche altra gente. Chi indovina il giudizio di Dio? Può avvenire questo incendio perché a Roma qualche cuoco ha ucciso una gallina in un giorno di festa (Qui l’accenno è sibillino e non si comprenderebbe se non si facesse riferimento al sonetto scritto nello stesso giorno e intitolato “L’editto su le feste”). –Il 18 febbraio 1836 era stato pubblicato un “Editto sull’osservanza delle feste” nel quale si diceva: “Carestia, guerra, sconfitta, saccheggi e pestilenze sono i castighi… chiaramente preparati contro i violatori e i profanatori del giorno santo”. L’Editto fu ritirato il 20 febbraio 1836.

In un altro testo il nostro poeta esprime con limpidezza e felicità la gioia di una donna che, aprendo la finestra, si trova davanti finalmente lo spettacolo di una splendida mattinata:

 

Una ggiornata come stammatina

senti, è un gran pezzo che nun z’è ppiù ddata.

Ah bbene mio! te senti arifiatata:

te s’opre er core a nun stà ppiù in cantina!                                               4

 

Tutta la vorta der celo turchina:

l’aria odora che pare imbarzimata! (…)

 

N’avem’avute de ggiornate tetre,

ma oggi se po’ ddì una primavera (…)

 

Hah! cche ttempo! È un cristallo; è un paradiso.

E’ l’immediatezza, la sorpresa, la delizia di quel gesto d’aprire la finestra e scoprire di nuovo il mondo.

                                                           Gennaro  Cucciniello